Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 12

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rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più
infocate, riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti
alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto
scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un momento,
come sopraffatto dalle rimembranze e dai pensieri dell'avvenire, e
ripreso fiato, procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come quello
di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu
ben più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva
attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte
chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare,
lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male[135];
ma non fu riconosciuto da esso, che gli piantò in faccia due occhj
insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe
risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era quale
l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e
là, qua e là affumicata, e dentro vuota, ma non già pulita, che vi
rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo
in fretta inorridito, ritirando l'occhio dallo spettacolo e la mente
dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si
incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico,
di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non
ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa,
dov'era pure la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si
poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra
aperta e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in
campo nero, una figura immobile, appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un
vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del
pittore e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro,
per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo, che aveva
sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza, lo riconobbe, e
da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue
traversie, sentì rivivere un po' di stizza e volle passar di lungo.
Ma tosto, l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire
una voce umana e conosciuta, così potente in quelle circostanze, la
speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero
nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando
il volto alla finestra, disse:--Oh, signor curato, come sta ella in
questi tempi?--Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era
sembrato di riconoscerlo; ma quando sentì la voce che non gli lasciava
più dubbio--Per amor del cielo! disse, voi qui? Che venite a fare in
queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella
di cattura...?
--Oh via, signor curato, disse Fermo non senza dispetto, mi vuol ella
fare anche la spia?
--Parlo per vostro bene, disse Don Abbondio, che nessuno ci sente.
Chi volete che ci senta. Non vedete che son tutti morti? Che venite a
cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato
finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perchè quando si
tratti di castigar voi e di tormentare me, pover uomo, vi sarà dei vivi
ancora.
--Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?
--Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri
noi! che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far
giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?
--Ella deve ricordarsi, signor curato, disse Fermo con voce alquanto
risentita, che Lucia ed io... non eramo grilli.
--Oh! disse Don Abbondio, figliuol caro, voi avete sempre avuto il
timor di Dio, spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con
libertà, da vero padre, perchè vi ho sempre voluto bene. So io quel
che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche
disgrazia--e già, pur troppo, non la schivereste--che crepacuore per
me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la
peste...
--La peste l'ho avuta, disse Fermo, son guarito, e non ho più paura.
--Vedete che avviso vi ha mandato il cielo, per farvi pensare al
sodo... Anch'io l'ho avuta e son qui per miracolo.
--Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?
--Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in
Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono
tanti.
--Ma noi siam pur vivi, e...
--Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam
trarre è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano,
figliuolo! chi vive in Milano? Questo è un purgatorio, ma quello è
l'inferno. Non vi passasse mai pel capo...
--E Agnese, signor curato?
--Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si
guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate
fra piedi, che le fareste dispiacere.
--Sia lodato Dio; ma ella nè mi vuole ajutare, nè vuole che altri
m'ajuti.
--Che dite, figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perchè vi voglio
bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo... Dio
guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un
impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel
che dico, potreste trovare... chi sa? gente che vuol bene, ma ...
gente che si piglia impegni di proteggere, e poi... sostenere...
cozzare... basta, parlo con tutto il rispetto... ma, Dio solo è da
per tutto... Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno...
si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perchè la riordini
... e chi ne va col capo rotto è il curato... Fate a modo mio, tornate
dove siete stato finora.
--Basta, disse Fermo, non mi aspettava da lei più soccorso di quello
che mi abbia avuto. Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi
che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a
modo mio.
--No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete
in imbroglio me e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo, che ha
bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse. Quello
che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno. Ne ho passate
d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e
m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi. Ho dovuto
fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come
selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato... e ho
dovuto... e basta... sono stato ricoverato da un degno signore...
basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere
agli appestati... e ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho
presa anch'io, e son qui vittima della mia carità; d'allora in poi non
son più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj;
e mi tocca servirmi da me, povero, vecchio e malandato, come sono.
Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi
travagli...
--Signor curato, disse Fermo, io le desidero ogni bene; e del travaglio
ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia
ella non me la vorrà fare; del resto, io mi rimetto nelle mani di Dio.
Attenda a guarir bene, signor curato.
--Sentite, sentite,--continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta
una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di
Lucia.
--Oh povero me! questo ci mancava! continuò a barbottare fra sè Don
Abbondio, ritirandosi dalla finestra. Povero me! Se costui va a Milano,
se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato
l'imbroglio. Un Cardinale che dirà: voglio che si faccia il matrimonio;
un signore che dice, non voglio: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta... disse poi soffiando, dopo d'avere alquanto pensato... muore
tanta gente... che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si
divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il
lettore se ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria. Alla vista
di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli
un gran sospiro, e bussò.
--Chi è là? gridò da dentro la voce d'Agnese: state lontano; non
bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra.--Son io,
rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta, aveva
fatte in fretta le scale e apriva la finestra.--Son io; mi conoscete?
disse ancor Fermo, quando la vide.--Oh Madonna santissima! sclamò
Agnese: voi?--Io, rispose Fermo; sono il benvenuto?
--Oh figliuolo! sclamò di nuovo Agnese, quanto vi avrei desiderato, se
non avessi avuto paura per voi? Ma ora che venite voi a fare?
--A saper nuove di Lucia e di voi, rispose Fermo. A vedere se tutti si
sono scordati di me. Che n'è di Lucia?
--Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella
stava bene di salute; ma ora chi può sapere...?
--Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia, disse Fermo
risolutamente.
--Voi? disse Agnese: ma e... mi capite. Basta...
--Volete aprirmi e parleremo più liberamente?
--E la peste, figliuolo?
--Grazie al cielo ella non ha ammazzato me ed io ho ammazzato lei, e
son sano e salvo, come mi vedete. Aprite con sicurezza.
--Scendo ad aprire, rispose Agnese; oh con quanta consolazione v'avrei
riveduto. Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano.
--Come vorrete, rispose Fermo.
--State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi
affacciate alla porta; lasciatemi rientrare; poi entrerete e vi porrete
in un angolo, lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno
bisogno di toccarsi. Oh quante cose ho da dirvi!
--Ed io a voi, rispose Fermo.
Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo
che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo
entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a
sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in
quel luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta e venne
a sedersi nell'angolo opposto. E subito cominciò come una sfida
d'inchieste.
--Come vi siete fidato di venir da queste parti?
--Perchè Lucia non mi ha mai risposto?
--Come avete potuto fuggire?
--E perchè non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi
denari?
--Chi v'ha strascinato in quei garbugli?
--Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata
propriamente la cosa?
Fatte le prime interrogazioni più pressanti, ognuno cominciò a
rispondere brevemente a quelle del compagno. Fermo finalmente pregò
Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo
di soddisfarla egli poi della propria. Così Fermo conobbe per la prima
volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato.
Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora diede dei
pugni all'aria ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento;
maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e
benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il
perdono del cielo sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia
oscuro, nè Agnese sapeva dilucidarlo. Perchè non è venuta con me? con
me, suo promesso? con me, che doveva, che poteva divenir suo marito?
che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari, e il cielo
gli aveva mandati. Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur
pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli
orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e
fosse disgustata d'ogni cosa.
--Oh? andrò io a saperlo da lei, disse Fermo; voglio vedere l'acqua
chiara. Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per
demeritarla; e se non mi vuoi più... e qui avrebbe pianto se gli
uomini non si vergognassero di piangere: se non mi vuoi più, me lo ha a
dire di sua propria bocca, e mi deve dire il perchè.
Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo
le narrò sinceramente. Questa storia fece molto piacere ad Agnese e le
rimise Fermo nell'antico buon concetto.--Voleva ben dire io; sclamava
essa di tratto in tratto. Se sapeste come la raccontavano qui, in cento
maniere, l'una peggio dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta
scrivere ben chiara.
--E voi, madonna, disse Fermo, non mi avete mai data soddisfazione
sopra quello che io voleva sapere.
--Basta, disse Agnese, lodato Dio che abbiam potuto parlarci una
volta; valgon più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti
gli scarabocchj di questi sapienti. Ma voi come vi fidate di andare a
Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove...?
--Chi mi conoscerà! rispose Fermo, non m'hanno visto che un momento; e
il nome... ne piglierò un altro; non ci vuoi gran lettera per questo;
e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste. Sono
tutti in confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice... Ah!
pur che viva Lucia!
--Dio lo voglia! sclamò Agnese; e lo vorrà, io spero. Quella poveretta
innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per
salvarla ora, Ah! Fermo io ho buona speranza; andate pure; mi sento
tutta riconfortata dall'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i
guai sono alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti.
Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non li seppe dir altro se
non ch'egli era a Palermo, che è un sito lontano lontano, di là dal
mare. Scontento, e perchè sperava da lui ajuto e consiglio, e perchè
desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perchè avrebbe
riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione
e tanta riconoscenza. Disse però: brav'uomo! vero religioso! è
meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli. Agnese
offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni
sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di
non avvicinarsi a quell'altro luogo. Fermo accettò l'ospitalità ben
volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava. Era venuta
l'ora della cena, e la massaja si diede ad ammanirla. Pose al fuoco la
pentola per cucinarvi la polenta. Fermo, da giovane ben educato, voleva
risparmiare la fatica alla donna e fare egli il lavoro: ma Agnese,
levando la mano: guardatevi bene dal toccar nulla, disse; lasciate fare
a me. Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la
rimenava dicendo: Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che
la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona
compagnia. Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando
sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la
vacca» tornò con una brocca di latte, dicendo: vedete: quella povera
bestia da sei mesi è la mia unica compagnia. Prese un bel pezzo di
polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più
lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno
alla persona, perchè non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi, allo
stesso modo, gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena
si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome
dei padroni di Lucia; gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva
sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia
qualche ora dopo la cena. Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza
dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia. Fermo amò meglio di
andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione
per la salute. Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a
Fermo due pani e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì
di vino il fiaschette ch'egli aveva portato con sè, dicendo: in questi
tempi potreste morir di fame prima di trovare chi vi desse da mangiare.
Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di
accoramento e di speranza. Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno,
e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe
trovato più facilmente un ricovero al di fuori. Ristette di fatti in
una cascina deserta, a un miglio dalla città. Dormì su le stoppie, e
all'alba, levatosi, si avviò e fece la sua seconda entrata in Milano,
che gli comparve di un aspetto più tristo e più strano d'assai che non
era stato la prima volta[136].


XXII.
FERMO TROVA LUCIA NEL LAZZERETTO.

All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di
capanne, e Fermo, giungendovi, lo vide occupato da una folla, distinta
in ragazzi, in donne e in uomini, tutti composti e in gran silenzio,
fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria, che
veniva dal tempio. Questo, elevato d'alcuni gradi al di sopra del
suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne, disposte in
circolo; nel mezzo v'era un altare, che si poteva vedere da tutti i
punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi
sono murati. Ritto sulla predella dell'altare stava un cappuccino,
alto della persona, fra la virilità e la vecchiezza; teneva con la
destra una croce, posata al suolo, che gli sopravvanzava il capo di
tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso
che andava facendo. Era questi il Padre Felice, sopraintendente del
lazzeretto. Fermo, giunto sull'orlo di quella adunanza, avrebbe voluto
avanzarsi a trascorrerla e cercare ciò che gli stava a cuore; ma, senza
contare un altro cappuccino che, con un aspetto tanto severo, anzi
burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo
alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento
silenzio e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro
ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio
e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità della brigata ad
aspettare e udì la perorazione di quel singolare oratore.
Diamo adunque, diceva egli, un ultimo sguardo a questo luogo di miserie
e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono
stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanti pochi al
paragone, siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce
da lodarne Iddio. L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra
ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto
nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte,
benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto
di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere
questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta, da
questo momento, esserne un indizio manifesto! Attraversando questo
mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà e di conforto a quegli
che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, oh quanto
pochi, potranno, come noi, afferrare un porto terreno. Ci vedano
uscirne rendendo grazie per noi ed elevando preghiere per essi!
Attraversando la città, già sì popolosa, noi, scarsa restituzione
dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli
scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato. Procediamo
con la compunzione nel volto e coi cantici su le labbra. Quegli che
son ritornati nella pienezza dell'antico vigore porgano un braccio
soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani
sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute
ritornata non apporta che pochi giorni di stento. E se in questo
soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam
peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati
i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità;
ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono;
ricorriamo ad esso di nuovo. Per me...
E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una
corda, che gli stava ai piedi, se l'avvinghiò al collo, come ad un
malfattore, cadde ginocchioni e proseguì:
Per me e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli,
siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio
di servir Cristo in voi; se, come pur troppo, non abbiamo degnamente
corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto
un sì grande ministero... perdonateci! Se la fiacchezza o la
ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle
vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza, se una noja
colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto
severo e fastidito, perdonateci! se la corruttela d'Adamo ci ha fatto
trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza e
di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine
che delle sue proprie colpe!
Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che
l'umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito. Un singhiozzo,
un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere.
Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe le mani
e l'inalberò; scese dalla predella e quivi depose i sandali; gridò
ad alta voce: andiamo in pace; poi intonò il _Miserere_; e scalzo,
portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni
del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto
che sbocca dinanzi alla mura della città, e s'incamminò verso quella.
Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che
potevano reggersi e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune
delle quali tenevan per mano o nelle braccia fanciulline, o bambini,
e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli
uomini, pur cantando; poi carri di convalescenti e delle bagagli e
di quei che partivano; quelle che in tanta confusione s'eran potuto
serbare e raccogliere. Ultimo veniva quell'altro cappuccino che abbiamo
menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con
gli occhi e con la voce teneva in sesto il convoglio. Era questi un
Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il
primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che
parte s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi
innanzi, senza dare nè ricever disturbo, e sboccar poi di nuovo su la
strada per dove la processione doveva passare. Dalla porta meridionale
al tempio v'era infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato
sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi, che per lo
più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano
a dritta e a sinistra, come si poteva. Fermo riuscì su quella, al mezzo
incirca, e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide
passare i ragazzi e poi con un gran battito di cuore esaminò le donne,
che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perchè elle procedevano
a due a due. Passa, passa; guarda, guarda; qui non v'è, qui nè pure:
più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime
della fila femminile; ecco gli uomini; Lucia non v'era. Quanta speranza
svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i
primi erano carichi di donne. Stette dunque aspettando; lasciò passare
la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri. Passavano
lentamente, si arrestavano talvolta, come accade nelle processioni
e nelle marce d'ogni genere, di modo che Fermo potè aver la trista
certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista, e che
Lucia non v'era. Le braccia gli caddero quando si vide finire in mano
l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze. Anche prima
di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva
pur troppo quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei
tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati:
ma pure, come si suole, egli metteva il suo desiderio sul guscio della
speranza e faceva traboccare le bilance da quella parte. Ma ora egli
credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, nè tra i
convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza
(quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise,
senza troppo pensare dove anelasse, su quella via rimasta sgombra, e
le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio. Quivi gli vennero alla
mente le parole del buon frate Cristoforo: Se non ve la scorgi, fa
cuore tuttavia... Cercala con rassegnazione[137]. Si prostrò su gli
scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio, un
viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni,
di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non
si fanno agli uomini, perchè non hanno abbastanza penetrazione per
intenderli, nè sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi
per sentirne compassione senza disprezzo. Si levò di là più rincorato
e si avviò. Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale, a
cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro
di capanne, e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perchè
ivi facevano capo e giravano i carri che portavano alla fossa di San
Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto. Fermo
scelse quella via come la meno impedita e la più breve, e studiando
il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo
frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla
porta. Ma quivi un accorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi
che uscivano, faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo,
anzichè affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare
tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato. Le capanne in quel
luogo eran tutte abitate da donne, ed egli procedeva lentamente d'una
in altra, guardando. Or, mentre passando, come per un vicolo, tra due
di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e
l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima,
sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa,
sentì venire una voce... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe
distinta in un coro di cento cantanti, e che, con una modulazione di
tenerezza e di confidenza, ignota ancora al suo orecchio, articolava
parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che
certamente non gli erano mai state proferite: Non dubitate; son qui
tutta per voi; non vi abbandonerò mai.
Se Fermo non mise uno strido, non fu perchè lo rattenesse il riguardo
di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso,
o cacciato; fu perchè gli mancò la voce. Le ginocchia gli tremarono
sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più
quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da
farsi, o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di
prima. In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna
inclinata sur un letto, che andava assestando.
Lucia! chiamò Fermo, con gran forza e sottovoce ad un tempo: Lucia!
Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare,
si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: Oh Signore
benedetto! Fermo rimase su la porta, tacito e ansante, e Lucia pure,
dopo quel grido, stette immota in silenzio più tempo che non bisogni
a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo
lasciata.
Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un
certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede. Ma, allo
spiegarsi della peste, questa signora, messe da un canto tutte le
altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma
anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe
più che un pensiero, dì guardarsi dal pericolo comune. Pensò ella
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