Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 15

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La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento col lavoro
e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da
portare attorno, e a cui dare dei baci, chiamandolo cattivaccio. Ella
visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella
giovane e per sentir chiamar bella giovane una Agnese, che Lucia
le diede qualche anno dopo il primo figliuolo[149]. Fermo pigliava
sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre:
d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in
piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra. Lucia
però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente
che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa
canzone e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo:
Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i
guaj, e i guaj sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire,
aggiunse ella, soavemente sorridendo, che il mio sproposito sia stato
quello di volerti bene e di promettermi a te. Fermo quella volta
rimase impacciato, e Lucia, pensandovi ancor meglio, conchiuse che le
scappate attirano bensì ordinariamente de' guaj; ma che la condotta la
più cauta, la più innocente non assicura da quelli: e che quando essi
vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce
e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè
trovata da una donnicciuola, ci è sembrata così opportuna, che abbiamo
pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti
che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823.


V.
LA SERVA DI DON ABBONDIO.

Colla compagnia di questi pensieri [_Don Abbondio_] giunse a casa,
chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel
suo salotto, dove la sua serva Vittoria[150] stava parecchiando la
tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili
a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli
occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano
così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona,
che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia
Vittoria.
--Ma che cosa ha, signor padrone?
--Niente, niente.
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non
la contò per una risposta, e proseguì:
--Come, niente? Signor padrone, ella ha avuto uno spavento: vuol darmi
ad intendere?...
--Quando dico niente, ripigliò Don Abbondio con impazienza, o è niente,
o è cosa che non posso dire.
Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato
in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.--Che non può dire
nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi
rimedierà...
--Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò.
Quando Vittoria intese questo, fu certa che v'era una cosa da sapersi
e che la cosa era grave, e giurò a sè stessa di non lasciare andare a
dormire il curato senza averla saputa.
--Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella
ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?
--Si, si, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in
sospetto.
--Ma io non dirò niente, se ella mi toglie da questa inquietudine.
--Non direte niente, come quando siete corsa a ripetere alla serva del
curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e
m'avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando...
Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un secreto
da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo
intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don
Abbondio, ma in aria sommessa:
--Oh, per amor del cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben
castigata; non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi
sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...
--Via, via, non giurate.
--Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero
parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma
ella sa, e qui fece una voce da piangere, ella sa che i misterj non li
posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...
In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore,
onde fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti, le narrò il
miserabile caso: mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo
e l'inquietudine del fatto, che non poteva esser lieto, spalancò gli
orecchi e ristette colla posata alzata nel pugno, che tenne puntato
sulla tavola.
--Misericordia! sclamò Vittoria: oh gente senza timor di Dio, oh
prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni
d'inferno!
--Zitto, zitto, a che serve tutto questo?
--Ma come farà, signor padrone?
--Oh! vedete, disse il curato in collera, i bei pareri che mi dà
costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella
nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela.
--Sa il cielo se me ne spiace, signor padrone; ma bisogna pensarci.
--Sicuro, e nell'imbroglio son io.
--Pur troppo, disse Vittoria, ma non si lasci spaventare: eh! se
costoro potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio
lascia fare, ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde.
--Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?...
--Lo conosco e so bene che...
--Zitto, zitto, questo non serve.
--Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci
a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone.
--Ma, se non ho voglia.
--Ma se le farà bene; e, detto questo, si avvicinò al seggiolone
dov'era il curato e lo mosse alquanto, come per dargli la leva: il
curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato
vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in
tempo qualche esclamazione, come: Una bagattella! ad un galantuomo par
mio, ed altre simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare
tranquillamente e ordinatamente sui casi suoi[151].
La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la
debolezza e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia
doveva quindi essere incitata e ricevere l'incarico di proporre il
partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di
tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà
il dire che il partito di fare quello che si doveva, senza darsi per
inteso della minaccia, non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello
di assentarsi, tanto da aspettare qualche benefizio dal tempo, ma
questo anche fu rigettato, perchè non v'era spazio per eseguirlo.
La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e
una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione,
avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci
e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando
intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don
Abbondio si preparò a questo esperimento, passò in rassegna tutti i
mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza (in
paragone di Fermo) e la pratica gli davano sopra quel povero giovane,
e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio
appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo
non si fece aspettare.
* * * * *
L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera,
il tuono continuo di rimbrotto, senza un perchè, quel farsi nuovo del
matrimonio, che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando
mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più
non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da
un canto; il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava
un senso così incoerente e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi
così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi
tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in
forse di ritornare al curato per incalzarlo a parlare, ma, sentendosi
caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin
fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per
portare alla sposa questa triste nuova. Sull'uscio del curato abbattè
in Vittoria, che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse
da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e, salutatala, entrò in
discorso con lei.
--Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria.
--Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino.
--Ditemi un poco, quale è la vera ragione del signor curato per non
celebrare il matrimonio oggi, come s'era convenuto.
--Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del signor curato?--È inutile
avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non
si vuole esser creduto.
--Via, ditemi quel che sapete; ajutate un povero figliuolo.
--Mala cosa nascer povero, il mio Fermino.
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo;
dirò soltanto che Vittoria, fedele ai suoi giuramenti, non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri
colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella
sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il
fatto, noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo
meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli
chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente
avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.; parlò dei rischj che un
curato corre a fare il suo dovere; del timore che uno scellerato
impunito può incutere ad un galantuomo; fece insomma intender tanto,
che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente, per
timore, come si dice, di cantare, si separò da Fermo, raccomandandogli
caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.
--Che volete ch'io taccia, disse Fermo, se non mi avete voluto dir
nulla.
--Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser
testimonio, ma vi raccomando il segreto.--Così dicendo, si mise a
correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata.
Fermo, che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era
ordita contro di lui, e che il curato la sapeva, non potè più tenersi,
e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di
sapere i fatti suoi, che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato.
* * * * *
--Mi promettete ora, disse il curato, di non dir niente?
Fermo, senza rispondere, gli chiese di nuovo perdono, e
_da lui, che molto anco volea_
_Chiedere e udir, qual lume al soffio sparve_.
Don Abbondio, dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò
Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte è accaduto a personaggi assai più importanti di Don
Abbondio di trovarsi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere
quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da
fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione,
trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero al letto
colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo
a cercare, perchè se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno
passato, l'agitazione della notte e lo spavento replicato di quella
mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando
dal brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente
Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che
Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati
e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato
aveva la febbre. Dati questi ordini, si pose a letto, dove noi lo
lasceremo senza più occuparci di lui un tratto di tempo, nel quale egli
cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per
prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo
timido, il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento, merita
meno pietà dello scellerato consumato, il quale, cercando il male e
facendolo spontaneamente, mostra almeno di avere una gran forza d'animo
e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per
quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di
quella febbre.


VI.
LA CONFESSIONE DI LUCIA E IL CONSIGLIO DI AGNESE.

Parla! parla! Parlate! parlate! gridavano in una volta la madre e
Fermo. Lucia[152], atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando,
arrossando, sclamò: Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le
cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio dì Don
Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta. Andava da
un fornello all'altro, facendo a questa e a quella mille vezzi, l'uno
peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista, a chi una peggio e si
pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e, pur troppo, v'era
chi lasciava fare. Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: badate
a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi, e borbottava
poi: gli è un cavaliere, gli è un uomo che può fare del male; è un uomo
che sa mostrare il viso. Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi
amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle
tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed
egli mi disse in collera: ci vedremo: i suoi amici ridevano di lui
ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più
alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per aver un
pretesto, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma
la filanda era sul finire, per grazia di Dio; e per quei pochi giorni
io stetti sempre in mezzo alle altre, di modo ch'egli non mi potè
cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui mi aspettava quando io
andava al mercato, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che aveva
paura d'andar sola, e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava
a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla; forse ho fatto male: ma
pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei
sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora... Qui le
parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di
pianto.
--Birbone! assassino! dannato! sclamava Fermo, correndo su e giù per
la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo
coltello.
--Ma perchè non parlare a tua madre? disse Agnese: se io l'avessi
saputo prima...
Lucia non rispose, perchè la risposta, che si sentiva in mente, non era
da darsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I
singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare.
--Non ne hai tu fatto parola con nessuno? ridimandò Agnese.
--Si, mamma, l'ho detto al Padre Galdino[153] in confessione.
--Hai fatto bene, ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto
il Padre Galdino?
--Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi, non
si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la
persecuzione, egli ci penserebbe.
--Oh che imbroglio! che imbroglio! riprese la madre.
Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di
tenerezza accorata e rabbiosa e disse: questa è l'ultima che fa quel
birbone.
--Ah no. Fermo, per amor del cielo, gridò Lucia, gettandogli quasi le
braccia al collo. No, per amor del cielo. Dio c'è anche pei poveri.
Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?
--No no, per amor del cielo, ripeteva Agnese.
--Fermo! disse Lucia, voi avete un mestiere ed io so lavorare, andiamo
lontano tanto che costui non senta più parlare di noi.
--Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà
farci la fede di stato libero? non saremo pigliati come vagabondi?
dove andarci a porre?
Lucia ricadde nel pianto. Sentite, disse Agnese; sentitemi, che son
vecchia. Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di
rado, in caso di somma necessità e quando si trattava di dar fede alle
sue parole. Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi
troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera
gente le cose pajono talvolta imbrogliate, imbrogliate, perchè non
abbiamo la pratica per uscirne. Io ho veduto molte volte dei casi
che parevano disperati: un buon parere d'un uomo che aveva studiato
aggiustò tutto. Fate a modo mio, Fermo. Pigliate quei quattro capponi,
poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto:
teneteli bene stretti per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita
il dottor Pèttola?[154].--Lo so benissimo.--Bene, andate da lui,
presentategli i capponi: perchè, vedete, quando si vede che uno può
regalare, gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli
parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del
capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e
dopo d'avergli parlato tornarono a casa vispi come un tincotto che
saltellando nella barca, per disperazione, cade nell'acqua e si trova
in casa sua. Fate così, Fermo.
Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello
di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio
che suggerisca una risoluzione presenta ostacoli, difficoltà, nuovi
imbrogli: ma questo, di consigliarsi di nuovo e meglio, è semplice, non
nuoce e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo
mezzo si troverà una uscita[155].


VII.
UNA DIGRESSIONE.

Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente
parlando, si vive meglio che a questo mondo: ben è vero che vi
s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali,
scelleraggini più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite,
che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi
vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più
invidiabili si è che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta,
per quanto sieno inferiori di forze e battuti dalla fortuna, hanno
sempre in faccia dell'empio, ancor che trionfante, una sicurezza, una
risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la
buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini
realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia
senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in
favore della giustizia, sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere
a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera
senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di
tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti
necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela e di studio che
gli fa sovente scomparire in faccia ai loro avversarj, risoluti ed
incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte,
convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori.
L'uomo retto sente, a dir vero, con certezza e con ardore la giustizia
della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza
d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso
il suo animo: se egli la esprime, fa ridere l'avversario, il quale per
un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e
pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio
e per approvatore e che vede negli altri contraddizione e scherno perde
facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare, o almeno si
trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato.
Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti
una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la
serenità della buona coscienza, se fosse più placida e più composta, e
che l'uomo onesto e nella espressione esteriore e nell'animo interno
mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna, che
si crederebbe rimorso, dimodochè a poco a poco finisce per essere
soperchiato non solo nei fatti, ma anche nel discorso e nel contegno, e
sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è
veramente.
Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre
Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento
della più stretta giustizia e la cessazione della più vile iniquità, si
rimase come confuso e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le
sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di
amici di Don Rodrigo, e in sua presenza[156].
* * * * *
In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo
e dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran
piatto piramidale di marroni arrostiti, e si portarono fiaschi
di vino più prelibato, di quello che in Lombardia si chiama vino
della _chiavetta_, e del quale, per un privilegio singolare, ogni
proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del vino,
com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridìo continuò per una buona mezz'ora: le
parole che si sentivano più spesso erano _ambrosia_ e _impiccarli_.
Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata:
e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al Padre
Cristoforo e lo condusse seco in una stanza vicina[157].
Ognuno può avere osservato che dalla peritosa sposa di contado fino
a... fino all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e, per
dirla in milanese, il più navigato, tutti hanno certi loro gesti
famigliari, certi moti insignificanti, dei quali fanno uso quasi
involontariamente, quando trovandosi con persone, colle quali non sieno
molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il momento
di dir cosa la quale non è attesa, nè sarà molto gradevole a chi deve
intenderla. La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son
costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il
quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è
che i primi coi loro moti incerti e vacillanti e goffi mostrano sempre
più il loro imbarazzo e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli
altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza
e di superiorità. Tutte le classi hanno una provvisione particolare e
caratteristica di questi atti, e questa distinzione era più osservabile
nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini e anche pel
costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi
di questo genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di
questi gesti, cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni
più note degli antichi Romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo
provocare l'impazienza del lettore, avido certamente di seguire la
nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più usuali
dei cappuccini per avere, come dicono i francesi, _une contenance_,
erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi
indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella
larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di
palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario, che tenevano
appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto faceva il Padre
Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don Rodrigo; di modo che
si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore
sa che il buon Padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di
Don Rodrigo non occorre parlare, giacchè ognun sa che nessuno è tanto
sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare.
Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di
quello che il Padre fosse per dirgli; sospetto che il contegno un po'
irresoluto del Padre aveva quasi cangiato in certezza, gli accennò con
sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio
con queste parole:--In che posso obbedirla, Padre?--Questo era il
suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire
chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere
ogni imbarazzo al Padre Cristoforo; perchè, risvegliando quell'uomo
vecchio che il Padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto
quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicchè,
invece di farsi animo, dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a
rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata che
stava per intraprendere. Onde, con modesta, ma assoluta franchezza,
rispose:--Signor Don Rodrigo, il mio sacro ministero mi obbliga a
passare un officio con vossignoria. Io desidero ardentemente che
nessuna mia parola possa spiacerle, e per antivenire ad ogni disgusto,
debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira
il bene di lei, quanto quello di qualunque altra persona.--Don Rodrigo
non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando
le ciglia e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e
sprezzante.


VIII.
IL PADRE CRISTOFORO RIPRESO DAL GUARDIANO DI PESCARENICO.

Intanto il Padre Cristoforo, benchè fiaccato e frollo delle corse,
dei disagj, delle inquietudini e delle parlate di quel giorno[158],
aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento, e
andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso, torto e reso ancor
più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando
gli accidenti della giornata e quello che poteva soprastare, parte
pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a
notte già fitta. Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò
modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare.
Il frate portinajo aperse e accolse il nostro figliuol prodigo con
quel maladetto misto dì sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di
commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione)
mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo, o anche
per qualche sventura, sembra loro stare in cattivi panni. Il Padre
Guardiano le vuoi parlare, disse costui al nostro amico, il quale seguì
la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare
una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale
gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e
fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto alla cella del Guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia
seria del Guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò
la testa sul petto e disse: Padre, son balordo. Era questa, chi noi
sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al
loro superiore. Bisogna sapere che il Guardiano era contento in fondo
del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un
lettore di otto anni potrebbe qui domandare: perchè faceva il volto
serio, se era contento? e gli si risponderebbe, che appunto era
contento perchè il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto dì fargli
il volto serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile
che il Guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui
della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di
punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser
daddovero il Padre Guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza
fare il dottore, senza disputare, dava però a dividere chiaramente
di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei
suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di
operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente,
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