Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 23

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_Capitolo V_, poi _Appendice storica su la Colonna infame_. Sono 60
fogli di 4 pp. l'uno, il primo de' quali non è numerato: gli altri
portano la numerazione 1-59, fatta dal Manzoni stesso. Alcuni fogli
serbano, ma cancellata, la numerazione che ebbero quando fecero parte
del manoscritto del Romanzo e sono: 53, divenuto I; 54-57, divenuti
2-5; 62-67, divenuti 10-15; 65-67, ripetuti, diventati 18-20; 68-70,
mutati in 21-23. Comincia: «Due femminelle, Catterina Rosa e Ottavia
Boni, trovandosi sgraziatamente alla finestra di buon mattino il giorno
21 di giugno»; finisce: «e noi con uno scopo ben meno importante, e con
tanto minor corredo d'ingegno, ci siamo però proposti di fare ciò che
non era ancor stato fatto».
Quando il Manzoni depose il pensiero di stamparla insieme col Romanzo
e invece stabilì di farne una pubblicazione separata, la intitolò:
_Storia della Colonna infame_, e vi premise queste parole: «Fra i molti
giudizj legali che nel 1630 e al di là, furono portati in Milano, su
persone accusate d'aver propagata la peste con unzioni, uno parve ai
giudici così degno di memoria, che decretarono un pubblico monumento
a mantenergliela; e fu quella colonna nominata infame, che stette
in piedi cento quarantott'anni. E in questo eglino s'apponevano: il
giudizio fu veramente memorabile. Ma un monumento non è una storia:
anzi talvolta è, non solo meno, ma qualche cosa di contrario alla
storia. Ma se quei giudici non ci avessero dunque lasciato altro, ci
avrebbero dati, per verità, ben pochi mezzi per conoscere ciò di che
volevano farci ricordare. Ma, senza volerlo, e probabilmente senza
pensarvi, essi furono occasione che altri, probabilmente ancora senza
averne l'intenzione, conservasse al pubblico i materiali bastanti
per la storia di quel giudizio. In mezzo a quei tapini accusati si
trovò, per le singolari circostanze che racconteremo, un uomo di gran
condizione. Quest'uomo, potendo per la sua giustificazione ricorrere
a mezzi dei quali gli altri non avevano per avventura nemmeno l'idea,
e che non sarebbero stati in poter loro quand'anche i difensori gli
avessero loro suggeriti, quest'uomo, dico, pubblicò con le sue difese
e in appoggio di quelle, un grande estratto del processo, che, come a
reo costituito, gli fu comunicato. Su quel volume, che non debb'essere
mai stato comune, ed ora è singolarmente raro, si è principalmente
compilata la seguente storia. Il soggetto di essa è il giudizio dei
due condannati, il nome dei quali fu iscritto nel monumento, e quello
dell'uomo di condizione che fu assoluto. Degli altri avviluppati in
quello sciaguratissimo affare si citerà ciò che serve ad integrare la
storia principale, o anche quei tratti che per la loro singolarità e
importanza loro possono parere sempre opportuni, e che uno non saprebbe
risolversi ad ommettere, quando vi sia un appiglio per farli conoscere».
In fine allo sbozzo dell'_Appendice_ il Manzoni scrisse la seguente
dichiarazione: «Alcuni libri, collezioni, manoscritti, rarissimi, ed
anche unici, da cui l'autore ha ricavato molte notizie per questo
lavoro, e per quello che lo precede, gli furono comunicati con molta
gentilezza, e lasciati con molta sofferenza o da amici, o da persone
ch'egli non ha l'onore di conoscere personalmente, ma che per obbligar
qualcheduno non hanno bisogno di conoscerlo. Si degnino tutti di
gradire l'attestato della sua gratitudine, e l'omaggio reso ad una
cortesia che in altri casi potrebbe essere di molto vantaggio alle
lettere».
Tra le carte del Manzoni si trovano alcuni fascicoli, che egli stesso
intitolò: _Estratti e citazioni per servire alla descrizione della
peste, al processo degli untori, alla storia politica di quel secolo_.
Son copie di documenti tratti dall'Archivio Civico e dall'Archivio di
S. Fedele di Milano, spogli di gride, appunti presi da manoscritti e da
opere a stampa. Con la guida di questi _Estratti_ e delle citazioni che
il Manzoni stesso fece ne' capitoli XXVIII, XXXI e XXXII de' _Promessi
Sposi_, do qui un elenco delle fonti alle quali attinse nel descrivere
la carestia e la peste famosa.
JOSEPHI RIPAMONTII | _canonici scalensis_ | _chronistae urbis_ |
_Mediolani_ | _Historiae patriae_ | _decadis V_ | _libri VI_. |
Mediolani | Ex Regio Palatio, Apud Io: Baptistam et Iulium Caesarem
Malatestam Regios Typographos, senza anno; in-4º di pp. 419, oltre 42
in principio e 1 in fine non numerate; col ritratto del Ripamonti,
disegnato dallo _Storer_ e inciso in rame dal _Blanc_.
JOSEPHI RIPAMONTII | _canonici scalensis_ | _chronistae urbis
Mediolani_ | _de Peste_ | _quae fuit anno CIƆ_ |_Ɔ CXXX_. | _libri
V._ | _desumpti_ | _ex Annalibus_ | _urbis_ | _quos LX._ | Decurionum
| _autoritate_ | _scribebat_ (In fine:) Mediolani | Apud Malatestas,
Regios ac Ducales | Typographos, senza anno; in-4º di pp. 411, oltre 12
in principio e 1 in fine non numerate. [Nel primo libro tratta della
carestia e della peste, nel secondo degli untori; il terzo ha per
soggetto le geste del cardinale Federigo Borromeo e del clero durante
il contagio; nel quarto parla del Magistrato di Sanità; nel quinto
paragona la peste del 1630 con quelle precedenti. Le postille che vi
fece il Manzoni sono a stampa a pp. 449-453 del vol. II delle sue
_Opere inedite o rare_. Cfr. anche: _La Peste di Milano del 1630 libri
cinque, cavati dagli Annali della città e scritti per ordine dei XL
Decurioni dal canonico della Scala_ GIUSEPPE RIPAMONTI, _istoriografo
milanese, volgarizzati per la prima volta dall'originale latino da_
FRANCESCO CUSANI, _con introduzione e note_, Milano, tipografia e
libreria Pirotta, 1841; in-8º gr. di pp. XXXVI-362.--Cfr. pure:
CUSANI F., _Paolo Moriggia e Giuseppe Ripamonti, storici milanesi_;
nell'_Archivio storico lombardo_, ann. IV, fac. I, 31 marzo 1877, pp.
43-69].
BORROMEO card. FEDERIGO, _De pestilentia quae Mediolani anno 1630
magnam stragem edidit_; ms. nella Biblioteca Ambrosiana di Milano.
[Cfr. GALLI G. _Un'operetta del card. Federico Borromeo sopra la peste
ed i_ «Promessi Sposi»; nell'_Archivio storico lombardo_, serie III,
ann. XXX [1903], vol XX. pp. 110-137
[135] In margine il Manzoni vi scrisse: «Stupido: gli parve Gervaso ed
era Tonio». (Ed.)
[136] Questo brano è tolto dal capitolo V del tomo IV. (Ed.)
[137] Nel precedente capitolo, che è il settimo del tomo quarto, il
Manzoni, tra le altre cose, descrisse l'incontro di Fermo col Padre
Cristoforo nel lazzeretto. Ma di quei capitolo non restano che dei
frammenti; e la scena dell'incontro in gran parte è perita. Eccone
un saggio: «Gran Dio!» (è il Padre Cristoforo che parla) «questo
flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna
già maledetta: tanti grappoli abbatte, e quei che rimangono son più
tristi, più agresti, più guasti di prima. Tu stesso, qui dove l'uomo
non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
--Or va, disse il Padre, alzandosi; Iddio benedica le tue ricerche.
--Vuol dire, Padre, ch'io la troverò? richiese Fermo ansiosamente, come
se parlasse ad un uomo che ne potesse saper più di lui.
--Cercala con perseveranza, rispose il Padre, cercala con
rassegnazione. Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso.
Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi
t'ha offeso; ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine
di questa vita, se tu osservi la sua legge. Non ti basta? Va, e
qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene contezza;
noi ringrazieremo Iddio insieme. Così dicendo, egli pose le mani su
le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata, in atto
di preghiera e di benedizione. Poi, staccandosi, disse: Intanto io
pregherò per voi: assistendo a questi nostri fratelli, io pregherò per
voi.
Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento, con le mani compresse
al volto, piangendo e pregando, s'alzò, guardò intorno, uscì dalla
capanna, e si diresse alla chiesa, come gli aveva indicato il
cappuccino. Egli era scomparso, e andava cercando intorno dove fosse
più bisogno della sua assistenza». (Ed.)
[138] Segue, cancellato: «lo spicciò in pochissimo tempo, Il signor
Prospero gli tenue dietro. Lucia, alla quale erano toccati i servigj
più». E di nuovo: «Don Ferrante l'appiccò al suo Prospero, questi ad
una donna di casa, e questa a Lucia». (Ed.)
[139] Aveva scritto, ma cancellò: «Il primo pensiero di Donna Prassede
dopo questa disgrazia fu di congedar Prospero, e tutta l'altra gente
di Don Ferrante, ma nè Prospero, nè gli altri gliene diedero il
tempo, perchè egli il primo e tosto gli altri in fila s'infermarono,
e furono». Segue, pur cancellato: «Donna Prassede, combattuta tra il
timore di tenersi un appestato in casa e il timore di attirarvi i
monatti, non risolse nulla, ma stette in una stanza remota, aspettando
che». (Ed.)
[140] Prima scrisse: «quando si sentisse appressare un carro del
lazzeretto». (Ed.)
[141] Segue, cancellato: «Quando Lucia nella sua angoscia aveva fatto
quel voto, non credeva (e, se mal non mi ricordo, abbiam fatta questa
riflessione a suo tempo) che». (Ed.)
[142] È il principio del capitolo VIII del tomo IV. (Ed.)
[143] Il Manzoni sopra _mandava_ ha scritto _pioveva_. (Ed.)
[144] Qui finisce il capitola VIII e incomincia quello IX. (Ed.)
[145] Sarà curioso e utile il vedere di quali e quante correzioni e
pentimenti l'A. tempestò questo primo periodo e quello seguente. Scrivo
in corsivo e metto tra parentesi quadre le parole cancellate: «[_Quel
ramo del lago di Como_ [CHE] _donde esce l'Adda_
[146] Nella _Guida di Lecco, sue valli e suoi laghi, compilata da_
GIUSEPPE FUMAGALLI, _con topografia descrittiva del romanzo_ «I
Promessi Sposi», _e scritti vari di_ ANTONIO GHISLANZONI, del dott.
GIOVANNI POZZI _e di altri autori_, Lecco, Vincenzo Andreotti detto
Busall, editore [Milano, Stab. G. Civelli, 1882]; in-16º, con una carta
topografica, si afferma che i panorami del territorio di Lecco non
si possono ritrarre per virtù di parole e che il Manzoni non riuscì
in questa descrizione, e non ottenne l'intento neanche con l'addio,
il quale ci commuove fortemente sol perchè in esso «sta la sintesi
di tutti quei dolori che lo determinarono» [p. 50]. B. ZUMBINI [_I
Promessi Sposi e il Lago di Lecco_; in _Studi di letteratura italiana_,
Firenze, Successori Le Monnier, 1892, pp. 280-281] fa notare «a codesti
egregi autori» che, «trattandosi di cose del Manzoni, era meglio se ne
ragionasse con minor disinvoltura», poi soggiunge: «mi pare evidente
che il Manzoni abbia adoperata la descrizione non già per far visibili
alla mente le cose, quali sono nella loro realtà, ma piuttosto per
derivarne nuovo pregio a quella rappresentazione di fatti umani, ch'era
il suo più alto intento. E ciò fece con quella profonda consapevolezza
di fini e di mezzi, di cui diede chiare prove in ogni altro suo lavoro,
e con quel raziocinio che in lui non fu meno meraviglioso delle facoltà
poetiche. E veramente, da ogni particolare di quella descrizione e da
tutto ciò che seguita nel romanzo, s'intende com'egli volesse destare
in noi l'immagine di un dolce e riposato ostello, i cui abitatori
sarebbero stati felicissimi, se non li avesse contristati la violenza
de' signorotti paesani e degli Spagnuoli». (Ed.)
[147] Cfr. SFORZA GIO., _Saggio di una edizione critica dei Promessi
Sposi_, Bologna, tipografia Zamorani e Albertazzi, MDCCC XCVIII; in-fol.
[148] Racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i
suoi amici_; II, 175]: «Il Manzoni non diede ad altri da ricopiare il
suo romanzo, e udii raccontare da lui stesso che finito il romanzo
ed avendo sul tavolo il mucchio di carte che lo componeva, invitato
dal Grossi a darlo allo stampatore, gli rispose:--Oh giusto! ora
bisogna copiarlo per porlo in netto, perchè lo stampatore possa
raccapezzarsi.--Ebbene, fallo copiare, disse il Grossi.--Oh giusto!
bisogna che lo copi io stesso, per fare in pari tempo quelle correzioni
che saranno del caso.--Come! esclamò il Grossi, vuoi fare la fatica
bestiale di copiare tutto quel mucchio di carta? Ma sei pazzo!--Che
vuoi che ti dica? Non posso fare a meno. Bisogna che faccia alla
mia maniera.--Ed ebbe la pazienza di copiare lui stesso tutto il
manoscritto dei _Promessi Sposi_, e mi pareva che nel raccontare tal
cosa ne provasse una certa soddisfazione». Lo Stampa nell'affermar
questo è stato tradito dalla memoria. Il Manzoni, condotta a fine
la prima minuta, non poteva darla a copiare ad altri, perchè non si
trattava di una trascrizione, bensì di un rifacimento, che bisognava
scrivesse da per sè; come infatti fece. Della copia per la Censura,
che è d'altra mano, ed è la trascrizione della seconda minuta, resta
soltanto il primo volume; gli altri due sono andati perduti. Dunque il
consiglio del Grossi, se pur lo dette, fu accolto e seguìto. Questa
copia ha molte correzioni autografe del Manzoni, che a volte rifà
di suo pugno anche de' lunghi brani, o in margine, o incollando sul
manoscritto qualche brandello di carta. Nel presente saggio, che ne do,
stampo in carattere corsivo le correzioni di mano di lui. (Ed.)
[149] Il Manzoni nel testo definitivo si diffuse maggiormente a
raccontare la vita de' suoi protagonisti anche dopo maritati.
Parlandone a uno de' propri congiunti, che lo lodava appunto per
questo, gli disse: «Che vuoi? sarò probabilmente criticato di avere
diminuito l'effetto della fine del romanzo continuando a descrivere la
vita dei due sposi. Ma anche a me piace di più il lieto fine; e non ho
potuto trattenermi dalla tentazione di stare un po' ancora in compagnia
de' miei burattini». Lo racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua
famiglia, i suoi amici, appunti e memorie_; II, 177]; e aggiunge [p.
183]: il Manzoni «non si sarebbe accinto a scrivere un altro romanzo
sul tipo de' _Promessi Sposi_, ma ebbe una volta la tentazione di
scrivere un altro romanzo di genere fantastico, di cui pur troppo non
mi ricordo il titolo che doveva portare e la sua traccia generale; ma
la seppi». (Ed.)
[150] Nella stessa prima minuta la ribattezzò poi _Perpetua_; nome,
come tanti altri de' _Promessi Sposi_, divenuto famoso. In uno studio
molto geniale del GRAZIADEI [_La Serva di Don Abbondio_, Palermo,
Reber, 1903] si legge: «In quella casa, piccola, che in tre passi si
traversa una stanza e s'è nell'altra, non v'ha di grande che il buon
senso di Perpetua, e solo la lingua di lei si move in fretta». (Ed.)
[151] Qui termina il capitolo I del tomo I della prima minuta, e
incomincia il capitolo II. (Ed.)
[152] LUIGI SETTEMBRINI [_Lezioni di letteratura italiana_, settima
edizione; III, 315] si domanda: «Come sono gli occhi di Lucia?» E
risponde: «Non si sa; essi li teneva quasi sempre chinati a terra
per pudore. Un altro poeta, e specialmente un francese, quali occhi
avrebbe dati a quella fanciulla!» Nella prima minuta la descrizione
degli occhi di Lucia c'era, ma nella stessa prima minuta la cancellò.
Ecco il passo. Scrivo in corsivo e metto tra due parentesi la parte a
cui dette di frego. «Oltre questo, che era l'ornamento particolare di
quel giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza[.
_Questo era l'ornamento particolare di quel giorno, ma Lucia ne aveva
un quotidiano, che consisteva in due occhi neri, vivi e modesti, e in
un volto di una regolare e non comune bellezza_]; la quale era allora
accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell'animo
suo in quel giorno. Poichè appariva nei suoi tratti una gioja non senza
un leggier turbamento, un misto d'impazienza e di timore, e quella
specie di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto
delle spose, e che temperato dalle emozioni gioconde e liete, non turba
la bellezza, ma l'accresce e le da un carattere particolare».
Il consigliere Federico de Müller raccontando nelle proprie _Memorie_
una visita che fece al Manzoni a Brusuglio, nell'agosto del 1829,
scrive: «Discorremmo molto dei _Promessi Sposi_. Io gli detti copia
d'una lettera in cui una amica, di molto ingegno, si manifesta
molto entusiasta di questa opera. Ne ebbe gran gioia; ma contro
l'osservazione che vi si trova, esser cioè Lucia più un ideale che una
vera figura d'italiana, affermò subito che la purezza e la castità
delle contadine lombarde supera ogni aspettativa, e che egli ritrasse
Lucia fedelmente dal vero. Madama» [_Enrichetta_] «Manzoni s'accordava
in ciò perfettamente con lui, e m'assicurò che tra le contadinelle di
que' contorni esiste una tale esagerata morigeratezza e ritrosia, da
costringerle a ben guardarsi, quando vanno la domenica a passeggiare
col fidanzato, dal prenderlo per la mano e dall'esser famigliari con
lui, se non vogliono correr pericolo divenir diffamate dal popolino».
Racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi
amici_; II, 167]: «Un giorno il Manzoni, al caminetto del suo studio,
mi domandò spontaneamente e senza che me l'aspettassi:--Dimmi un po',
non ti pare che, come contadina, abbia idealizzato un po' troppo
la Lucia?--Risposi francamente:--No! perchè ho avuto occasione di
conoscere qualche contadina che aveva dei sentimenti puri ed un cuore
delicato come quello della tua Lucia.--Mi parve che gradisse molto
questa risposta e che rimanesse molto soddisfatto di questa mia
assicurazione». (Ed.)
[153] Lo ribattezzò col nome di Padre Cristoforo nel capitolo IV del
tomo I della stessa prima minuta; nella quale, da principio, lo fece
anche guardiano del convento di Pescarenico; carica, per altro, che gli
tolse quasi subito. Il nome di Galdino lo dette invece al cercatore
delle noci, prima da lui chiamato fra Canziano. Costui fa la sua
comparsa nel capitolo III del tomo I. «S'ode picchiare all'uscio e
nello stesso momento un sommesso, ma distinto _Deo gratias_. Lucia,
immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un
inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia
pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata
e stretta nelle due mani sul petto.--Fra' Canziano, dissero le
due donne.--Il Signore sia con voi, disse il frate: vengo per la
cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono, voi ne darete
a Dio la sua parte, affinchè ve ne dia un altro eguale o migliore
l'anno venturo; se però i nostri peccati non attireranno qualche
castigo.--Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri, disse Agnese».
Mentre la figlia eseguisce la commissione, fra Canziano racconta alla
madre il miracolo delle noci, avvenuto in Romagna, dove egli era stato
cercatore; e avvenuto al tempo del «padre Agapito» (ribattezzato
nel testo definitivo _padre Macario_), «che era un santo». Poi così
prosegue il racconto: «Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico
di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due capi sospesi
colle braccia tese e allungate. Mentre fra Canziano si tolse la
bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per
introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e
severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata,
che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in
augurj, in promesse, in ringraziamenti; e, rimessa la bisaccia, si
avviò; ma Lucia, fermatolo:--Vorrei una carità da voi, disse. Vorrei
che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma
premura; e che mi faccia la carità di venire da noi poverette subito
subito, perchè io non posso venire alla chiesa.
--Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino.
--Non mi fallate.
--State tranquilla; e così detto, partì, un po' più curvo e più
contento che non quando era arrivato.
Il Padre Galdino era un uomo di molta autorità fra i suoi e in tutto
il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a
questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di
venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se
gli si fosse commesso di avvertire il Padre Galdino che il Vicario di
Provvisione e i Sessanta del Consiglio generale della Città di Milano
lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto, Re
di Castiglia, di Leone, etc. Non vi era nulla di troppo basso, nè di
troppo elevato per un cappuccino: servire talvolta gl'infimi, ed esser
serviti dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa
aria mista di umiltà e di padronanza; essere nella stessa casa un
soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva
nulla; cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la
chiedevano al convento; a tutto era avvezzo un cappuccino, e faceva
tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di
nulla. Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile
che prima di tornarsene si abbattesse, o in un principe che gli
baciasse umilmente la punta del cordone, o in una mano di ragazzacci
che, fingendo di essere alle mani fra di loro, gli bruttassero la
barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita colla
più gran venerazione e col più profondo disprezzo; era un elogio e
un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi
due estremi, perchè senza ricchezze, facendo più aperta professione
di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla
venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione
poi data generalmente al loro Ordine li poneva nel caso sovente di
giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi
ostacoli, e da quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per
essi, e delle opinioni sul conto loro. Varii pure e moltiformi erano
e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi
in un esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello
stato, che allora era esaltata universalmente; altri per acquistare
una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come
allora si viveva, nel secolo; altri per fuggire una persecuzione, per
cavarsi da un impiccio; altri dopo una grande sventura, disgustati del
mondo; talvolta principi, o fastiditi o atterriti del loro potere;
molti perchè di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione
che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e
degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa
loro intenzione (perchè quando si è persuasi d'una verità bisogna
dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri
indegni di quella che si usa verso i potenti), questa loro intenzione
non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente
leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa, o
non considera le circostanze e l'idee di quei tempi: era una intenzione
ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con
queste intenzioni molti, abbracciando quello stato, facevano del bene
tutta la loro vita; anzi molti, che sarebbero stati uomini pericolosi,
che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con
quell'abito indosso. Ho fatta tutta questa tiritera, perchè nessuno
trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione,
senza stupirsi, si sia incaricato di dire nullameno che al Padre
Guardiano che s'incomodasse a portarsi da una donnicciuola, che aveva
bisogno di parlargli».
Il mutamento del nome seguì, come s'è detto, nel capitolo IV, che prima
intitolò: _Il Padre Galdino_, e poi: _Il Padre Cristoforo_; e seguì
dopo che n'ebbe scritte alcune pagine. Son queste: «Era un bel mattino
di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più alte cime
erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava
per ispuntare dietro a quella montagna, che dalla sua forma è chiamata
il Resegone (Segone), quando il Padre Galdino, a cui fra Canziano
aveva esposta fedelmente l'ambasciata, si avviò dal suo convento per
salire alla casetta di Lucia. Il cielo era sereno e un venticello
d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là.
Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si
vedevano splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi,
e i campi, già seminati e lavorati di fresco, spiccavano dall'altro
terreno come lunghi strati di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto
della terra era lieto, ma gli uomini che si vedevano pei campi o sulla
via mostravano nel volto l'abbattimento e la cura. Ad ogni tratto
s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti, invecchiati nel
mestiere, ma fra i quali molti si conoscevano per forestieri, che la
fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la carità consueta
non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi
indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati
in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni, i
quali dal volto, dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa
la mano e di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano
cheti a canto al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza
dirgli nulla, perchè la sola parola che indirizzavano ai passeggieri
era per chiedere l'elemosina, e un cappuccino, come ognun sa, non aveva
niente. Ma il buon Padre Galdino si volgeva a quelli che apparivano più
estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di compassione:--Andate
al convento, fratello; finchè ci sarà un tozzo per noi, lo
divideremo.--I contadini, sparsi pei campi, non rallegravano più la
scena di quello che facessero i poverelli. Salutavano essi umilmente
il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come l'andasse:--Come
vuole, padre? rispondevano: la va malissimo.--Alcuni, che in tempi
ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano,
fatti più animosi per la miseria dei tempi, gli dicevano:--Come anderà
questa faccenda, Padre Galdino?
«--Sperate in Dio, che non vi abbandonerà. Povera gente! Il raccolto è
proprio andato male?
«--Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate, e il
lavoro cessa da tutte le bande.
«Questa vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon
cappuccino, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore di
andare ad udire una qualche sventura.
«Ma perchè pigliava egli tanto a cuore gli affari di Lucia? E perchè
al primo avviso si era egli mosso come ad una chiamata del Padre
Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?»
Ecco la prima volta che dà al frate il nuovo nome. Ne fa questa
pittura: «Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessanta
anni» (poi corresse: _più presso ai sessanta che ai cinquant'anni_):
«e il suo aspetto come i suoi modi annunziavano un antico e continuo
combattimento tra una natura prosperosa, robesta, un'indole ardente,
avventata, impetuosa e una legge imposta alla natura e all'indole
da una volontà efficace e costante. Il suo capo, calvo e coperto
all'intorno, secondo il rito cappuccinesco, di una corona di capelli,
che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo in tempo per un
movimento di spiriti inquieti e tosto si abbassava per riflessioni di
umiltà. La barba, lunga e canuta, che gli copriva il mento e parte
delle guance, faceva ancor più risaltare le forme rilevate, alle quali
una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto
di espressione, e due occhj vivi, pronti, che di tratto in tratto
sfolgoravano con vivacità repentina: come due cavalli bizzarri condotti
a mano da un cocchiere col quale sanno per costume che non si può
vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto, che termina
subito con una buona stirata di briglie.
«Il signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che
facendosi poi frate prese il nome di Cristoforo), il signor Ludovico
era figlio d'un ricco mercante cremonese, il quale negli ultimi anni
suoi, vedovo e con questo unico figlio, rinunziò al commercio, comperò
beni stabili, si pose a vivere da signore, cercò di far dimenticare che
era stato mercante, e avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso. Ma il
fondaco, le balle, il bracciò gli tornavano sempre alla fantasia, come
l'ombra di Banco a Macbeth».
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