Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 18

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per l'avvenire: egli con quel suo animo precipitoso e ricalcitrante
aveva altamente sdegnato favori di quella sorte. Con tutto ciò,
queglino, per l'onor del nome, avevano continuato per qualche tempo a
sostenerlo; ma finalmente, vedendo meglio d'ogni altro, nella regione
delle nuvole dove abitavano, il grosso temporale formato contro di lui;
informati che dalla bocca stessa del governatore erano usciti certi
tuoni sordi e cupi, per non commettere il loro credito nel sostegno
d'una causa che alla fine doveva esser perduta, s'erano ridotti a far
vista di abbandonarla volontariamente, a mostrarsi irritati più che
altri contra il loro scandaloso parente, a far gli antichi romani,
e lasciarsi intendere che, mettendo le leggi e l'ordine pubblico
innanzi agli affetti privati, avrebbero lasciato un libero corso alla
giustizia. Con lui non potevano altro che mandargli avvisi di tempo
in tempo, che s'egli tirava innanzi a quel modo, non facesse più
conto della loro assistenza. Quanto agli amici dell'innominato, essi
non erano per lo più gente che avesse voce per sè in quel capitolo:
alcuni, è vero, imparentati con togati potenti, facevano con essi
a favore dell'innominato gli ufici ch'egli sdegnava; ma tali ufici
indiretti avevano poca forza contra le ire radicate e le pratiche degli
avversarii, occulte, in parte, per timore, ma calde e insistenti.
Le cose erano in questo stato, quando una mattina si trovò in una
via il cadavere malamente trafitto d'un uomo ch'egli odiava: (il
manoscritto non dice di più), e la voce publica disegnò tosto
l'innominato come autore del fatto. In senato, nel palazzo del
governatore, nei gabinetti dei potenti, nemici dell'innominato, si
mormorò che era venuta la volta di dar finalmente un grande esempio.
Il capitano di giustizia ricevette ordine segreto di procedere alla
cattura. Ordini tali contra tali uomini era ancor più difficile
l'eseguirli che il darli: bisognava non lasciar traspirar nulla
dell'intenzione, per sorprendere il nemico, e insieme dar molte
disposizioni e mettere in campo forze straordinarie. Di queste forze
poi non si poteva far capitale che fino ad un certo segno: quando si
aveva che fare con un tiranno di conosciuta bravura, e circondato da
una mano di disperati, il più dei birri vi andavano di mala voglia,
alcuni si rincantucciavano anche per non lasciarsi trovare, o nel
bello della spedizione la davano a gambe, o abbassate le armi e cavato
il cappello dicevano: illustrissimo signore, vada pure liberamente,
che noi non siamo per fargli male. E quand'anche nessun di loro
avesse intelligenze coi bravi del tiranno, che si voleva prendere, se
ne sarebbe trovato più d'uno che pel solo amore della pace avrebbe
cercato qualche mezzo di farlo avvertire; acciocchè, fuggendo,
togliesse sè ed altri d'impaccio. Come che la cosa andasse in questo
caso, l'innominato ebbe tosto avviso da più d'un luogo dell'ordine
fulminato contra di lui. Non pensò pure di mettersi in salvo colla
fuga, non si curò di rimpiattarsi, si mostrò anzi in pubblico più del
solito con un più grande accompagnamento, per guardia insieme e per
ostentazione, non rimise punto della sua solita arroganza; anzi spiò
attentamente se qualche parente del morto gli passasse dinanzi con
aria di provocazione, se alcuno de' suoi nemici coperti volesse in
quella occasione alzare un po' la cresta e uscire appena appena dei
termini consueti di rispetto, deliberato e desideroso di farne in tali
circostanze qualche dimostrazione più strepitosa.
In questo mezzo fu avvertito che un bargello, famoso per varie
prese difficili, scaltrito negli agguati e intrepido negli assalti,
coraggioso per natura e obbligato ad esserlo sempre più per conservare
la sua riputazione di coraggio, essendogli stata questa volta promessa
da certi potenti una grossa somma di danari se facesse il colpo, ne
aveva preso l'impegno, e che troverebbe egli il modo di metter la
musoliera all'orso e di menarlo legato in gabbia. Da quel momento la
vita del bargello divenne un tormento per l'innominato; se lo sentiva,
per dir così, pesare su le spalle. Per adescarlo e crescergli animo,
finse d'essere entrato in timore, si tenne chiuso in casa, fece sparger
voce dì volere sfrattar di soppiatto e travestito. Molta gente diceva
che s'eran veduti altri birboni dopo averne fatte tante e tante perdere
in un tratto quel gran rigoglio quando la loro ora era venuta; gli
amici non sapevano più che pensare; egli rintanato coi suoi bravi non
si lasciava veder da nessuno. I birri, che fino allora avevano giucato
dalla lunga, cominciarono a ronzare in frotte nei contorni della casa,
a tenersi ai canti della via: il bargello lì metteva a posto, li
moveva, dirigeva ogni cosa, girava travestito, teneva e faceva tener
l'occhio, ora alla porta, ora agli sbocchi della via, sbirciava con
certi suoi occhi cervieri chiunque uscisse di qua o di là, temendo
sempre che il suo uomo non gli scappasse sotto qualche travisamento.
Ma l'uomo, che pensava a fargli tutt'altro tiro che quello, avvertito
un dì sul vespero che il bargello vigilante s'era piantato ad un
canto della via, chiama un suo ragazzaccio, ch'egli andava allevando
al patibolo, gli pone una valigetta su le spalle, e lo ammaestra che
esca da quel canto, strisciando dietro il muro a guisa di chi vorrebbe
passare inosservato. Mosso questo zimbello, egli mette l'occhio a un
pertugetto d'una imposta chiusa, per vedere che accade nella via, e
pochi istanti dopo vede birri a due, a tre venire innanzi e allogarsi
dietro gli angoli di questa e di quella casa vicina, e poi avanzarsi
il bargello in persona, entrare in una porta, star qualche momento,
uscire, entrare in un'altra più vicina, far capolino, guardar fuori.
Lascia in vedetta a quel pertugio un servo che desse un gran fischio
quando il bargello porrebbe il piè nella via e verrebbe verso la casa,
scende in fretta con molti altri, e li fa star pronti in arme sotto
il portico; egli cheto cheto va nell'androne a porsi a canto una
parete, tenendo colla destra il cane e il grilletto, colla sinistra
la canna d'una sua carabina, terribilmente famosa al pari di lui. Un
fischio, un salto alla soglia, una sguardata, una mira, uno scoppio,
il bargello per terra, tutto ciò avvenne in sei secondi. L'assassino
rientrò subitamente, chiamò i bravi, e alla testa loro piombò addosso
ai birri, che, sorpresi dal colpo e sopraffatti dal numero, la diedero
a gambe[183].
La città fu piena del caso. La notizia ne giunse al palazzo di
giustizia coi birri più corridori: il capitano corse a darla al
governatore. Per l'ordinario i governatori non s'impacciavano in queste
faccende: non già che fosse massima di lasciar fare i tribunali; era
anzi massima che i governatori potessero non solo far le leggi, ma
applicarle, derogare, dispensare, dare in ogni caso gli ordini che loro
paressero a proposito. Molti infatti ne venivan dati in loro nome; ma
per lo più non v'era altro che il nome; l'attenzione, la volontà e
l'opera loro si esercitava in tutt'altri oggetti.
Chi nasce in questo mondo nei tempi ordinarii, dice il
manoscritto[184], è come un sonatore d'una grande orchestra in una
festa, che si sveglia nel mezzo d'una sonata e d'una danza, e trova
una musica avviata, un tuono, una misura: bada un momento, per capirla
bene, e poi piglia il suo stromento[185] e cerca d'entrare in concerto.
Così quegli spagnuoli, che nascevano per essere governatori dello
Stato di Milano, trovavano una musica avviata di faccende in corso,
un gran numero d'idee stabilite e predominanti, e fra l'altre questa:
che la potenza spagnuola aveva, o voleva, o doveva avere su tutta
l'Italia, almeno un predominio. Quando uno veniva spedito a questo
governo, vi portava l'idea fissa che mantenere ed estendere questo
predominio doveva essere la sua grande occupazione. Lo era in fatti,
e lo sarebbe stata, quand'anche, egli, per impossibile, non avesse
avute nè istruzioni, nè inclinazioni a ciò. Perchè trovava incamminata
un'altra macchina opposta e complicatissima, mossa continuamente da
altre potenze, che non volevano quella storia del predominio, e ne
stavano sempre in sospetto, si trovava a fronte e da ogni lato un
vasto e confuso sistema di resistenze, di difese, di offese, centra
il quale gli bisognava pure ingegnarsi. Bisognava dunque vigilare
tutti i principi e gli Stati d'Italia, mantener questi nella devozione
consueta, contener quegli altri, o spaventarli, attirarli, conoscere
i loro pensieri, inimicarli, o riconciliarli, secondo le occorrenze:
un mondo di cose. Oltracciò i governatori erano capitani generali e
conducevano in persona le guerre, che avevano fatte nascere, o che
non era loro riuscito d'impedire, in Italia, o che vi si facevano
come parte di guerre più generali. Avevano quindi sempre gli occhi e
le mani in quella grande matassa che avevano trovata scompigliata,
e scompigliata lasciavano partendo dal governo, o dal mondo; e non
restava loro troppo ozio per le cose di governo interiore: le facevano
fare, o le lasciavan fare, mettevano di gran ghirigori in fondo a
molte carte, su le quali era scritto che eglino erano risoluti che le
tali cose andassero al tal modo, senza curarsi poi di sapere nè il
che, nè il perchè, fuor che in alcuni casi in cui per qualche cagione
straordinaria avevano essi realmente una volontà, o una. ne veniva loro
inspirata. Il caso dell'innominato era di questi: i suoi molti e grandi
nimici lo avevano dipinto al governatore come uno spirito rubello, un
perturbatore sedizioso, un uomo la cui audacia e impunità nel delitto
accusavano d'impotenza o di trascuraggine la pubblica autorità; e nel
vero non era calunnia. Il governatore, già irritato, al ricevere di
quella notizia, ritenne il capitano, ebbe a sè membri del consiglio
segreto, senatori, altri magistrati; si tenne consulta. Intanto colui
che ne era il soggetto, rientrato in casa, e ben rinchiuso, aveva
pigliata la risoluzione di non si muovere e si preparava ad ogni
evento; ma in quella notte stessa, qualche amico, venuto a lui di
soppiatto, gli comunicò di avere avuto avviso segreto e certo che
il governatore aveva personalmente preso impegno in quell'affare,
ed era deliberato di fare all'ultimo uscir del castello un corpo di
moschettieri che si unisse ai birri e desse l'assalto alla casa. Non
era più il caso di esitare: le forze d'un privato, anche nel supposto
inverisimile che in tanto pericolo fossero per serbarglisi costanti,
non potevano competere con un tale avversario, ogni volta che volesse
davvero adoperar tutte le sue. Sul far del giorno l'innominato uscì
con tutti i suoi bravi, e si andò a ritirare in un convento vicino.
In quei luoghi gli ospiti pari suoi, accompagnati, o no. dovevano
esser sofferti, anzi accolti, quand'anche fossero tutt'altro che
desiderati; e la forza secolare non supponeva pure che fosse possibile
d'introdurvisi. Un tal passo acquetò anche un poco la furia, e indebolì
l'impegno del governatore: perchè nei casi in cui si trattava più di
vincere un puntiglio che di punire un reo, la fuga di questo in un
asilo poteva parere una specie di soddisfazione alla potestà civile,
un confessare che non si ardiva di farle fronte nel campo della sua
giurisdizione; e per un uomo, che ha molti affari grossi, poco basta a
raffreddarlo in uno che non sia dei principali. Però comparve in quel
giorno una grida del governatore stesso, colla quale a chi consegnasse
vivo l'innominato nelle mani della giustizia, _in maniera che sopra di
lui ella potesse esercire li suoi atti_, venivano promessi mille scudi
di premio e la liberazione di quattro banditi, l'impunità propria al
consegnante, s'egli fosse complice, e la liberazione, s'egli fosse
bandito, purchè non lo fosse per certi casi riservati.
Vorrei poter risparmiare al lettore tutte queste notizie e riflessioni
generali su le opinioni, gli usi, le istituzioni di que' tempi, e
condurlo speditamente di fatto in fatto fino al termine della storia;
ma i fatti che mi tocca di raccontare sono talvolta così dissimili
dall'andare comune dei nostri giorni, così estranei alla nostra
esperienza, che a dar loro un certo grado di chiarezza, mi par pure
indispensabile di spiegare alquanto lo stato di cose nel quale e pel
quale potevano essere. Altrimenti, a quelli che non hanno fatti studii
particolari sopra quell'epoca, sarebbe come presentare un osso d'uno
di questi animaloni di razze perdute, senza dare un po' di descrizione
dello scheletro, o di quel tanto che se n'è potuto trovare e mettere
insieme, per la quale si vegga come quell'osso giuocava. S'io dicessi
semplicemente che tutte le promesse di quella grida non produssero
alcun effetto, senza darne alcuna ragione, forse a taluno la cosa
potrebbe parere strana e inverosimile; due parole dunque, abbiate
pazienza, anche su questo proposito.
L'intento delle gride, chiamate d'impunità, e che appunto avevano un
nome proprio per esser molto frequenti, l'intento era, come ognun
vede, d'indurre i rei medesimi a farsi ministri della giustizia, e di
seminare la diffidenza fra loro. Perduta la speranza e abbandonata
la pretensione di ottener l'effetto intero degli editti, si voleva
almeno, col sagrifizio d'una porzione del pubblico esempio, assicurarne
un'altra, e la più importante. Ma, senza parlare della sensatezza
dell'intento, nè del merito morale dei mezzi, che questi, in moltissimi
casi, riuscissero inefficaci a conseguirlo, ne abbiamo la prova in
molte gride d'impunità contra uno o più banditi, ripublicate molti
anni dopo la prima publicazione. L'impunità d'un delitto era un premio
di poco valore per complici che d'ordinario ne avevano addosso molti
altri, e che intanto godevano, con fatica, è vero, una impunità intera
all'ombra del loro capo. La liberazione era un debole allettamento per
banditi che non vivevano, nè volevano vivere se non di quelle cose per
le quali s'incorreva nel bando. Di più, per ottenere questi vantaggi,
quali che fossero, il complice o il bandito doveva necessariamente
aver che fare con la giustizia, confidarsi ad una autorità cavillosa
e malfida, la quale certamente desiderava più di sterminarlo che di
dargli una ricompensa, e che disponeva di procedure complicatissime,
e non solo operava ad arbitrio, ma ne aveva consecrato anche il nome.
Quanto a quell'esca del premio pecuniario, ella non poteva tentare
che una classe di persone: le gride costituivano birro o carnefice
ogni cittadino che avesse voluto farne l'uficio e meritarne la paga;
ma l'uso della forza publica e le idee comuni tendevano a tutt'altro
che a far risguardare come onorevole e virtuosa una tale cooperazione
del privato a quella forza, e nessun uomo dabbene e pacifico avrebbe
voluto affrontare un pericolo e l'infamia, nè vincere una ripugnanza
fondata in gran parte sopra motivi onesti, per amore degli scudi. Non
restavano dunque che i facinorosi di professione, e gli scherani stessi
del tiranno; ma quando uno di questi fosse riuscito a far sicuramente
il suo colpo, doveva poi aspettarsi la vendetta di lui, se, preso,
egli tornava in libertà, o dei suoi parenti ed amici, s'egli fosse
stato morto; doveva, dico, aspettarsela con certezza, in un tempo
in cui la vendetta era dai più tenuta come una obligazione d'onore,
e l'assassinio in questi casi non era contato fra quelle azioni che
lo tolgono. Tutto ciò quando l'impresa di prendere o di uccidere un
tiranno fosse stata per sè agevole; ma i tiranni adoperavano anch'essi
naturalmente tutti i mezzi che potevano, per assicurarsi contra la
forza aperta e contra le insidie; di questi mezzi ne avevano assai;
e quel che è osservabile, le gride stesse, fatte contra di essi, ne
suggerivano, ne somministravano loro alcuni, e dei più potenti.
Le società civili (ancora un momento di pazienza) sono state spesso
paragonate al corpo umano, i legislatori ai medici, le leggi alle
medicine: e in fatti queste cose si somigliano molto, se non altro in
ciò, che son tutte cose assai curiose. Hanno poi altre somiglianze
parziali; eccone una. Un medico amministra un rimedio ad intenzione che
faccia nel corpo una tale operazione, che il rimedio fa, o non fa, ma
ne fa poi sovente altre che il medico non ha volute, nè prevedute, che
non riconoscerà come conseguenze del suo fatto, quando si manifestino,
ma dirà: oh, vedete un po' che scherzi fa la natura! Lo stesso accade
sovente in fatto di leggi: e siccome poi le società civili sono infermi
di lunga vita, sono, per servirci di un modo proverbiale, di quelle
conche fesse che bastano un pezzo, così alle volte, appena dopo cento,
dugento, trecent'anni, si comincia a sospettare, ad aver sentore, che
certe doglie vecchie d'un corpo sociale, certi sintomi stravaganti e
non mai spiegati, sono effetti d'uno specifico mirabile applicato o
cacciato giù fin da quel tempo per ordine d'un medico valente, (parlo
in metafora) o per consulto di più valenti medici. V'ha anche alcuni
di questi effetti, nè voluti, nè preveduti dal legislatore, che danno
in fuori immediatamente. Le gride, di cui parliamo, dovevano produrre
inevitabilmente questo: che i tiranni, quanto più erano minacciati da
quelle, tanto più si tenessero intorno di quei malfattori segnalati,
ai quali le gride non promettevano grazia, e che non avendo altra
speranza di salvezza che nel loro signore, non solo non erano tentati
d'ordirgli insidie, ma interessati a guardarlo dalle altrui. Così
quegli atti legislativi tendevano, non per intenzione, ma in fatto,
a riunire i più perniciosi e determinati ribaldi, davano, per così
dire, un nuovo bisogno e un nuovo indicamento di organizzazione alle
forze nemiche della giustizia in tutti i sensi di questa parola. Che
se, per uscire da questo inconveniente, si fosse estesa ad ogni classe
di colpevoli la promessa dell'impunità e della liberazione, si cadeva
nell'altro terribile di rinunziare anche alla speranza, alla volontà,
di non lasciar senza pena almeno certi più atroci misfatti. Con queste
osservazioni si capisce tanto o quanto il come a nessuno venisse voglia
di prendere il tiranno innominato, nè tanti altri banditi come lui.
In quell'asilo egli dovette pensare ai casi suoi. Grazia dall'autorità
non era da sperarne, nè manco egli era inclinato a ricorrere ad un tale
rimedio; rimaner quivi rinchiuso, a che fare? e fin quando? Uscirne,
e tornare a casa sua a far la vita di prima, non era cosa riuscibile,
al punto a cui aveva spinte le cose. Risolvette dunque di sfrattar
dallo Stato. Suppongo che a questa circostanza debba riferirsi un
tratto della sua vita, che è menzionato nella storia sopra citata del
Ripamonti, un tratto che basterebbe a dare un'idea dell'uomo, e che noi
riporteremo perciò, traducendolo alla meglio dall'energico latino di
quello scrittore: «Una volta», dic'egli, «che costui, non so per qual
cagione, volle sgombrare il paese, la paura che mostrò, il riguardo e
la segretezza che usò, furono tali: traversò la città a cavallo, con
un seguito di cani» (gli uomini si sottintendono) «a suon di tromba; e
passando dinanzi al palazzo di Corte, lasciò alle guardie un'imbasciata
di villanie pel governatore». Uscito ch'ei fu dello Stato, si pubblicò
un altro bando che ne lo dichiarava cacciato, e gli _levava la
protezione regia, sì che, tornando, potesse esser fatto prigione e
impunemente offeso da tutti_, mantenute le promesse anteriori; e
aggiunta la liberazione di quattro banditi a chi lo consegnasse vivo o
morto. Dove egli andasse a posarsi, o dove errasse, che facesse fuori e
quanto tempo vi rimanesse, nè il manoscritto lo dice, nè altrove ne ho
trovata menzione: trovo soltanto che una mattina egli pigliò il partito
di tornarsene in paese. O fosse cangiato quel governatore che s'era
dichiarato suo nemico personale; fossero mancati di vita o decaduti
di potenza alcuni de' suoi più capitali nemici, o venuti in potenza
de' suoi amici; o fosse levato il bando per qualche potentissima
raccomandazione (che anche un tal supposto è verisimile in quella
condizione di tempi); o fossero nate altre circostanze qualunque da
inspirargli una nuova sicurezza, o quel suo animo gliene tenesse luogo,
certo è ch'egli stimò di poter tornare liberamente a casa sua e di
stabilirvisi, e vi tornò infatti, non però in Milano, ma in un castello
d'un suo feudo su l'estremo confine col territorio bergamasco, e allora
collo Stato Veneto. È parimente certo che nella sua assenza egli non
aveva rotte le pratiche, nè intermesse le corrispondenze con que' tali
suoi amici, e che stabilito nel suo castello continuò ad essere unito
con loro, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta
di consigli atroci e di cose funeste». Pare anzi che quel terribile
faccendone di misfatti approfittasse dell'esiglio per estendere tali
corrispondenze, e contraesse allora in più alti luoghi certe nuove
terribili pratiche, delle quali il Ripamonti parla con una sua brevità
misteriosa: «Anche alcuni principi esteri», dice questo scrittore, «si
valsero più volte dell'opera sua per qualche importante uccisione,
e in più d'un caso gli spedirono da lontano rinforzi di gente che
servisse a ciò sotto i suoi ordini». Noi abbiamo ben fatto il possibile
per trovar qualche più distinto particolare d'un fatto così importante
alla cognizione e del personaggio e dello stato della società in quel
tempo; ma senza effetto. La storia, e massime quella dei costumi, è nei
libri, come nei musei d'anticaglie, a pezzi e bocconi, e troppo spesso,
principalmente nei libri, se ne trova di quelli che non si possono
mettere insieme con altri pezzi e con altri bocconi, tanto da vederne
una figura, e da ricavarne una notizia[186].


XII.
DESCRIZIONE DELL'AUTOGRAFO DELLA PRIMA MINUTA DE' «PROMESSI SPOSI»[187].

1) «_Introduzione_».
Fogli 6 in-fol. di pp. 4 l'uno. Il primo non è numerato, gli altri
hanno la numerazione alla romana II-VI, fatta dal Manzoni stesso.
Comincia: «L'Historia si può veramente»; finisce: «non sarebbe pure
inteso». È il primo sbozzo autografo, ed è scritto a colonna, come
tutto il Romanzo. Forma il n. 1.ᴬ de' _Fogli staccati dai_ «Promessi
Sposi». Fu stampato da me a pp. 183-194 del vol. I degli _Scritti
postumi_.

2) [_Fogli di scarto del primo abbozzo dell_'Introduzione].
Fogli 2 in-fol. di 4 pp. per ciascuno. Il Manzoni, di sua mano,
numerò col III il primo di questi due fogli, ma poi dette di frego a
quel numero e lo mutò in II.ᵇⁱˢ Il secondo fu da lui numerato III.
Cominciano: «Ogni epoca letteraria»; finiscono: «a quelle nostre,
sacrificando». Formano il fascicolo n. 1.ᴮ de' _Fogli staccati dai_
«Promessi Sposi». Sono a stampa a pp. 194-198 del vol I degli _Scritti
postumi_.

3) «_Introduzione_».
Abbraccia 4 fogli in-fol. di 4 pp. l'uno, il primo senza numerazione,
gli altri numerati dal Manzoni 2-4. L'ultima pagina del quarto foglio
è bianca. Comincia: «La Storia si può veramente»; finisce: «del molto
più che egli stesso vi ha speso». Sta in fronte alla prima minuta del
Romanzo; ma in realtà è la seconda minuta dell'_Introduzione_. Fu
stampata a pp. 198-204 del vol I degli _Scritti postumi_.

4) «_Capitolo I_. _Il curato di_...».
È il primo capitolo del tomo primo, con questa data, su in alto: _24
Aprile 1821_. Si compone de' fogli: I, 2-5 e 8-14. Di quest'ultimo
è scritta soltanto la prima colonna. De' fogli mancanti 6 e 7, il 6
fu trasportato dal Manzoni nella seconda minuta, dove si trova. Gli
mutò il numero, prima in 7, poi in 8, rimastogli. Il foglio 7 nella
seconda minuta ebbe prima il numero 8, poi quello 9. Di esso, peraltro,
stracciò le due ultime pagine e ve ne sostituì due nuove. Le due pagine
vecchie hanno adesso il n. 17. Il capitolo comincia: «Quel ramo del
lago di Como»; finisce: «ordinatamente sui casi suoi».

5) «_Cap. II. Fermo_».
Si compone de' fogli 15, 17-23. Di quest'ultimo è scritta soltanto la
prima colonna. Il Manzoni trasportò nella seconda minuta le due prime
pagine del foglio 16; e lasciò nella prima le due ultime pagine del
foglio stesso. Il capitolo comincia: «La consulta fu tempestosa e durò
tutta la notte»; finisce: «che noi racconteremo nel seguente capitolo».

6) «_Cap. III. Il causidico_».
Prima era intitolato: «_Don Rodrigo_». Si componeva de' fogli 24-34,
che l'A. trasportò tutti quanti nella seconda minuta, dove hanno la
nuova numerazione 47-68. Incomincia: «I tre rimasti a consiglio»;
finisce: «Tanto è vero che un uomo colpito da grandi dolori non sa più
quello che si dica».

7) «_Cap. IV. Il Padre Cristoforo_».
Prima era intitolato: «_Il Padre Galdino_», Si compone de' fogli
rimasti 35-38. I fogli 39-46 furono dal Manzoni trasportati nella
seconda minuta. Comincia: «Era un bel mattino di novembre»; finisce:
«dicendo ad una voce: Oh Padre Guardiano!»

8) «_Cap. V. Il tentativo_».
Si componeva de' fogli 47-58, che il Manzoni trasportò nella seconda
minuta. Comincia: «Il qual Padre Guardiano»; finisce: «lo condusse seco
in una stanza vicina».

9) «_Cap. VI. Peggio che peggio_».
Si componeva de' fogli 59-67, che l'A. trasportò nella seconda minuta,
ma cancellandovi quasi per intiero la prima stesura e tornando a
riscrivere il capitolo. Nella prima minuta è rimasto soltanto il
foglio 68. Il capitolo comincia: «Ognuno può avere»; finisce: «di non
dir parola del disegno contrastato».

10) «_Capitolo VII. La sorpresa_».
Il Manzoni trasportò nella seconda minuta i fogli 69-80; lasciando
nella prima soltanto il foglio 81. Comincia: «Il Padre Cristoforo
arrivava nell'attitudine d'un buon generale»; finisce: «e la povera
Lucia appoggiata».

11) «_Capitolo VIII. La fuga_».
De' fogli che lo formano sono rimasti l'82, l'83, il 91 e il 92,
Quest'ultimo era prima numerato 90. Il Manzoni trasportò nella
seconda minuta il foglio 84, che divenne 86, l'85 mutato in 87, l'87
trasformato in 89, l'88 diventato 90, e l'89 cambiato in 91. Il vecchio
foglio 86 manca. Con questo capitolo finisce il tomo primo. Comincia:
«Ton, ton, ton, ton, i contadini»; finisce: «viveva delle sue stesse
speranze».

12) «_Cap. I. Digressione--La Signora_».
Prima aveva per titolo: «Cap. IX. Disgressione»; divenne poi, invece
dell'ultimo capitolo del tomo I, il capitolo I del tomo II. I fogli
che lo compongono hanno la vecchia numerazione manzoniana 92-101, ma
cancellata; uno soltanto, l'11 e ultimo, ha quella nuova, pur dategli
dal Manzoni. Comincia: «Avendo posto in fronte a questo scritto»;
finisce: «con la Signora a subire l'esame».

13) «_Capitolo II. La Signora tuttavia_».
Si compone de' fogli 12-23. Il capitolo termina nella seconda colonna
dell'ultimo di questi fogli. Comincia: «Le parole della Signora»;
finisce: «si sarebbe fatta per lo meglio».

14) «_Capitolo III_».
Si compone de' fogli 24-34. Comincia: «V'ha dei momenti in cui
l'animo»; finisce: «poteva esser un gran soccorso».

15) «_Capitolo IV_».
Si compone de' fogli 35-45. Comincia: «Appena cessati gl'inchini»;
finisce: «e come diremo nel seguente capitolo».

16) «_Capitolo V_».
Si compone de' fogli 46-53. Comincia: «Il quartiere dove abitavano le
educande»; finisce: «con un colpo la lasciò senza vita».

17) «_Capitolo VI_».
Si compone de' fogli 54-59. Disgraziatamente mancano i fogli 60-61.
Comincia: «Accorse al romore Egidio»; finisce: «non da un vecchio calvo
e barbuto».

18) «_Capitolo VII_».
Si compone de' fogli 62-74. Comincia: «Come una truppa di segugi»;
finisce: «era appunto per lui quel che il diavolo fece».

19) «_Capitolo VIII_».
Si compone de' fogli 75-87. Comincia: «Il mattino seguente»; finisce:
«la via che gli era prescritta».

20) «_Capitolo IX_».
Si compone de' fogli 88-95 e 95-1/2-99. «Comincia: «Quando Egidio si
avvenne»; finisce: «essere esenti da ogni perplessità».

21) «_Capitolo X_».
Si compone de' fogli 100-116. Comincia: «La carrozza correva tuttavia»;
finisce: «e mescolandovi del vostro il meno che sarà possibile». In
calce poi porta scritto: «_Fine del 2.º volume_».

22) «_Cap. I_».
È il capitolo I del tomo III, e su in alto porta scritto: _28 8bre
1822_. Si compone de' fogli 1-11. Comincia: «Il Cardinale Federigo
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