Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 21

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[87] Un asilo, caro Alessandro, pare che il Cardinale voglia metterla
in monastero a fare il noviziato. [Postilla del Visconti].
[88] È un brano del capitolo IV del tomo III. (Ed.)
[89] Il consiglio chiesto dal Cardinale mi piace, ma assai. Rialza
in un modo inaspettato il Conte dopo la sua conversione, lo rende
sempre più vivo. Ma bada bene: che il Cardinale aveva ordinato la
lettiga subito dopo aver parlato coi preti, e l'ultimo consiglio
dev'essere quello del Conte, come il più di peso. Non ti spiacerebbe
di soggiungere in quel luogo dopo le parole: _Quando ebbe questa
certezza_, nella quale fu riconfermato dall'opinione d'un altro
personaggio, di cui lasceremo per ora che il lettore indovini il nome,
_Federigo ordinò_, ecc.? [Postilla del Visconti].
[90] _Tozzo di pane_ mi pare troppo da pitocco, direi un pane.
[Postilla del Visconti].
[91] Lascerei _e sul suo pericolo_, che imbroglia; pare che fosse
attualmente in qualche pericolo per parte di Rodrigo. [Postilla del
Visconti].
[92] Di fianco alla presente risposta di Federigo e alle parole del
Conte: _Ah! la dolcezza_, ecc. il Visconti scrisse: «Lascerei questi
due punti: non bisogna poi essere prodigo dì riflessioni ascetiche
in un Romanzo. Anche per l'edificazione de' lettori--non ridere tu,
sebbene io rida di me stesso--è meglio presentare più che si può con
disinvoltura le idee Cristiane». (Ed.)
[93] Leverei la _peritanza quasi puerile_, per stare alle parole del
Ripamonti; vorrei che avesse sempre il Conte nostro qualche cosa di
soldatesco. [Postilla del Visconti].
[94] Leverei _implorando_, ecc. per la ragione dianzi detta, e perchè
il Conte era uomo avvezzo ad agire, e chi è avvezzo ad agire fa
addirittura. Doveva beneficare con quella risoluzione con cui dava
dapprima de' colpi di spada. [Postilla del Visconti].
[95] Non sarebbe meglio, _di pentimento e di affezione_? [Postilla del
Visconti].
[96] È un altro brano del capitolo IV. «La scena del Conte merita
un capitolo a parte», scrisse il Visconti in margine al principio
dell'episodio; soggiungendo: «In questa porzione del Romanzo giovano,
mi pare, i periodi piuttosto brevi: e contenenti un oggetto solo,
per quanto si può. Dunque: Capitolo... (quello che sarà). _Il Conte
del Sagrato era venuto_, ecc.». Arrivato poi alle parole: _rendevano
impossibili_, tornò a notare: «Qui finirei il capitolo. Al seguente
ci penserai tu, mentre vuoi cangiare, come mi hai detto, il modo di
mandare Lucia in quella casa di signori». (Ed.)
[97] Dal paese di Lucia. (Ed.)
[98] A cominciare dalle parole: _Visitando una di quelle parrocchie_,
ecc. fino a quelle: _dalle zanne del lupo_, con cui ha fine questo
tratto del Romanzo, il Manzoni diè di frego a ogni cosa, scrivendo in
margine: «Invece di questa visita, ecc. sia Don Abbondio che avendo
saputo come Donna Prassede cercava una donna di servizio, suggerisca
ad Agnese di proporre Lucia; e lo faccia per mostrare interessamento,
e per isbrigarsene nello stesso tempo. Agnese vada da Donna Prassede,
che villeggia a qualche miglio di là e deve partire all'indomani per
Milano. Lucia è accettata. Il Conte e le conseguenze si raccontino nel
capitolo IX». (Ed.)
[99] Lo ribattezzò poi col nome di _Don Ferrante_. Quello di
_Valeriano_ gli fu suggerito dal «gran Valeriano Castiglione», autore
dello _Statista regnante_. (Ed.)
[100] Divenne poi _Donna Prassede_. (Ed.)
[101] È un brano anche questo del capitolo IV. (Ed.)
[102] Nel paese di Lucia. (Ed.)
[103] Segue, cancellato: «che nella sua povertà privata, godeva della
potenza soverchiatrice, della cupida ambizione». (Ed.)
[104] Segue, cancellato: «superficiali: se fossero diventate comuni,
se molti uomini di tutte le nazioni le avessero ricevute e messe in
pratica, fossero divenuti virtuosi come Fabricio, vi sarebbero state
molte nazioni forti per la loro temperanza e avide di dominare, le
qua[li]. (Ed.)
[105] Di fianco al periodo, che incomincia colla parola: _superficiali_
e che termina qui, il Manzoni segnò una linea e scrisse in margine:
«Direi, se si può, che quelle idee adottate universalmente avrebbero
prodotti uomini poveri e forti e ambiziosi: non migliorato il
mondo, etc. queste invece avrebbero introdotta una equa e pacifica
distribuzione delle cose necessarie, poveri soccorsi e ricchi
astinenti: cresciuta la pazienza a misura che ne sarebbe scemato il
bisogno». (Ed.)
[106] Col racconto di questo episodio della vita del cardinal Federigo
ha termine il capitolo IV del tomo III della prima minuta. (Ed.)
[107] Lampugnano, _La pestilenza seguita in Milano_, Milano, 1634, pag.
19. [Nota del Manzoni].
[108] Quest'inciso, mi pare, imbarazza la serie delle idee,
massimamente perchè _beneficenza_ significa più direttamente dono
gratuito, che una ricerca di lavoro. [Postilla del Visconti].
[109] A _molti_ di quei fini, se non m'inganno. [Postilla del Visconti].
[110] Qui il Manzoni aggiunse, in margine, ma poi cancellò: «Gli
uomini facevano allora quello che pur troppo hanno fatto quasi sempre.
Dicono intollerabile la sventura quando è ancora in picciol grado,
la rassegnazione sembra loro impossibile quando è ancor facile:
s'ingegnano tanto che la rendono più grave, e che la spingono talvolta
ad un segno, in cui non resta più nemmeno ad essi la forza necessaria
per essere impazienti, ed hanno, ben più della rassegnazione, lo
stupore». (Ed.)
[111] Il Manzoni vi ha scritto di fianco: «Grida del 2 Agosto 1628».
(Ed.)
[112] Eccone il racconto: «Non la guerra propriamente detta, ma un
passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna guerra
più accanita, desolò una parte del Milanese, e condusse la peste,
dalla quale nessun angolo di quel paese fu salvo. Ci conviene ora
accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I Gonzaga,
Duca di Mantova, era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo,
Francesco, morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia,
per nome Maria; Ferdinando, che dopo di lui tenne lo Stato, morì
senza prole legittima nel 1626; Vincenzo II, l'ultimo dei fratelli,
gli succedette in età di 32 anni, già consumato dagli stravizi, senza
speranza di prole e manifestamente vicino al sepolcro. Già molte
ambizioni, molte cupidigie, molti sospetti stavano all'erta aspettando
ch'egli vi scendesse. Ma egli aveva instituito erede per testamento
Carlo Gonzaga, Duca di Nevers, del resto suo parente più prossimo. E
per assicurare l'effetto di questa disposizione, aveva segretamente
fatto scrivere al Nevers che mandasse a Mantova il figlio, pur Carlo,
Duca di Rethel, affinchè al momento che il ducato verrebbe a vacare,
potesse pigliarne il possesso in nome del padre. Ma, oltre il ducato
di Mantova, dalla successione del quale erano per investitura escluse
le femmine, Vincenzo lasciava pur quello del Monferrato, al quale, pel
complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto pubblico
d'allora, Maria, nipote di Vincenzo, poteva aver qualche ragione. Per
togliere ogni soggetto ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca
Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare quella Maria in moglie al Duca
di Rethel, che aveva fatto chiamare. L'aspettato giovane arrivò che il
Duca Vincenzo era agli estremi: le nozze, che questi aveva proposto, si
fecero nella notte dopo il 25 Dicembre 1628, mentre egli moriva.
«La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le
commedie del teatro, ma danno sovente principio alle tragedie e alle
commedie della vita reale. Al mattino lo sposo comparve in grande
abito da lutto, assunse il titolo di Principe di Mantova, e padrone
delle armi e della cittadella, fu senza difficoltà riconosciuto dagli
abitanti. Ma v'era altri a questo mondo che avevano qualche cosa da
dire in quella faccenda.
«Luigi XIII re di Francia o per dir meglio il Cardinale di Richelieu,
sosteneva il Nevers, uomo d'origine italiana, ma nato francese; anzi
aveva egli, il Cardinale, per mezzo di legati, avuta gran parte nel
testamento del Duca Vincenzo. Don Filippo IV, o per dir meglio il
Duca d'Olivares, non poteva patire che un principe francese venisse
a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretenzioni di Don Ferrante
Gonzaga, parente più lontano del Duca Vincenzo.
«Carlo Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretenzioni sul
Monferrato; i Veneziani, ai quali dava ombra la grande potenza
spagnuola in Italia, favorivano il Duca di Rethel, ma con trattati,
con promesse e con minacce; e Urbano VIII, inclinato a quel Duca
e sopra tutto alla pace, ajutava, come poteva, queste due cause
con raccomandazioni e con proposte di accomodamenti. Finalmente
l'imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers, erede
trasversale, non aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di
feudi dell'impero, la successione ai quali era rivendicata da altri.
Richiedeva quindi che il possesso degli Stati fosse depositato presso
di lui, finch'egli gli aggiudicasse per sentenza, e citò il Duca
di Nevers con tutte le formalità allora in uso. V'erano poi altre
pretenzioni secondarie e più intralciate, che passiamo sotto silenzio,
per non annojare il lettore, il quale comincia forse a mormorare; e
certamente non saprà abbastanza apprezzare la fatica che facciamo
per restringere in brevi parole tutta questa parte di storia. Il
Duca d'Olivares, istigato continuamente dal Cordova, governatore di
Milano, strinse un trattato col Duca di Savoja contra il novello Duca
di Mantova. Questi si pose sulla difesa, si venne alle mani, Carlo
Emmanuele invase il Monferrato, e Cordova pose l'assedio a Casale. Il
Duca di Mantova, stretto da due nemici potenti, invocava gli amici; ma
i Veneziani non volevano muoversi se il Re di Francia non mandava un
esercito in Italia, e il Re di Francia, o il Cardinal di Richelieu,
era impegnato nell'assedio della Rocella. Presa questa, parati o
vinti certi intrighi imbrogliatissimi di Corte, il Re e il Cardinale
s'affacciarono all'Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca
di Savoja; si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi
superarono e acquistarono terreno, si trattò di nuovo, il passo fu
accordato, il Re e il Cardinale s'avanzarono, trassero agli accordi il
Cordova spaventato, gli fecero levare l'assedio di Casale, vi posero
guernigione francese, e tornarono a casa trionfanti, e accompagnati da
due sonetti dell'Achillini. Il primo, quello che comincia col famoso
verso:
_Sudate, o fuochi, a preparar metalli,_
è tutto di lode; l'altro è di consiglio, perchè la poesia ha sempre
avuto questo nobile privilegio di ravvolgere avvisi sapientissimi e
insegnamenti reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia e nella
magica armonia dei numeri. L'Achillini consigliava il Re di Francia,
vincitore della Roccella e liberatore di Casale, di tentare l'impresa
del Santo Sepolcro, nè più nè meno. Però il Cardinale di Richelieu non
ne fece nulla: convien dire che avesse altro in testa. Ma i Veneziani,
che allo scendere de' Francesi, s'eran dichiarati e mossi, istavano
per legati e per lettere presso il Cardinale perchè l'esercito da lui
condotto non tornasse indietro, e adducevano mille ragioni, per provare
che non era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla
prosa dei Veneziani come ai versi dell'Achillini. La guerra continuò
infatti contro il Duca di Mantova. Questi aveva fatte e andava facendo
tutte le sommessioni immaginabili all'imperatore a fine di placarlo e
di piegarlo ad accordargli l'investitura. Ma Ferdinando stava fermo in
esigere che i ducati fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle
ripulse del Duca, più che ammansato dalle sue riverenze; irritato di
più dell'aver questi domandato il soccorso francese, stimolato dalla
Corte di Madrid, si dichiarò anch'egli nemico del Duca di Mantova.
L'esercito Alemanno, di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto
il comando del Conte di Colalto, ebbe ordine di portarsi all'impresa
di Mantova; la vanguardia che, già da qualche tempo aveva occupato
ostilmente il paese de' Grigioni, si diffuse per la Valtellina e ai 20
di settembre entrò nello Stato di Milano». Questo brano è tolto dal
capitolo I del tomo IV. (Ed.)
[113] Lascerei questo paragone così intempestivo in materia così
triste. [Postilla del Visconti].
[114] Qui termina il capitolo V del tomo III. Il brano che segue è il
principio del capitolo VI. (Ed.)
[115] Prima, come fu detto, gli pose nome _Valeriano_; poi lo
ribattezzò Don Ferrante. (Ed.)
[116] Lacuna dell'originale. (Ed.)
[117] FRANCESCO D'OVIDIO [_Manzoni e Cervantes_; in _Discussioni
manzoniane_, Città di Castello, Lapi, 1886; pagine 68-72] col solito
suo acume paragonò la biblioteca dì don Quijote con quella di don
Ferrante. LORENZO STOPPATO [_La Biblioteca di don Ferrante_, Milano,
tip. Bortolotti di Giuseppe Prato, 1887; in-16º di pp. 59] ne fece
soggetto di una geniale conferenza, letta a Milano, il 17 febbraio
1887, nella sala dell'esposizione permanente di belle arti. Cfr. pure:
_I Don Ferranti ossia i moderni avvocati della peste_; in _La Civiltà
cattolica_, anno XIII, serie V, vol. II, quaderno 291 di tutta la
collezione, 3 maggio 1862, pp. 257-268.--BACCI O., _Don Ferrante nei_
«_Promessi Sposi_»; in _Saggi letterari_, Firenze, Barbèra, 1898; pp.
87-129. (Ed.)
[118] Segue, cancellato: «delle poche rime stampate e di quelle
poche prose di Claudio Achillini»; e poi: «delle rime stampate, del
discorso accademico e delle poche lettere di Claudio Achillini». Qui
il Manzoni accenna senza dubbio alle _Rime_ | _e Prose_ | _di_ CLAUDIO
| ACHILLINI. | _In questa nuova impressione_ | _accresciute di molti
sonetti,_ | _et altre compositioni_ | _non più stampate:_ | _Con
aggiunta di diverse_ | _Bellissime Lettere di Proposta, e_ | _Risposta
del medesimo autore._ | In Venetia, M.DC.LVI. | Per Giacomo Bortoli. |
Con licenza de' Superiori; in-12º. È questa infatti la prima volta che
furono raccolte e stampate le «poche lettere» dell'Achillini, mentre
le sue _Rime_ avevano avuto una quantità di edizioni. Essendo state
raccolte e stampate nel 1656, non potevano figurare nella biblioteca di
Don Ferrante, morto nel 1630; il Manzoni cancellò dunque l'accenno e
corse al ripiego di fargli invece possedere «una raccolta manoscritta
di alcune lettere» dello stesso grand'uomo. «Poche lettere», (nota il
mio amico Luigi D'Isengard), «ma c'è da imparare una nuova maniera di
estetica:--_Il sonetto inviatomi da V. S. è cosa angelica, per non
dire un angelo in versi. I due terzetti sono due Chori di Grazie. La
chiusura è una prigionia di maraviglie._--Dopo il qual giudizio non è
da mettere in dubbio che _il maggior poeta di quanti ne nascessero,
o tra i Toscani, o tra i Latini, o tra i Greci, o tra gli Hebrei_
sia Giambattista Marini; e non è da stupire che la sacra eloquenza
fosse tutta nel saio d'un cappuccino _così macilente e confitto e
sepolto dentro ai panni, che si vede, anzi non si vede, e non si ode
che una lana agitata che sgrida, un mantello vocale, un cappuccio che
atterrisce; un fuoco che scintilla fuori dalle ceneri, una nuvola bigia
che tuona spaventi, una penitenza spirante, un sacco di querele che
si riversa addosso ai peccatori. Oh Dio, quanto è vero, che questo
è il vero modo di predicare; e se tutti i predicatori fossero tali,
so certo, che più consideratamente camminerebbe il mondo_». Cfr.
D'ISENGARD L., _Claudio Achillini e Don Ferrante_; in _La Rassegna
nazionale_, di Firenze, anno XX, vol CIV, fascicolo del 1º dicembre
1898; pp. 629-636. (Ed.)
[119] Segue, cancellato: «Non vorrei con tutto questo che alcuno
pigliasse Don Ferrante per un uomo straordinario, perchè avendo
studiato un po' tutta la sua vita ed inclinando ora alla vecchiezza,
fra gli autori che teneva in stima particolare contasse molti recenti,
alcuni viventi, e alcuni perfino assai più giovani di lui. Don Ferrante
era quello che doveva essere, quello che sono sempre stati e saranno
sempre gli uomini provetti, i quali già da gran tempo hanno veduto dove
stia la perfezione del sapere, hanno adottato un sistema, e chiuso il
numero delle loro idee. La loro avversione, i loro sospetti, le loro
ire non sono già contra gli uomini nuovi, ma contra le idee nuove; anzi
se fra i giovani sorge taluno, che ricevendo con molta venerazione le
dottrine che trova trionfanti, le studia, vi si affonda dentro, e le
estende e dà loro un nuovo lume, i provetti riconoscono il suo merito
e lo esaltano con ammirabile imparzialità. Oh! se al tempo di Don
Ferrante fossero venuti oltre giovani che avessero ardito riesaminare
quelle idee che dovevano soltanto ricevere ed applicare, giovani che
avessero frugato in tutti quegli assiomi, di quegli che invece di dire:
Capisco, dicono: Perchè? avreste veduto come Don Ferrante gli avrebbe
pettinati, ma per buona sorte non ve n'era uno». (Ed.)
[120] Nell'autografo, forse per una svista, c'è scritto: _strascurato_.
(Ed.)
[121] Di Silietta il Manzoni parla di nuovo nel capitolo I del tomo IV.
«Dalla fine dell'anno 1628», (così scrive) «alla quale siamo pervenuti
con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i nostri personaggi,
quale per elezione e quale per necessità, si rimasero a un di presso
nello stato in cui gli abbiamo lasciati: e la loro vita non offre in
questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri degno di menzione. Noi
non poniamo, per esempio, tra gli avvenimenti memorabili la vestizione
di Silietta, come non si considera per una epoca importante nella
storia astronomica una piccola eclissi preveduta e calcolata e non
visibile in Europa». Il tratto però che riguarda Silietta è cancellato.
(Ed.)
[122] In margine il Manzoni notò poi questo pensiero: «La signora le
aveva lasciata una impressione confusa, ma spiacevole, etc.». (Ed.)
[123] Segue, ma cancellato: FINE DEL TOMO III. _11 Marzo 1823_.
Questo Brano forma il _Capitolo IX_ appunto del tomo III della prima
minuta. Vi aggiunse quest'altro brano: «La povera donna aveva un'altra
faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo. Quantunque egli
non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure sapendo che
egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo.
Faceva scrivere ad Agnese, per chiederle nuove della figlia; dico
faceva scrivere, perchè i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero,
non conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e
interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi
ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son
fatti e come intesi. Colui che fa scrivere dà al segretario un tema
ravviluppato e confuso; questi, parte frantende, parte vuol correggere,
parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere
come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa
leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete e con le
sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro
aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi
fra loro come due filosofi trascendentali. Il peggio è quando la
situazione della quale si vuol render conto è complicata e i disegni
e le proposte che si vogliono fare sono contingenti e condizionate.
Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di stabilirsi a Bergamo,
di viver quivi della sua professione e di farsi con quella anche un
po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia e che allora essa
venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma
i tempi non erano propizii. L'amore, che dipinge le cose facili,
bastava bensì a persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe
potuto eseguire in seguito; ma non poteva nascondergli che per allora
era ineseguibile. Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad
Agnese questo miscuglio di speranze fondate, anzi certe, di impaccio
attuale, di sì nell'avvenire e di no nel presente; Agnese ricevette
la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e fece rispondere come
potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito che la voce ne giunse a
Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione.
Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se Lucia
fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto
dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi,
come che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia
era partita per Milano; e in tale circostanza, non solo il pericolo
diventava per Fermo, incomparabilmente maggiore, ma il tentativo
incomparabilmente più difficile e l'evento quasi disperato. Dovette
egli dunque contentarsi di chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona
donna trovò il mezzo di fargli avere, per mezzo d'un mercante quei
cento scudi, che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera, nella
quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto. Ma
questa lettera non isgombrò le inquietudini e le ansietà di Fermo; anzi
i cento scudi le accrebbero: giacchè, pensava egli, ora che Lucia, per
una ventura inaspettata, possiede tanto che basta perchè noi possiamo
viver qui marito e moglie, perchè non viene ella e mi manda invece
questi denari, come un dono, come una elemosina, come... e qui Fermo
si sentiva scoppiare... come un congedo? Voglio io denari da lei? E
se ella non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? Per
quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo
spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla
vista di quei denari e dati a quel modo era assalito da mille dubbi
torbidi e strani. Le lettere che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano
tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le consegnava a cui
erano indiritte, ma, pel meglio, le leggeva e si regolava su le notizie
che ne ricavava. Fermo, sempre più inquieto, chiedeva ad Agnese la
spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese
avesse saputo scrivere, non avrebbe potuto soddisfare il poveretto,
perchè la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva
bene il contegno di Lucia con Fermo. La spiegazione di tutto era nel
voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato nè meno alla madre.
La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu
interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente. Fine
del tomo III». (Ed.)
[124] A Sigismondo Boldoni, che visse dal 1597 al 1630, l'11 settembre
del 1899 fu eretto un monumento nel suo nativo Bellano. L'ab. Luigi
Vitali nel discorso inaugurale, che pronunziò, diceva: «il Boldoni, in
alcune sue lettere, con viva e commovente verità, ci descrive una delle
molte discese dei barbari, il passaggio dei Lanzichenecchi, descrizione
che forse ha ispirato alcune delle belle pagine dell'immortale
romanzo _I Promessi Sposi_». Cfr. VITALI L., _Patria e Religione,
commemorazione_, Milano, Cogliati, 1903; pp. 534-535. Da quelle lettere
trasse infatti più d'una ispirazione il Manzoni. (Ed.)
[125] Qui termina il capitolo I del tomo IV e incomincia quello II.
(Ed.)
[126] Prima scrisse: _piangolente_. (Ed.)
[127] Segue, cancellato: «La vita, signor curato, la vita, disse
Perpetua». (Ed.)
[128] In margine il Manzoni aggiunse: «son venuto a fuggir l'acqua
sotto una grondaja». (Ed.)
[129] Segue, cancellato: «Il Signor Lucio volle ancora opporsi,
ma l'impressione di terrore che Don Ferrante aveva prodotto su
gli uditori, gli rendeva poco disposti a sentire la forza delle
opposizioni. Io non so niente, disse il primo, di tutte queste
predizioni; so però che senza di esse si capisce benissimo perchè
ora tanti muojano: muojono perchè è venuta la loro ora. Nessuno badò
all'argomento del Signor Lucio». (Ed.)
[130] Il Manzoni aveva in animo di rimaneggiare tutto il rimanente di
questo brano. Infatti v'incollò un fogliolino, che dice: «Deduzione più
logica: 1.) generazioni; e divenute poi il ludibrio delle generazioni
susseguenti; 2.) _Sarebbe una storia_ fino a _più di ammirazione_; 3.)
_Talvolta senza richiami_, etc. fino a _rifiutata avvertitamente_; 4.)
Conclusione: _Ma una siffatta storia_, etc. Rifondere il tutto per
adattarlo alla nuova deduzione». (Ed.)
[131] Il Manzoni soppresse questo dialogo, con il quale termina il
capitolo III del tomo IV della prima minuta; ma, nel capitolo XXXVII
del testo definitivo, raccontando come morì don Ferrante, non mancò
di esporre quello che esso pensava intorno la peste. Ecco le parole
del Manzoni: «Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto
tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto,
l'anonimo ha creduto d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio,
trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.
«Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante
fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino
all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma
con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la
concatenazione.
«_In rerum natura, diceva_, non ci son che due generi di cose: sostanze
e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser nè l'uno nè
l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le
sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza
spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è
inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte.
Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro
parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar
da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea;
perchè bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perchè
brucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta,
neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al
tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da
vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi
signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; che questo è
il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza
costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente
trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la
filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non
può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla,
si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi;
perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come
vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a
parlare di vibici, di esantemi, d'antraci...?
«Tutte corbellerie, scappò fuori una volta un tale.
«No, no, riprese don Ferrante: non dico questo: la scienza è scienza;
solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi,
bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili,
che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che
fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose,
anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
«Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva
che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi
attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande
l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuoi dimostrare agli
altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere,
e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva
già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma
nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non
si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi,
trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a disteso
era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a
pezzi e bocconi.
«La c'è pur troppo la vera cagione, diceva; e son costretti a
riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in
aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione
di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze
si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi
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