Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 09

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indicata e lasciata indovinare, la nostra eroina non sapeva leggere;
ma Ghita pensava che le precauzioni non sono mai troppe. Quello poi
che in questo procedere vi poteva essere d'indelicato, non riteneva
Ghita per nulla; essa non vi sospettava nemmeno nulla di simile; non
conosceva nè la parola, nè l'idea; anzi la parola in questo senso non
esiste neppure ai nostri giorni nella lingua pura, e noi adoperandola
sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo. Finalmente doveva
Ghita cercare di scovare nei discorsi di Lucia se mai ella avesse
qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare
artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita
qualche sospetto.
Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di
operazioni, tutto questo lavorare sott'acqua non dava quasi nessun
incomodo a Lucia, o per dir meglio, ella non se ne avvedeva, e
benchè non potesse a meno di non sentire qualche cosa di minuto e di
pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita, pure lo attribuiva
alla indole di lei e non mai ad un disegno profondo e comandato. I
pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo principale
della sua vita, la portava alla ritiratezza, ad astenersi da ogni
comunicazione, e quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò
che altri facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva
naturalmente. In altri tempi quella situazione così nuova, così opposta
alle sue abitudini, così lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata
penosissima, ma la facilità ch'ella vi trovava di ottenere quel suo
scopo faceva ch'ella vi stesse con rassegnazione, e quasi vi riposasse,
se non con piacere, almeno col desiderio di farsela piacere. E il suo
scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato: scordarsi di
Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee nella
casa dove era stata allogata, di ristringerla alle sue occupazioni, si
metteva con grande intenzione a tutte le cose che le erano comandate,
si rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri
che occupassero tutta la sua giornata, che non le dessero agio di
correre con la mente a desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle
memorie d'un passato irreparabile. Le memorie tornavano però sovente a
tormentarla; l'immagine della madre era sempre la prima a presentarsi;
e mentre Lucia si fermava a contemplarla con sicurezza, con una
mesta affezione, l'immagine di Fermo, che le stava dietro nascosta,
si mostrava. Lucia voleva respingerla tosto; ma l'immagine, che non
voleva andarsene, aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso,
per obbligare Lucia a trattenerla almeno un momento, le ricordava in
aria trista e non senza rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi,
e quelli che forse gli soprastavano ancora, le rimostrava che quando
anche un nuovo dovere può far rinunziare ad un affetto già così
lecito, già così caro, non deve, non vuol però togliere la pietà, la
sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia combatteva, rivolgeva la
mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte
la richiamavano. I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto
pronunziare quelle parole per cui ella sarebbe stata di Fermo: i
consigli, le cure del Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per
Fermo: fino il monastero di Monza, fino il castello del Conte, fino
il cardinale Federigo, tutto si legava a Fermo, e molte volte Lucia,
ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si era immaginata di
raccontar tutto a Fermo. Con tutto ciò, ella combatteva, e la guerra
sarebbe stata se non sempre vinta, pure meno aspra e meno dolorosa;
Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo, almeno andargli sempre
da presso, se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna
Prassede.
La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva
trovato mezzo migliore che di parlargliene spesso. La faceva chiamare
a sè, e seduta sur una gran seggiola, con le mani posate e distese
sui bracciuoli, di qua e di là dei quali pendevano le maniche della
zimarra di damasco rabescato a fiori, che era stato l'abito di moda
nei bei giorni di Donna Prassede nel tempo in cui v'era buona fede
e semplicità, in cui tutti, fino ai giovani, erano savj ed onesti,
col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero, che copriva
la fronte, e una enorme lattuga, che girava intorno alla gola e sul
mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica, per provare a Lucia
ch'ella non doveva più pensare a colui. La povera Lucia protestava da
principio con voce angosciosa e timida, ch'ella non pensava a nessuno.
Donna Prassede non voleva mai stare a questa ragione e ne aveva molte
da opporre. So come vanno le cose, diceva ella, conosco il mondo, so
come son fatte le giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il più accetto.
Fate che per qualche accidente non possano sposare un galantuomo, un
uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo, non
se lo possono cavar dal cuore. Eh, figlia mia, non basta dire non penso
a nessuno, vogliono esser fatti, fatti e non parole. Così, seguendo
una sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far passare
in una testa repugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con
molta efficacia, adoperare i termini i più forti ed anche esagerati,
Donna Prassede non risparmiava i titoli al povero assente, lo nominava
come un oggetto d'orrore, dì schifo, faceva sentire che sarebbe stata
cosa inconcepibile, mostruosa, che alcuno potesse avere interessamento
e peggio inclinazione per colui. Così ella otteneva appunto l'intento
opposto a quello ch'ella si proponeva. Lucia cercava di dimenticar
Fermo; ma quando una parola sgraziata e nemica glielo voleva a forza
rimettere nella mente in un aspetto odioso e spregevole, allora tutte
le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per respingere
una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era
stata avvezza a compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo
era proferito faceva ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il
buon nome di Fermo, tutte le ragioni per cui ella lo aveva stimato;
l'odio faceva risorgere più risoluto l'interesse; l'idea confusa dei
pericoli ch'egli aveva corsi, anche dei falli ch'egli poteva aver forse
commessi, pericoli e falli che Donna Prassede rinfacciava a Lucia con
eguale amarezza, come un eguale motivo di avversione, suscitavano più
viva e più profonda la pietà, e da tutti questi sentimenti rinasceva
quell'amore che Lucia si studiava tanto di estinguere. L'amore,
acconsentito o combattuto che sia, dà a tutti i discorsi una forza e un
vigore suo proprio. Lucia diventava coraggiosa e giustificava Fermo, e
Donna Prassede approfittava di quelle parole come d'una confessione,
per provare a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse più a lui. E
con questa prova in mano lavorava sempre più animosamente sull'animo di
Lucia, facendole vedere chi era colui ch'ella ardiva pure di difendere.
E che doveva ringraziare il cielo che la cosa fosse finita a quel modo,
altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù. Buon per lui che
le gambe lo avevano servito bene, altrimenti avrebbe fatto una bella
figura, avrebbe tenuto compagnia a quei quattro altri galantuomini...
Quando la grossolana signora toccava tasti, d'un suono così orribile,
la povera Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra
il grembiale, portarlo al volto per nasconderlo e per ricevere le
lagrime che le sgorgavano dirottamente.
Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare
vendetta di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che
producevano le sue parole gliele avrebbero forse fatte morire in
bocca, o cangiare in parole più dolci; ma Donna Prassede parlava per
fare il bene, e non si lasciava smuovere: a quel modo che un grido
supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme d'un
nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte
le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna
Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con qualche
parola di conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere
acconciato un po' il cuore di quella giovane. Acconciato come una
gala di mussolo stirata da un magnano. La povera Lucia, riconoscendo
la buona intenzione, pregava però caldamente che queste prove
d'interessamento le fossero risparmiate.
Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra
Lucia, che sarebbe stato il compimento dell'opera, Silietta si
compiaceva molto nella compagnia di quella giovane, che era la sola
in casa che le desse retta e la lasciasse parlare; e Donna Prassede
pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio a Silietta e a Lucia
stessa se si fosse potuto farle nascere la vocazione di andar conversa
nel monastero dove Silietta doveva esser monaca[121]. Quivi Lucia
sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di
Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia
sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della
sua padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con
quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far
nascere spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio.
A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più
chiare; e Lucia cominciava a comprenderle, ma però senza che le
cominciasse la voglia di acconsentirvi[122]. V'era nulladimeno per essa
un gran vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno
impeto, su quel primo, più doloroso argomento; tanto più doloroso,
perchè Lucia non aveva con chi esilararsi della tristezza angosciosa
che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a
casa sua, dove pensava sempre a Lucia e andava spesso alla villa di
Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre
date ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di
rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade,
con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella
era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si rassegnava
all'idea di esser lontana da sua figlia come ai nostri giorni farebbe
una madre, della condizione di Agnese, che avesse una figliata
collocata in Inghilterra[123].


XIX.
IL PASSAGGIO DE' LANZICHENECCHI.

La milizia, a quei tempi, era ancora in molte parti d'Europa composta
in gran parte di venturieri, che si ponevano al soldo di condottieri
di professione, i quali andavano poi coi loro drappelli al servizio di
questo o di quel principe. Oltre le paghe, sulle quali non era da fare
assegnamento certo, quello che determinava gli uomini ad arruolarsi
era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze della licenza.
Disciplina generale non v'era in un esercito, nè avrebbe potuto
conciliarsi con le varie autorità private dei condottieri: e questi,
prima di tutto, non si curavano di mantenere una disciplina particolare
nei loro reggimenti, perchè non avevano per questa parte responsabilità
verso nessuno; e quand'anche alcuno di essi, a cose pari, avesse pur
desiderato di contenere i suoi soldati in un qualche rispetto per le
proprietà e per le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato
per lo più o contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze.
Perchè soldati di quella sorte o si sarebbero rivoltati, o avrebbero
tosto deserte le bandiere di un comandante nemico della violenza e del
saccheggio. Oltre di che, siccome i principi nel comperare i soldati
pensavano più ad averne in gran numero per assicurare le imprese, che
a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, la quale era
ordinariamente molto scarsa, così le paghe erano per lo più ritardate
e mancanti; e le spoglie dei paesi dove passava l'esercito divenivano
come un supplemento tacitamente convenuto degli stipendj. Quindi i
soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano tratti a
scegliere quella professione, e per le abitudini di essa formavano come
una collezione di tutte le nequizie che può dare la natura umana nel
suo maggior grado di pervertimento. Ma quelli che allora scendevano nel
Milanese erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran
parte gli stessi che guidati dall'atroce Wallenstein avevano poco prima
desolata la Germania in quelle guerre tanto impropriamente chiamate di
religione, poichè queste stesse masnade che avevano combattuto per la
parte che protestava di sostenere la religione cattolica erano composte
in parte di luterani.
L'annunzio della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per
dove avevano a passare: nelle altre parti si diceva: povera gente!
stanno freschi: chi sa come gli acconciano coloro! vedrete che non
lasceranno loro altro che gli occhi per piangere: sia lodato Dio che
non passeranno per di qua. Ma chi sapeva che quell'esercito portava
la peste con sè, e l'aveva già disseminata nei luoghi dove aveva
stanziato, sentiva qualche cosa di più che una fredda pietà per altrui.
La maggior parte però degli abitanti del Milanese o non lo voleva
credere, o non se ne curava, o con quella fiducia, senza motivi, così
strana e così comune, diceva: Poh! che ha da venire la peste da noi?
Colico, sulle rive del lago di Como, presso alla foce dell'Adda, fu la
prima terra che toccarono quei demonj; dopo e d'averla messa a sacco,
l'arsero addirittura; se per rabbia di non avervi trovato abbastanza
bottino, o pel diletto di fare una baldoria, non si sa. Di là, senza
curarsi d'itinerario, nè di poste assegnate, ma guardando solo dove
fosse più da sperarsi bottino, si gettarono sopra Bellano, lieto paese
sulle falde d'un monte e alla riva del lago. Gli abitanti, ammoniti
dall'esempio recente e dalla prossima ruina, avevano o nascoste
sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più preziose e
le più facili a trasportarsi; e molti di essi s'erano appiattati
lassù, abbandonando le case. Con tanto più di furore v'entrarono
quelle masnade, e delle cose lasciate presero tutto ciò che poteva
loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti,
travi. Quegli che erano rimasti colla speranza di preservare i loro
averi, ne videro la distruzione, videro l'abominevole sfrenatezza,
e per sopra più soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle
ferite. Nè i campi all'intorno furono risparmiati; la vendemmia,
somma speranza dei terrazzani in quell'anno calamitoso, sparve in un
momento; coll'uve furono sterpate le viti, gli alberi abbattuti col
frutto, molti casali incendiati. Appena cessarono di farsi udire le
trombe che avevan sonata la partenza d'un reggimento, un nuovo squillo
dall'altra parte annunziava terribilmente l'arrivo di altra simile,
anzi peggiore brigata. I sopravvegnenti, trovando la distruzione dove
avrebbero voluto portarla, si vendicavano su le cose e su le persone
che capitavano loro alle mani, come di un furto che fosse stato loro
fatto: e tanta cupidigia frustrata tornava tutta in furore. Qualche
memoria del guasto di quel paese ci rimane in alcune lettere di
Sigismondo Boldoni, scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse
avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai
posteri se non fosse morto all'uscire della giovinezza, e sopra tutto
se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo in cui fosse stato
possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza
perpetua, e per esporle trovare quello stile che vive. Questi, sulle
prime, non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio
ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati,
era venuto a capo di preservare la sua casa, e di difenderla poi quando
fu minacciata: e racconta agli amici i suoi pericoli e gli ultimi
disastri. V'è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare,
che merita d'esser ricordato. Il tenente del colonnello Merode, il cui
reggimento era venuto pel primo, entrato nel giardino di Sigismondo,
accennò un boschetto e domandò che razza di piante fossero quelle e
che frutto portassero.--Ahi barbaro! pensò il Boldoni: non conosce
l'alloro.--E conchiuse fra sè, che da tal gente non era da sperarsi
misericordia[124]. Desolato quel territorio, le feroci locuste si
gettarono nella Valsassina. È un gruppo di montagne e di valli, paese
poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico
negli accessi, ma per entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli,
e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha varie terre, quale sul
pendìo, quale nel fondo, a luogo a luogo assai vasto perchè si possa
chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e
picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge sbandato
al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte
degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani, i quali vi dimorano
nelle stagioni più miti e passano al piano i mesi più rigidi. La fama
spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani
s'erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture, lasciando
deposte sotterra presso le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi
a sè le mandrie, che sono la principale. Ma i saccheggiatori, ai quali
non bastava quello che era stato loro abbandonato, e a cui le arti di
preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove armi di offesa e
di depredazione, si diedero a rintracciarli. Quelli che erano stati
più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli,
strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei
villaggi, erano quivi sottoposti alle torture che può inventare la
cupidigia più crudele, perchè rivelassero i tesori nascosti. Due
passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e il terrore,
supplivano alle convenzioni del linguaggio e si spiegavano fra di loro
in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli,
le mani giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi
strazj: l'infelice, che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei
suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse. Colui che aveva
riposto sotterra o danaro o suppellettili, o a cui il vicino, per far
pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi, aveva confidato
il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che acchetare
quella perversità, accennava premurosamente e con aria di sommessa
e quasi amichevole intelligenza ai soldati, che lo seguissero, e
mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio murato di fresco;
e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori, che, ciechi per
ingordigia, si gettavano a gara sulla preda.
Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco[125].
Le contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado
l'uomo oppresso da una sventura può consolarsi col pensiero d'altro
male o di peggio che senza quella sventura gli sarebbe capitato
infallibilmente. Se la infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta
a turbare i placidi destini di Fermo e di Lucia, essi, dopo d'aver
passato un anno d'inopia, contra la quale chi sa se le loro facoltà
avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati, probabilmente con un
bambinello, esposti nel loro paese a quella orrenda furia militare,
costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i pericoli della
persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie, e
quelle mezzo diroccate e i segni perversi e luridi del sozzo torrente
che v'era passato. Questi guai sembrano ora leggieri al paragone di
ciò che Lucia e Fermo hanno sofferto in quella vece, ma allora, non
v'essendo il paragone e non potendo essi nemmen per sogno immaginare
come possibili tutte le traversie che abbiamo narrate, quel minor male
sarebbe ad essi parato il colmo della infelicità. Comunque sia, in
mezzo a tanti mali fu una ventura per entrambi l'esser lontani da casa
loro in quel brutto momento.
E Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo. Vengono; hanno
saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato
Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son
qui; così la fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando
il terrore. Alcuni di quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi
sui monti, dove forse non sarebbero stati sicuri, avevano stimata
miglior via di fuga, precorrere il nemico, giungevano ansanti,
spaventati, in disordine, come reliquie d'un esercito disfatto e
inseguito, e raccontavano cose orribili della crudeltà dei soldati,
principalmente contra coloro che fossero o paressero opulenti. Agnese
aveva ancora una ventina di quegli scudi d'oro che il Conte del Sagrato
le aveva donati così a proposito e quasi per ispirito di profezia; che
in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la poveretta sarebbe stata
ridotta a morire di stento, o a pitoccare disperatamente, come tanti
altri. Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi della ricchezza, Agnese ne
provava ora tutte le cure e i terrori. È ben vero ch'ella aveva sempre
dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del
segreto era Don Abbondio, che era stato testimonio del dono, ed al
quale essa ricorreva per fargli di tempo in tempo cambiare uno scudo in
picciola moneta. Ma una indiscrezione poteva avere tradito il segreto,
o un sospetto averlo indovinato, e allora il pericolo sarebbe stato
terribile e la fuga mal sicura. Poichè era cosa nota che nei luoghi
dove la soldatesca era già passata, uomini, ai quali in verità non si
saprebbe trovare un epiteto, o per invidia, o per isperanza di premio,
avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di qualche lor paesano
denaroso, segnandolo così allo spoglio ed ai tormenti. Per queste
ragioni Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte, vedendo
passare qualche frotta de' suoi paesani che tiravano verso i monti,
s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava, pensando
con raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva essere per
lei. Ma dove trovare quello che le desse la sicurezza particolare di
ch'ella aveva bisogno? Maneggiando e rimaneggiando quegli scudi d'oro,
svolgendoli e rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli
meglio, le sovvenne di colui che glieli aveva dati, delle sue proferte,
del suo castello posto al confine e in alto come il nido dell'aquila;
e si fermò tosto nel pensiero di cercarsi l'asilo colà. Aveva già
sotterrate, nascoste sul solajo, riposte alla meglio le masserizie
più grosse; sbarrò, come potè, le finestre; tolse un fardello, dove
aveva ragunato ciò che le sue forze bastavano a portare; ravvolse
per l'ultima volta quegli scudi d'oro e li cacciò sotto il busto, tra
la camicia e la pelle, uscì di casa, chiuse la porta, più per non
trascurare una formalità, che per fiducia che avesse in quei gangheri
e in quelle imposte, si mise la chiave in tasca e s'avviò. Trovandosi
così soletta in istrada, pensò quanto le sarebbe stato prezioso un
compagno in quel tragitto. Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a
tutte prove, superiore ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione.
Dove trovarlo anche questo? Il curato? Perchè no? la casa parrocchiale
è a pochi passi, tentiamo.
Chi non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha un'idea vera
dell'impaccio. I nemici che si avvicinavano erano i più terribili
che egli avesse mai avuti a fronte, e quelli contra cui erano più
inutili tutte le sue armi, tutti i suoi stratagemmi. Non era gente
da ammansarsi colla pieghevolezza e colla sommessione, molto meno da
contenersi coll'autorità. Non v'era salute che nella fuga; ma, primo
di tutti a risolverla, Don Abbondio era poi rimasto indietro di molti
per le difficoltà che trovava nella fuga stessa e per le condizioni
ch'egli vi aveva voluto porre. L'ertezza del cammino lo spaventava, e
questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler persuadere
or l'uno, or l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in
lettiga; ma, in verità, quello non era momento da trovar lettighieri.
Era pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle che
per amore del loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle
sue provvigioni, anche dei suoi mobili, per portarli in alto e riporli
in salvo; ma si era indirizzato ad uomini occupati a scegliere tra i
pochi loro averi quello che si poteva trafugare, lasciando con dolore
il resto alle voglie dei ladri: e nessuno aveva spalle da allogare a
Don Abbondio. Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma
la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva. Di più, non aveva
ancora saputo scegliere un asilo, e, senza farne mostra, era tormentato
dallo stesso timore che Agnese. Girava il pover'uomo per la casa, tutto
affannato e stralunato, non sapendo che farsi; se la prendeva, quando
col duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in
Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di
Savoja, che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore, che stava su
certi puntigli, e quando con Don Gonzalo di Cordova, che non aveva
saputo mandare quei diavoli per un'altra strada. Bestemmiava ancor più
la durezza dei suoi parocchiani, che non volevano dargli ajuto. Oh
che gente! sclamava, che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! Si
faceva alla finestra e chiamava quelli che passavano, con una certa
voce mezzo piagnolente[126] e mezzo rimbrottevole. Venite a dare una
mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate
così cani. Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi
stracci, ripeteva, perchè nessuno sospettasse ch'egli avesse cose
preziose da salvare. Aspettatemi che venga anch'io con voi; aspettate
almeno che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non
sia abbandonato. Volete voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste
che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato. Misericordia!
Fermatevi dunque. Eh! tiran di lungo. Oh che gente!
Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per
parlare a quel modo. Quegli, a cui egli faceva quelle preghiere e
quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il peso
delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale
traendosi dietro i figli, che a stento lo seguivano, e la donna, che
portava quelli che non potevano camminare, quale reggendo un vecchio
o un infermo. Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre
masserizie finchè reggessero le forze e lo permettesse il pericolo.
Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: eh sì!
s'ingegni anch'ella, signor curato.--Oh povero me! oh che gente!
ripeteva egli. Ognuno pensa a sè; ognuno pensa a sè; e a me nessuno
vuol pensare.
Per buona sorte, Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo e
operava e dava consigli come Caterina I aveva fatto nel campo alle
rive del Pruth quando Pietro, stretto tra i Turchi e i Tartari, non
trovando uscita nè consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che
partito appigliarsi e non aveva più energia che per isfogarsi in
querele e in rimproveri. Perpetua, ben convinta che non era da fare
assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli, uno per sè, uno per
Don Abbondio, e poi in fretta e in furia sparpagliava il resto delle
masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul solajo, sotto il
pagliajo, dietro i tini. Quando questa faccenda fosse terminata alla
meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto
destinato per lui e di intimargli di partire, giacchè in quel momento
era cosa evidente che il padrone non era in caso dì governarsi, e
pel suo meglio bisognava comandargli. È però vero che Perpetua aveva
creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi che a
gran pezza non erano urgenti come il presente.
In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua
risoluzione, fece intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere
opportuna anche per lui.
--Dite davvero, Agnese? disse Don Abbondio,
--È un buon parere, signor padrone, disse Perpetua: andiamo senza
perder tempo.
--Senza perder tempo, disse Don Abbondio, perchè costoro possono
giungere da un momento all'altro. Ma saremo sicuri in casa di quel
signore? Eh!
--Andiamo, disse Perpetua; sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo
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