Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 16

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ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il Guardiano avevano per
lui più rispetto che amore. E il rispetto veniva, in parte, anche
dalla fama di santo che il Padre Cristoforo aveva al di fuori, e che
apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da stupirsi
se il Guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel
Padre Cristoforo e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui e il
sentimento della propria autorità.
--È questa l'ora, diss'egli gravemente, di ritornare al convento?
--Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo.
--E perchè vi siete dunque tanto indugiato? perchè avete violata una
regola, che conoscete così bene?
--Fui trattenuto da un'opera di misericordia.
Il Guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire, e vide tosto
che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto
rivelare al Padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde
gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si
era riconosciuto colpevole. Gli disse che preporre le opere volontarie
di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio e di amore alla
propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le
regole: che bisogna prima fare il dovere e poi attendere alle opere
di surerogazione: e altre cose di questo genere. Aggiunse poi che
egli, Padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza
fosse la regola da lui infranta e per la disciplina e per evitare ogni
scandalo; ma che per l'età sua e per esser questo il primo suo fallo
contro la regola, e perchè si teneva certo che non v'era altro che la
violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima
di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate: e così lo
congedò e si gittò sul duro suo pagliaccio, più soddisfatto però che se
si fosse posto sul letto il più delicato, poichè non è da dire quanta
consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel
riprenderli quando se ne allontanano.
Questa fu la mercede che il nostro Padre Cristoforo ebbe della sua
giornata, spesa come abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in
questo mondo. Egli recitò il suo buon _miserere_ e lo conchiuse
dicendo: Dio, fate misericordia a me e a quel poveretto che io...
toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero
Fermo, salvate Lucia e benedite il Padre Guardiano[159]. Abbiate pietà
dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli e degli infedeli,
degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti e
di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici,
dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi,
dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei
zingari, degli indemoniati, dei vivi e dei morti. Così sia. Quindi si
gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire, che ne ha
bisogno[160].


IX.
IL TENTATIVO FALLITO DEL MATRIMONIO CLANDESTINO.

_A_) PRIMA MINUTA.
Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha
detto uno scrittore privo di buon gusto, l'intervallo è un sogno di
fantasmi e di paure. Lucia era nelle angosce di questo sogno. Agnese,
la stessa Agnese, così risoluta e disposta all'operare, era sopra
pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma
al momento in cui l'azione comincia e l'animo che fino allora tollerava
i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda e tornando, è
costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo,
allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio, che
lo agitavano, succede un nuovo terrore, e un nuovo coraggio: l'impresa
si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata; si
scoprono mezzi e ostacoli non pensati; ciò che sembrava più difficile
si trova fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le
membra niegano di moversi dinanzi ad un passo che era sembrato il
più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più
sicurezza.
Quando s'intese bussare sommessamente alla porta[161], Lucia fu presa
da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa,
di esser sempre divisa da Fermo, piuttosto che eseguire la risoluzione
presa; ma quando Fermo, entrato, disse: son qui, andiamo; quando tutti
si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già
determinata, Lucia, come strascinata, prese tremando un braccio della
madre e un braccio di Fermo e s'avviò colla brigata avventurosa.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero dinanzi alla
casa del nostro Don Abbondio, il quale era ben lontano pover uomo!
dal pensare che una tanta burrasca si addensasse sul suo capo. Qui
si separarono, come erano convenuti: e la coppia innocente, per
un viottolo tortuoso, che girava attorno all'orto del curato, e
sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa,
venne a porsi presso all'angolo di essa; Fermo e Lucia, per trovarsi
nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe;
Agnese, per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni,
destro, col disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e
senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla
porta e toccarono il martello.
--Chi è? gridò una voce alla finestra, che si aperse in quel momento:
era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, dovrei saperlo: è forse
accaduta qualche disgrazia?
--Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di
parlare col signor curato.
--È ora questa da cristiani? rispose agramente Perpetua: che
discrezione? tornate domani.
--Sentite: tornerò, o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi per
pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può,
aspetterò un'altra occasione: questi so come spenderli, e verrò quando
ne abbia guadagnati degli altri.
--Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?
--Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non
mi volete, me ne vado.
--No no, aspettate un momento; torno con la risposta.
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai
promessi, e, detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento; gli è
come far cavare un dente, venne a porsi dinanzi la fronte della casa,
aspettando che Perpetua aprisse, per far vista di passare.
Perpetua venne infatti tostamente, ed aperse la porta, e disse: dove
siete?
Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e
salutò Perpetua, fermandosi un momento sui due piedi.
Buona sera, Agnese, disse Perpetua, donde a quest'ora?
--Vengo dalla filanda, rispose Agnese, e se sapeste... mi sono
indugiata appunto in grazia vostra.
--Oh perchè? riprese Perpetua: indi, rivolta ai due fratelli: entrate
disse, salite pure, che vengo anch'io.--Quegli entrarono.
--Perchè, ripigliò Agnese, una donna pettegola! non sanno le cose e
voglion parlare... credereste? si ostinava a dire che non vi siete
sposata con Beppo, perchè egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi
l'avete rifiutato...
--Certo, sono stata io; ma chi è costei?
--Questo non fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di
non saper ben bene tutta la storia, per confonder colei.
--È una bugiarderia, disse Perpetua, la più nera. Sentite come andò
la faccenda, e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la
porta, e salite pure, ch'io verrò poi. Tonio rispose di dentro che
si. Perpetua cominciò la sua storia e Agnese si avviò verso l'angolo
della casa, opposto a quello dietro cui erano in agguato i due
giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò, seguita da
Perpetua: e voltatolo, tossì per dar segno. Il segno fu inteso, e
Fermo traendo Lucia, la quale correva come un leprotto inseguito, in
punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si
trovarono nel vestibolo coi due fratelli, che gli stavano aspettando.
Chiusero sommessamente il chiavistello[162] per di dentro e salirono
insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste, per trattenere la
fante. I quattro congiurati, tutti diversamente commossi, ascesero le
scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce:
_Deo gratias_, ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio, che gli
aspettava, rispose: Avanti. Fermo e Lucia ristettero dietro la porta:
senza muoversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe
potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni,
entrato, socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio, convalescente
della febbre, e non guarito della paura, stava seduto su un vecchio
seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un
vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e
teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno
l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una
vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna, che mandava una
luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle
tenebre. Presso alla lucerna, era il breviale, e aperto dinanzi a Don
Abbondio il Quaresimale[163].
--Ah! ah! fu il saluto di Don Abbondio.
--Il signor curato dirà che siamo venuti tardi, disse Toni
inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.
--Venite tardi in tutti i modi, rispose Don Abbondio. Basta, vediamo.
--Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo,
disse Toni, cavando un gruppetto di tasca.
--Vediamo, replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le
numerò, e furono trovate irreprensibili.
--Ora, signor curato, mi darà gli orecchini e la collana, della mia
povera Tecla.
--È giusto, rispose Don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una
chiave, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori,
aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse
la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò,
chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, c'è
tutto? disse, indi lo consegnò a Toni.
--Ora, disse Toni, mi favorisca di una riga di quitanza.
--Non vi fidate? rispose bruscamente Don Abbondio. Ecco, volete darmi
anche quest'incomodo.
--Che dice mai? s'io mi fido, signor curato: ma dalla vita alla
morte...
--Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga
inchiostro nel calamajo. Perpetua! dov'è costei? Perpetua!
--Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la
lasci stare, signor curato: anche il calamajo, che farà più presto.
Così, brontolando, tirò un cassettino dal tavolo, ne tolse carta,
penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi ad alta voce la
composizione. Frattando Toni e Gervaso, com'era convenuto, si posero
dinanzi allo scrittore in modo da toglierli la veduta della porta; e
come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar
agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio,
tutto nella sua quitanza, non badava ad altro. Al fruscio dei quattro
piedi Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò
con sè e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva,
e si collocarono dietro i due fratelli. Don Abbondio, finito ch'ebbe
di scrivere, rilesse attentamente da sè, quindi fatta lettura ad
alta voce, prima di alzare gli occhi dalla carta: sarete contento?
disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni, allungando la mano per
pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi
apparvero in mezzo[164] come all'alzare d'un sipario. Don Abbondio
intravide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una
risoluzione, tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire
le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi testimoni,
questa è mia moglie. Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in
riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza fatta,
afferrata colla manca e sollevata la lucerna e tirato colla destra a sè
un tappeto, che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il
quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato
a Lucia; la poveretta con voce tremante aveva appena potuto dire: e
questo... che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto
sulla testa e sul volto, e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto
sulla bocca, perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa, come
un toro ferito: tradimento! tradimento! ajuto! ajuto! Il lucignolo
della lucerna, che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si
moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia, appoggiata a
Fermo, coperta così di quel ruvido velo, pareva una statua sbozzata
in creta, a cui un rozzo fattore dell'artefice copre la testa con un
umido panno. Cessata ogni luce, Don Abbondio lasciò la poveretta, la
quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era
del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò,
vi si chiuse e continuò a gridare: tradimento! Perpetua! accorr'uomo:
gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata!
fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei!
Nella stanza tutto era confusione. Fermo, inseguendo come poteva il
curato, aveva strascinata con sè Lucia alla porta e bussava gridando:
apra, apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo. Toni, curvo
a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e
Gervaso, spiritato, gridava e andava cercando la porta della scala per
porsi in salvo.
Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece
ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare ajuto. Batteva la
più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si
disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva
tranquillamente[165] con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il
sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era rimasto a scopare la
chiesa e a governare gli arredi dell'altare. Lorenzo! gridò il curato,
accorrete, gente in casa! ajuto. Lorenzo si sbigottì; ma con quella
rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di
dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva e di farlo senza suo
rischio. Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la
grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la
corda della più grossa campana e tirò a martello[166].
_B_) SECONDA MINUTA.
Tra il primo concetto d'una impresa terribile e l'adempimento (ha detto
un barbaro[167] che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno
pieno di fantasmi e di paure. Lucia era da molte ore nell'angosce di
questo sogno: e Agnese, la stessa Agnese, l'autrice del consiglio,
stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la
figlia. Ma al momento del destarsi, al momento in cui si vuol por
mano all'azione, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al
coraggio, che vi battagliavano, succede un altro terrore, un altro
coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una nuova apparizione:
ciò che più si apprendeva da prima sembra talvolta divenuto in un
punto agevole: talvolta s'ingrandisce l'ostacolo che appena si era
avvertito, l'immaginazione sì arretra spaventata, le membra negano il
loro uficio, e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più
sicurezza[168].
Al bussare sommesso di Fermo, Lucia fu presa da tanto terrore, che
risolvette in quel momento dì soffrire ogni cosa, di esser sempre
divisa da lui, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando
Fermo sì fu mostrato, ed ebbe detto: son qui, andiamo; quando tutti si
mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa stabilita,
irrevocabile, Lucia non ebbe spazio nè cuore d'intromettere difficoltà;
e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un
braccio del promesso sposo, e s'avviò, senza far motto, colla brigata
avventuriera.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato uscirono dalla porta
e presero la strada fuori del paese. La più dritta e corta era di
attraversarlo per divenire all'altro capo, dov'era la casa di don
Abbondio: ma scelsero la più lunga onde camminare inosservati. Per
una giravolta di stradicciuole al di fuori, giunsero in breve presso
alla meta, e quivi si divisero. I due promessi rimasero nascosti
dietro l'angolo della casa, Agnese con essi, ma dinanzi, per accorrere
in tempo ad incontrare Perpetua e ad impadronirsene: Tonio col
disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il
quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e
toccarono il martello.
--Chi è, a quest'ora? gridò una voce alla finestra, che si aperse in
quel momento: era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, ch'io sappia:
è forse accaduta qualche disgrazia?
--Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di
parlare col signor curato.
--È ora da cristiani questa? rispose agramente Perpetua: che
discrezione! tornate domani.
--Sentite: tornerò, o non tornerò: ho riscossi non so che danari, e
veniva a saldare quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque
belle berlinghe nuove: ma se non si può, pazienza: questi so come
spenderli, e tornerò quando ne abbia riscossi degli altri.
--Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?
--Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non
mi volete, me ne vado.
--No, no: aspettate un momento; torno con la risposta.
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò
dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento;
gli è come far cavare un dente, venne a porsi lungo la fronte della
casa, poco lontano dalla porta, aspettando che tornasse Perpetua, per
giungerle addosso[169].
--Carneade! chi era costui? ruminava tra sè don Abbondio, seduto sul
suo seggiolone nella stanza da letto, con un libricciuolo aperto
dinanzi, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. Carneade!
questo nome mi par bene di averlo inteso o letto; doveva essere un
uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli:
ma chi diavolo era costui? Tanto il pover uomo era lontano dal pensare
alla burrasca che gli si addensava sul capo! Bisogna sapere che don
Abbondio si dilettava di leggere qualche linea ogni giorno, e un curato
suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo
l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in
quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento,
anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere,
era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e
udito con molta ammirazione, nel duomo di Milano, due anni prima. Il
santo vi era. paragonato, per l'amore dello studio, ad Archimede; e fin
qui don Abbondio non trovava inciampo; perchè Archimede ne ha fatte di
così belle[170], ha fatto dir tanto di sè, che per saperne qualche
cosa, non fa mestieri una erudizione molto vasta. Ma dopo Archimede,
l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e quivi il lettore era
rimasto arrenato. Perpetua annunziò la visita di Tonio.
--A quest'ora? disse anch'egli don Abbondio, com'era naturale.
--Che vuoi ella? non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...
--Se non lo piglio ora, sa il cielo quando lo potrò pigliare. Fatelo
venire. Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia egli, Tonio?
--Diavolo! rispose Perpetua, e scese, aperse la porta, e disse: dove
siete?
Tonio si mostrò; e in quel momento si mostrò pure Agnese, come se
passasse di quivi, e salutò Perpetua per nome, fermandosi sui due piedi.
--Buona sera, Agnese, disse Perpetua: donde si viene a quest'ora?
--Vengo dalla filanda, e se sapeste... mi sono indugiata appunto in
grazia vostra.
--Oh perchè? domandò Perpetua: e, rivolta ai due fratelli: entrate,
disse, che vengo anch'io.
--Perchè, ripigliò Agnese, una donna di quelle che non sanno le cose, e
voglion parlare... credereste? si ostinava a dire che voi non vi siete
sposata con Beppo Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna[171], perchè
non vi hanno voluta. Io sosteneva che voi gli avete rifiutati, l'uno e
l'altro...
--Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! chi è costei?
--Ve lo dirò; ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non
saper bene tutta la storia, per confonder colei.
È una bugiarderia, disse Perpetua, la più infame! Quanto a Beppo, tutti
sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! socchiudete la porta, e
salite pure, ch'io vengo.
Tonio rispose di dentro che sì; e Perpetua proseguì la sua narrazione
appassionata. In faccia alla porta di don Abbondio si apriva tra
due casipole una stradetta, la quale non correva diritta più che la
lunghezza di quelle, e volgeva, dietro ad una di esse, nei campi.
Agnese vi s'avviò, come se volesse trarsi alquanto in disparte per
parlare più liberamente: e veggendo poi che la narratrice le veniva
dietro smemorata, voltò il canto, non senza un gran palpito, e Perpetua
dietro. Agnese allora tossì forte. Era il segno: Fermo lo intese,
fece animo a Lucia con una stretta di braccio, ed entrambi, in punta
di piedi, voltarono anch'essi il lor canto, strisciaron quatti quatti
rasente il muro, vennero alla porta, l'aprirono dilicatamente; uno e
due, cheti e chinati, furono nell'andito, dove trovarono i due fratelli
ad aspettare. Fermo abbassò pian piano il saliscendo nel monachetto: e
tutti quattro su per le scale, non facendo pur romore per due. Giunti
sul pianerottolo, i due fratelli si fecero in faccia alla porta della
stanza che era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero alla parete.
--_Deo gratias_, disse Tonio, a voce spiegata.
--Tonio, eh? Entrate, rispose la voce dì dentro. Il chiamato schiuse
le imposte appena quanto era necessario per passare egli, e il fratel
dietro. La riga di luce che uscì d'improvviso per quella apertura, e
scorse a traverso il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare
Lucia, come s'ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si
richiuse dietro le imposte: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre
con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il
battito del cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola,
ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto
a foggia di camauro, che gli faceva cornice intorno alla faccia. Due
folte ciocche che scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli,
due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e
sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, parevano cespugli nevicosi
sporgenti da un dirupo.
--Ah! ah! fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e li riponeva
nel libricciuolo.
--Dirà il signor curato che son venuto tardi: disse Tonio,
inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente Gervaso.
--Sicuro che è tardi. Sono ammalato, vedete.
--Oh! me ne spiace.
--L'avrete inteso dire: sono ammalato; e non so quando potrò lasciarmi
vedere... Ma perchè vi siete tirato dietro quel... quel figliuolo?
--Così per compagnia, signor curato.
--Basta, vediamo.
--Sono venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a
cavallo, disse Tonio, cavandosi un gruppetto di tasca.
--Vediamo, replicò don Abbondio: e le prese, si rimesse gli occhiali,
le volse, le rivolse, le noverò, le trovò irreprensibili.
--Ora, signor curato, mi darà la collana della mia povera Tecla.
--È giusto, rispose don Abbondio; e andò ad un armadio, e cacciata una
chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori,
aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona,
introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno;
lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse il cartoccino, disse: va bene? lo
ripiegò e lo consegnò a Tonio.
--Ora, disse questi, si contenti di farmi una riga di quitanza.
--Anche questa! disse don Abbondio. Le sanno tutte: ih! come è divenuto
sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?
--Che dic'ella, signor curato? s'io mi fido! ma, dalla vita alla
morte...
--Bene, bene.
Così brontolando tirò a sè un cassettino del tavolo; ne tolse carta,
penna e calamaio; e si pose a scrivere, ripetendo a viva voce le
parole a misura che gli uscivano dalla penna. Frattanto Tonio, e ad
un suo cenno Gervaso, si posero in piedi dinanzi al tavolo in modo di
togliere allo scrittore la vista della porta; e come per ozio andavano
soffregando coi piedi il pavimento, per dar segno a quei dì fuori che
entrassero, e per isconfondere nello stesso tempo il romore delle loro
pedate. Don Abbondio, attuffato nella sua scrittura, non badava ad
altro. Al fruscio dei quattro piedi, Fermo strinse la mano a Lucia per
darle coraggio, e pian piano entrarono, Lucia più morta che viva; e si
appostarono dietro i due fratelli. Frattanto don Abbondio, finito di
scrivere, rilesse attentamente, senza sollevar gli occhi dalla carta;
la piegò, dicendo: sarete contento ora? e togliendosi con una mano
gli occhiali dal naso, sporse con l'altra il foglio a Tonio, levando
la faccia. Tonio, stendendo la destra a prenderlo, si ritirò da una
parte; Gervaso, ad un cenno, dall'altra: ed ecco, come al dividersi
d'una scena, apparire nel mezzo Fermo e Lucia. Don Abbondio intravvide,
vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione:
tutto questo nel tempo che Fermo mise a proferire le parole: signor
curato, in presenza di questi testimonii, questa è mia moglie. Le sue
labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già
lasciata cadere la quitanza, afferrata colla manca e sollevata la
lucerna, ghermito con la destra il tappeto, che copriva la tavola, e
tiratolo a sè con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e
polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola, s'era avvicinato
a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta
tremante, aveva appena potuto proferire: e questo... che don Abbondio
le aveva gittato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto,
per impedirle di pronunziare intera la formola. E per tenerle meglio
quel drappo ravvolto intorno alla bocca, lasciò cadere la lucerna:
gridando intanto a testa, come un toro ferito: Perpetua, Perpetua,
tradimento, aiuto! Il lucignolo, morente sul pavimento, mandava una
luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita,
non tentava pure di svilupparsi, e stava come una statua sbozzata in
creta, sovra la quale l'artefice ha gittato un umido panno. Cessata
ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tentone
la porta d'una stanza vicina, la trovò, v'entrò, si chiuse dentro,
gridando tuttavia: Perpetua, tradimento, aiuto, fuori di questa casa,
fuori di questa casa. Nell'altra stanza tutto era confusione: Fermo,
cercando di cogliere il curato, e remigando colle mani, come se facesse
a gatta cieca, era giunto alla porta, e bussava, gridando: apra, apra,
non faccia schiammazzo. Lucia chiamava Fermo con voce fioca, e diceva
supplicando: andiamo, andiamo, per amor di Dio. Tonio, carpone, andava
scopando colle mani il pavimento, per adunghiare la sua quitanza.
Gervaso spiritato gridava, e trasaltava, cercando la porta della scala,
per uscire a salvamento.
In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciare di arrestarci un
momento a fare una riflessione. Fermo, il quale strepitava di notte in
casa altrui, che vi s'era tramesso di soppiatto, e teneva il padrone
stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore:
eppure, alla fine del fatto, egli era l'oppresso. Don Abbondio,
sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente
ai fatti suoi, parrebbe la vittima: eppure egli era in realtà
l'ingiusto. Così va sovente il mondo... Voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo.
L'assediato, veggendo che il nemico non isgomberava, aperse una
finestra che dava in sul sagrato, e si diede a gridare: aiuto! Batteva
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