Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 22

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negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian
lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un
guancialino...? Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori
medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna,
e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate
là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de'
corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E
tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove?
brucerete Saturno?
«_His fretus_, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».
OLINDO GUERRINI [_Achillini e Manzoni_; in _La Rassegna settimanale_,
di Roma, vol III, n.º 59, 16 febbraio 1879, pp. 130-131] notava,
per il primo, che il ragionamento posto dal Manzoni in bocca a don
Ferrante, lo «copiò di sana pianta, senza dirci dove l'avesse preso»,
e ne indicava la fonte: una lettera di Claudio Achillini ad Agostino
Mascardi. Tornava a trattare la questione, con grande serenità e molto
garbo, LUIGI D'ISENGARD [_Claudio Achillini e don Ferrante_; in _La
Rassegna nazionale_, di Firenze, anno XX, vol 104, 1º decembre 1898,
pp. 629-636.]
Agostino Mascardi di Sarzana, che visse dal 1591 al 1640 ed ebbe grido
tra' letterati d'allora, mentre a Milano e nel resto d'Italia infieriva
la peste e correvano le più strane e orribili voci intorno gli untori,
scriveva all'Achillini: «Ditemi, di grazia, signor Claudio, che credete
delle cose di Milano? Non parlo degli accidenti di guerra e della
peste, che per via d'ordinario contagio si propaga, ma di quell'altra,
che si dice esser seminata dagli uomini con mistura d'incanto. Io per
me, come non sono dei più arrendevoli a creder tutto quello che si
attribuisce al diavolo, così non lodo l'ostinata credulità di certi
filosofastri, che, per far troppo del saccente, danno nell'infedele.
Che in altri tempi si sia trovata cotal sorte di peste, dalla malvagità
degli uomini appiccata con diverse misture, è notissimo». Qui tira
in ballo Seneca e Tito Livio, Paolo Diacono e Procopio, Pomponio
Leto e Gregorio Nisseno, Evagrio, Cedreno e Sigiberto; poi prosegue:
«Può nondimeno accadere che la moltitudine, credula al suo peggiore
e inchinata alla superstizione, v'aggiunga molte cose del suo, in
virtù dell'eccessivo timore che la toglie di senno. Però, figliuole
della paura e della sciocchezza stimo io quelle larve di Principi, di
vecchi e di palazzi, delle quali s'empiono i fogli di Lombardia, quando
non sieno macchine mal composte di qualche ingegno, più curioso che
discreto, per dar materia di spavento alla plebe, e agli uomini sensati
o di riso o di sdegno. È certo nondimeno che nelle pubbliche calamità
gli autori antichi osservano molte fiere visioni, o vere, o immaginate
dalla paura... Tantochè, per abbattere dalle sue fondamenta Milano,
era necessario che alla fame compassionevole, alle violenze di barbara
soldatesca, alle ruine di tanti anni di guerra, alle stragi della peste
comune, s'aggiungesse il veleno, dirò insanabile, se è composto fin
nell'Inferno con liquori nel nostro mondo non conosciuti».
L'Achillini gli rispondeva dalla sua villa al Sasso, nella valle del
Reno, dove s'era rifugiato per paura del contagio: «È toccato alla
peste lo svegliare il mio nome che dormiva sotto i ricchi padiglioni
della vostra memoria: nè voglio già ringraziamela, perchè non merita
grazie una siffatta disgrazia; ben rendo grazie a voi che cotanto
m'avete onorato con la vostra eloquentissima ed eruditissima lettera,
alla quale come potrò mai rispondere a parte a parte, se, subito ch'io
l'ebbi ricevuta, vennero a me alcuni gentiluomini bolognesi, fra i
quali un Paride letterato la riconobbe per un'Elena e me la rubò?...
Voi mi richiedete il mio senso intorno agli spettri di Milano e alla
magica peste portata dalla fama su certi fogli curiosi, che vanno
attorno. Qui, o ragioniamo del potere, o del fatto. Se del potere,
chiara cosa è, e la teologia non ci lascia dubitare, che il Demonio può
naturalmente queste e cose maggiori, purchè Dio non gli sottragga il
potere: intendo però, s'egli eserciterà le sue forze naturali dentro
alla latitudine del moto locale, trasportando e applicando gli agenti
alle materie: perchè se noi credessimo che nei predicamenti della
qualità, della quantità o della sostanza egli potesse immediatamente
produrre sì fatti termini, noi, s'io non m'inganno, faressimo errore.
Se poi ragioniamo del fatto, certo che per le continue relazioni che
vengono da Milano, anche in quest'ultimo spaccio, io molto agevolmente
m'induco a crederlo; ma non già credo quelle favolose circostanze che
questa estate andavano attorno, le inverisimilitudini delle quali
erano troppe note a chi leggeva quei fogli: e che altre volte siano
avvenute sì fatte pestilenze, o col concorso del Demonio, o con l'arte
ignuda degli uomini, oltre le nobilissime autorità addotte da voi, io
mi rimetto ad un certo trattatello manuscritto, che va attorno, il
cui titolo è: _De peste manufacta_, nel quale sono registrate molte
altre autorità di simil fatto; ma quello che mi confonde l'ingegno si
è come si trovino uomini di barbarie tanto inumana, che cospirino coi
Diavoli alla distruzione di tutta la propria spezie. Io qui impazzirei
col pensarvi, e però vengo ad un'altra non meno curiosa maraviglia, e
chieggo a voi che cosa è egli mai questo fomite, o seminario pestifero,
che resta impresso nei panni e con fecondità così tragica fruttifica
la morte delle famiglie e dei popoli interi? È egli accidente, o
sostanza? Se accidente, o è trasportato, o prodotto; al primo modo
repugna la filosofia, la quale non ammette il passaggio degli accidenti
da un soggetto all'altro. Al secondo pare che ripugni il non potersi
intendere con quale energia possa l'appestato tradurre dalle radici o
dalle potenze dei panni agli atti una sì fatta qualità, oltre che non
sarebbe agevol cosa lo assegnare in quale spezie di qualità dovesse
riporsi. Se è sostanza, come vogliono tutti gli antichi e Greci e
Latini, o è semplice, o è composta: se semplice, o ella è area, e
perchè in breve tempo non vola alla sua sfera, liberandone i panni?
O è acquea, e perchè non bagna, o non è dall'ambiente, tante volte
accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea, e perchè non
abbrugia? O è terrea, e perchè non si vede, o col tatto non si sente?
Se è sostanza composta, torno a dire che dovrebbe, o coll'occhio, o
col tatto discernersi; e pure egli è verissimo che un panno bianco,
mondissimo agli occhi nostri, ucciderebbe una città intera».
Queste lettere, che subito furon date alle stampe, levarono un gran
rumore e più volte tornarono a veder la luce. La prima edizione ha
questo titolo: _Due lettere_ | _L'una_ | _Del Mascardi all'Achillini_
| _L'altra_ | _Dell'Achillini al Mascardi_ | sopr_a le presenti
calamità._ | _Dedicate all'Illustriss. Signora_ | _D. Maria Pepoli_ |
_Contessa di Castiglione, Sparvi,_ | _E Barragazza._ | _In Bologna,
per Francesco Casanio 1630. Con licenza de' Superiori_ | _Ad istanza
di Bartolomeo Cavalieri et Cesare Ingegneri_; in-4º picc. di pp. 24.
Furono riprodotte: _In Firenze_, _MDCXXXI_. | _Nella Stamperia di
Pietro Nesti al Sole_ | _con licenza de' superiori_; in-4º di pp.
16--_In Roma, Per Lodovico Grignani_, _MDCXXXI_. | Con Licenza de'
Superiori; in-4º di pp. 20--_e In Roma, et in Milano_ | _Ad istanza di
Gio. Batt. Bidelli_ | _MDCXXXI_; in-18º di pp. 32. Poi vennero inserite
nella raccolta delle _Rime e prose_ dell'Achillini, stampata a Venezia
nel 1656, 1673, ecc. È probabile che il Manzoni leggesse la lettera
ispiratrice in una di queste ultime edizioni; ma non si può escludere
che potesse avere avuto tra mano anche una delle altre stampe, sebbene
assai rare. Infatti consultò un numero grande di libri e di opuscoli
intorno alla peste del 1630; quanti ne potè trovare. E poi pizzicava
di bibliofilo. Sta lì a provarlo un esemplare, postillato di suo
pugno, della _Serie_ |_ de'_ | _testi di lingua_ | _usati a stampa
nel Vocabolario_ | _degli Accademici della Crusca_ | _con aggiunte_
| _di altre edizioni da accreditati scrittori molto pregiate,_ | _e
di osservazioni critico-bibliografiche,_ | _Bassano MDCCCV. Dalla
Tipografia Remondiniana_ | _con R. permissione_; in-8º; che si conserva
nella libreria di Brusuglio.
Il prof. LORENZO STOPPATO [_La Biblioteca di Don Ferrante_, Milano,
tip. Bortolotti di G. Prato, 1887; pp. 47-49] pigliò le difese di don
Ferrante, ponendogli in bocca questa risposta al Guerrini: «Caro signor
mio, Ella mi imputa di plagio? Ma non sa Ella che il distinguere fra
_sostanza_ e _accidente_ è una delle formule più consuete e precise
della filosofia aristotelica, e che l'applicazione della formula
importa uno sviluppo eguale di ragionamento, per ogni caso? Che non
varia altro che la materia alla quale viene applicata? E mi crede
così da poco da aver bisogno di copiare un ragionamento, come farebbe
uno scolaretto? E Lei mi fa un gran caso dell'aver io considerata la
peste come sostanza e come accidente? Ma non sa che gli scolastici
hanno disputato per fino se Dio fosse accidente o sostanza». Fin qui
la difesa non fa una grinza; dove zoppica è in quello che segue: «Nè
mi venga a dire che io ho copiato dall'Achillini... Dica piuttosto
che anche l'Achillini ha copiato quel ragionamento, e lo ha copiato
precisamente da Massimiliano Viani di Pallanza. Costui infatti,
nei suoi _Dialoghi su i rimedi efficacissimi per guardarsi dal mal
contagioso_, stampati a Milano, dal Rolla, l'anno 1630, a pag. 40»
[correggi pp. 44-45], «scrive:--Per compiacervi dirò quello che dice
alcuno filosofo sopra tali particolari, circa il punto che sii questo
fomite, o seminario pestifero... Se egli sii accidente, o sustanza.
Se accidente, o è trasportato, o è prodotto. Al primo modo repugna
la filosofia, la qual non ammette passaggio degli accidenti da un
soggetto all'altro... Se sustanza, o è semplice, o è composta. Se
è semplice, o ella è aerea, e perchè in breve tempo non vola alla
sua sfera? O è acquea, e perchè, o non bagna, o non è dall'ambiente,
tante volte accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea,
e perchè non abbrucia? O è terrea, e perchè, o non si vede, o col
tatto non si sente? Se è sostanza composta, dicono che dovrebbe, o con
l'occhio, o col tatto discernersi... Quanto poi alla generazione di
questo male, può seguire per alterazione o correzione d'aere, cioè per
l'aere viziato e corrotto per aspetti nemici di stelle--». Lo Stoppato
conchiude: «Eccovi, caro signor critico, che anche il vostro Achillini
è un plagiario e ha copiato _ad litteram_ dal Viani».
Ho qui dinanzi il suo libro e comincio col trascriverne il titolo:
_Remedii efficacissimi_ | _per_ | _guardarsi dal mal contaggioso,_ |
_Accioche non vadi infettando i Vicini,_ | _nè faccia progresso;_ |
_con altri avertimenti_ | _necessarii per tali bisogni._ | _Opera_
| co_mposta in forma di Dialog_o | _da_ MASSIMIGLIANO VIANI | _di
Pallanza_ | _Per beneficio pubblico._ | _In Milano,_ | _Appresso
Carlo Francesco Rolla Stampat._ | _vicino al Verzaro._ È un volumetto
in-8º di pp. 51, oltre 8 in principio e 3 in fine. L'anno manca; ma
si deduce dalla lettera dedicatoria del Viani _All'Ill.ᵐᵒ Magistrato
della Sanità dello Stato di Milano_, scritta da «Milano li 23. Giugno
1657»; nonchè dall'approvazione del Magistrato stesso, che è del 27
del medesimo mese. In questa approvazione si commenda anche il libro,
e si esortano le Comunità, «per il loro particolare beneficio, a
provvedersene d'una copia, prohibendosi a ciascun stampatore et ad ogni
altra persona il stampare, far stampare, o introdurre da di fuori di
questo Stato per anni dodici prossimi avvenire la medesima opera; et
ciò sotto pene pecuniarie et anco corporali». Ecco dunque provato che
l'Achillini non è per nulla un plagiario. Lo sarà il Manzoni? Osserva
Luigi Morandi [cfr. _La Perseveranza_ del 19 febbraio 1879]: non solo
non può parlarsi «di plagio, ma neppure d'imitazione, almeno nel
senso più ovvio che si da a questa parola»; è «una trovata storica»,
la quale prova che anche i personaggi e i fatti inventati, furono
dal Manzoni «coloriti con tinte ricavate da fatti e da personaggi
consimili e realmente storici di quel tempo». Ribadisce Orazio Bacci:
«Non si potrebbe parlar mai di un plagio, sibbene di un substrato
storico--quasi direi--che l'autore volle dare alla sua figura; e la
citazione della fonte non era necessaria, nè forse artisticamente
possibile». Notevole è poi ciò che scrive il D'Isengard: «Che il
Manzoni, volendo ritrarre nel suo romanzo la Lombardia del secolo XVII,
abbia fatto uno studio accuratissimo di quell'età, dei luoghi, dei
costumi, dei caratteri e degli avvenimenti, è cosa risaputa... Non si
contentò di studiare quel secolo nelle linee principali, ma scese ai
particolari; ben sapendo che i _fatti minimi_, come insegnò Bacone,
giovano a spiegare i _fatti massimi_. Colla virtù assimilativa dei
grandi ingegni, e coll'industriosa abilità delle api, fabbricava il suo
miele. Nel libro di Stefano Stampa si legge:--_Una volta mi mostrò nel
Ripamonti [Qui lo Stampa è tradito dalla memoria. Gli mostrò invece
il La Croce, dove a pag. 77 si riporta la predica. (Ed.)] il testo
somigliantissimo della predica del padre Felice, dicendo_:--_Vedi son
quasi le stesse parole delle quali mi son servito io_.--Della lettera
dell'Achillini avrebbe potuto dire egualmente: Vedete, per far parlare
a don Ferrante il linguaggio della pedanteria, con tutti gli errori e
le superstizioni del tempo, non m'è parso vero di trovare in quella
lettera il fatto mio. Ma come l'orpello dell'Achillini nel crogiuolo
manzoniano sia divenuto oro purissimo, questo è un segreto dell'arte».
GIUSEPPE GALLI [_Un'operetta inedita del Card. Federico Borromeo sopra
la peste in Milano ed i_ «_Promessi Sposi_»; nell'_Archivio storico
lombardo_, ann. XXX, vol XX, pp. 110-137] scoprì che il Manzoni
approfittò di un'opinione espressa dal Lampugnano a p. 13 del suo
libro: _La peste seguita a Milano l'anno 1630_, stampato nel 1634, per
metterla in bocca a don Ferrante. L'opinione del Lampugnano è questa:
«Nè finalmente mi da l'animo di concedere che la peste sia qualità
contagiosa. Perchè sarebbe accidente. Nè potendo l'accidente essere
contrario alla sostanza, non capisco come possa da subietto in subietto
passare ad operare la corruzione». Sentiamo adesso la medesima opinione
uscita dal crogiuolo manzoniano: «Riman da vedere se possa essere
accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si
comunica da un corpo all'altro; che questo è il loro achille, questo il
pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo
accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che
fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara,
più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto
all'altro».
Il Manzoni dice che nella «scienza cavalleresca» don Ferrante «meritava
e godeva il titolo di professore», e non a torto, giacchè «aveva nella
sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più
riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea,
il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di
Torquato Tasso».
_Il Forno o vero della nobiltà, dialogo del signor Torquato Tasso_,
vide la luce a Vicenza, nel 1581, per Pierin Libraro; il _Trattato
del modo di ridurre a pace l'inimicitie private_, di Fabio Albergati,
fu pubblicato a Roma, co' torchi dello Zannetti, nel 1583; i
_Discorsi cavallereschi del conte_ ANNIBALE ROMEI, _divisi in cinque
giornate_, vennero impressi a Venezia dallo Ziletti nel 1585. Di
Girolamo Muzio, giustinopolitano, si hanno ben cinque opere: _Le
Risposte cavalleresche_, Venezia, Giolito, 1551; _Il Duello_, Venezia,
Giolito, 1558; _La Faustina, dell'armi cavalleresche a' Principi e
cavalieri d'onore_, Venezia, Valgrisi, 1560; _Il Cavaliero_, Roma,
Blado, 1569; _Il Gentilhuomo, distinto in tre dialoghi_, Venezia,
Valvassori, 1575. Lo spagnuolo Girolamo d'Urrea è autore del _Dialogo
del vero onore militare, nel quale si definiscono tutte le querele
che possono occorrere fra l'uno e l'altro uomo, con notabili esempi
di antichi e moderni_, che fu tradotto in italiano da Girolamo Ulloa
e stampato a Venezia dal Sessa nel 1569. Di Fausto da Longiano si ha
_Il Gentilhuomo_, diviso in due parti, Venezia, 1542 e 1544; e Il
_Duello regolato alle leggi dell'onore, con tutti i cartelli missivi e
responsivi_, Venezia, Valgrisi, 1552; e di Paride dal Pozzo i _Libri
IX del Duello_, Venezia, 1521. Oltre questi «antichi», c'era un suo
contemporaneo, che don Ferrante riteneva «l'autore degli autori», il
«celebre Francesco Birago». E anzi il Manzoni nota che «fin da quando
venner fuori i _Discorsi cavallereschi_ di quell'insigne scrittore,
don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe
rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con
l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso
i posteri». _Li Discorsi cavallereschi del Signor_ FRANCESCO BIRAGO,
_Signore di Melone e di Siciano, ne' quali, con rifiutar la dottrina
cavalleresca del Signor Gio: Battista Olevano, s'insegna a racchettare
honorevolmente le querele nate per cagione d'honore_, ebbero una prima
edizione a Milano, dal Bidelli, nel 1622, che poi li ristampò «riveduti
et accresciuti» nel 1628. Oltre un _Trattato cinegetico, o vero della
Caccia_, Milano, Bidelli, 1628, il Birago compose tre altre opere
cavalleresche, «nobili sorelle» de' _Discorsi_, cioè: _Dichiaratione et
avvertimenti poetici, istorici, politici, cavallereschi e morali sulla_
Gerusalemme conquistata _del Tasso_, Milano, Somasco, 1616; _Consigli
cavallereschi, ne' quali si ragiona circa il modo di far le paci, con
un'Apologia cavalleresca per il Sig. Torquato Tasso_, Milano, Bidelli,
1623; e le _Decisioni cavalleresche_. Si hanno insieme raccolte col
titolo: _Opere cavalleresche del Signor_ FRANCESCO BIRAGO, _distinte
in quattro libri, cioè; Discorsi, Consigli libro I e II e Decisioni_,
Bologna, Longhi, 1686; in-4º.
Il dott. UBALDO MAZZINI [_La Cavalleria nei Promessi Sposi, nuovo
contributo alla ricerca dei fonti manzoniani_; nella _Rassegna
nazionale_, di Firenze, ann. XXI, vol. 109 della collezione, 16
settembre 1899, pp. 333-346], ritiene che il Manzoni «ha avuto per
guida un'opera soltanto d'un solo di quegli autori», i _Consigli
cavallereschi_ del Birago. «Gli altri autori e le loro opere» (così il
Mazzini) «ha trovato citati ne' _Consigli_ ad ogni capitolo, ad ogni
pagina, e parecchie volte: con questo però non voglio escludere che
egli li abbia consultati; _ma più letti che studiati_, come direbbe
egli stesso». No: il Manzoni era troppo coscienzioso, troppo diligente,
per contentarsi di bere a una sola fontana; gli ha letti tutti, gli
ha tutti studiati; c'è da giurarlo. Scorrendo i _Consigli_ (è sempre
il Mazzini che scrive) «non solo è facilissimo trovarvi il riscontro
con alcuni passi dei _Promessi Sposi_, ma ben si comprende ancora come
abbia fatto del Birago l'autore prediletto di don Ferrante, il suo
amico; come io elevi sopra tutti gli altri, e il perchè della profezia
intorno all'Olevano. Ultimo venuto nella nobile falange dei trattatisti
dell'_honore_, contemporaneo e compatriota di don Ferrante, il
Birago, per lo stile, il gusto, il modo di argomentare caratteristico
dell'età in cui visse, è ben naturale che tanto andasse a' versi di
don Ferrante... Si può pensare che lo stesso nome di don Ferrante il
Manzoni l'abbia tratto dai _Consigli_ del Birago, giacchè nel Consiglio
IV, in cui si esamina il _caso di chi pretende essergli stato venuto
meno della parola_, si tratta appunto della vertenza insorta tra certo
signor _Ferante_ Novà ed il signor Giovaniacomo Latuada».
Intorno a questa incarnazione d'un dotto del Seicento, morto,
«come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», è pure
da consultarsi: ALBERTAZZI A., _Don Ferrante_, in _Fanfulla della
Domenica_, ann. XXII, n. 6. (Ed.)
[132] Il lazzeretto. (Ed.)
[133] Il canonico GIOVANNI FINAZZI, amico del Manzoni, pubblicava a
pp. 409-485 del tom. VI della _Miscellanea, di storia italiana, edita
per cura della Regia Deputazione di storia patria_, Torino, Stamperia
Reale, 1865, la _Relazione della carestia e della peste di Bergamo
e suo territorio negli anni 1629 e 1630, scritta da_ MARC'ANTONIO
BENAGLIO, premettendovi, tra le altre, queste parole: «_Chi volesse la
storia della peste di Bergamo del 1630, la c'è_ (dice il Manzoni al
cap. XXXIII de' suoi _Promessi Sposi_), _scritta per ordine pubblico da
un tal Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque
contenga forse più roba, che tutte insieme le descrizioni più celebri
di pestilenze_. E quantunque il Ghirardelli, come pubblico cancelliere
della città e dell'offizio di sanità, fosse uno di quegli uomini, _ai
quali_ (per dirlo collo stesso Manzoni nella _Colonna infame_) _in
qualche caso può esser comandato e proibito di scrivere la storia_,
nondimeno pel carattere di onoratezza e lealtà sua propria, e pel savio
e liberale incarico raccomandatogli dal voto del maggior consiglio
della stessa città, con rara accuratezza dei più minuti dettagli (come
appunto portava la parte presa in proposito il 26 dicembre 1631 dal
maggior consiglio) descrisse le vicende e il successo di quella peste
_dai primi pronostici che se n'ebbe e dai primi principii ond'essa
pullulò e andò serpendo nel territorio, con i progressi, accrescimenti
e strage atrocissima, così nella città, come nel contado; narrando e
descrivendo non solo li ordini e provvisioni fatte dal Magistrato della
sanità per la preservazione universale, ma anco gli errori occorsi per
aversi poco esperienza di sì fatti maneggi, con filo continuato di
narrar veramente tutte le cose più notabili, con l'ordine e serie de'
tempi, sino all'intiera e totale estirpazione_. Ma di quella peste,
che fu sì fiera e desolante, oltre al Ghirardelli, altri de' nostri
lasciarono più o meno dettagliate memorie, che se fossero pubblicate
tornerebbero per avventura di non inutile commento o supplemento alla
storia di esso Ghirardelli, e potrebber recare alcune particolarità di
fatti, da far meglio conoscere quel tratto di storia patria, più famoso
che conosciuto. Ora fra gli scrittori di così fatte memorie crediamo
di dover prescegliere Marc'Antonio Benaglio, cancelliere che fu del
venerando consorzio della misericordia: che in più succoso e vivace
stile, che non facesse per avventura il Ghirardelli, ce ne lasciò una
dotta e coscienziosa _Relazione_». (Ed.)
[134] Dal capitolo IV del tomo IV tolgo il seguente brano riguardante
gli untori: «La cagione d'un così subito e portentoso aumento del
male fu data a voce di popolo agli _untori_: si disse con asseveranza
e si ripetè con furore, che quegli uomini, congiurati allo sterminio
della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta
tutta unita, per così dire, in loro balìa, avevano unti in quel
giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri
venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai
piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti.
L'opinione delle unzioni, che fino allora non aveva prodotta che una
vaga inquietudine e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran
fatto, cominciò a partorire ben altri effetti. Due principali furono
distinti e notati dal Ripamonti, uomo che, in molti punti, liberandosi
e segregandosi dalla opinione pubblica dei suoi tempi, volse la mira
delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno
avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della
questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere
che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare
il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua
storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo
stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati
in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei
segreti delle corti per arzigogolare quale dei principi, quale dei
re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a
quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste;
e spaventati poi dalla vastità supposta e dalla oscurità stessa delle
insidie, si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza,
che è compagna della disperazione. L'altro effetto più deplorabile,
atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di
giustificare, di santificare tutte le offese più crudeli, che quei
sospetti potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico,
dalla via pubblica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del
servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa.
Ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale.
Il viandante straniero che, non ben sapendo fra che uomini si trovava,
si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdraiasse
per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo
la mano, colui che inavvertitamente toccasse la parete di una casa,
l'affrettato che urtasse altri per via, erano _untori_; al terribile
grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era
oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o trascinato alle
carceri, tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore
affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E
quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore
comune di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un
simile furore.
«Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa
ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico
l'irreligione, perchè se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose
fisiche, e tutte le altre cagioni, di cui abbiamo parlato di sopra,
poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e
di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di
quel popolo corrotto, che rendettero quella opinione attiva e feroce
nell'applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi
effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che
prepara gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a
pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su
le persone, se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è
paziente, benigna, che non si irrita, che non pensa il male, che tutto
soffre. Ma l'intolleranza della sventura, la disciplina e l'oblio delle
speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime
e furioso della morte erano le cagioni che mantenevano negli animi una
irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di
fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a trovar questi
fatti ad ogni momento.
«Il Ripamonti riferisce due esempi di quel furor popolare, avvertendo
bene i suoi lettori di averli trascelti non già perchè fossero dei più
atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perchè di quei due
egli fu testimonio.
* * * * *
«I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo
furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati
al pari di quei popolari, che abbiam riferiti, con carneficine più
lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto
silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di
quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe
troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad
un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo
ora; e davvero».
Nel capitolo V del tomo IV della prima minuta il Manzoni prese a
trattare esclusivamente del processo degli untori; poi stralciò que'
fogli, per formarne un'appendice al Romanzo, svolgendo il soggetto
in modo più largo. Se ne conserva il primo sbozzo, già intitolato:
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