Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 08

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l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine
preciso, non bastava che avessero molta paura, che fossero disposti
a sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona:
era necessario che potessero. Ora, la cosa comandata, era non solo
dolorosa per essi, ma diveniva di giorno in giorno più difficile; ma
doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata impossibile. Il popolo
stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse risolutamente e
tenesse confusamente che quel prezzo stabilito era equo, ragionevole,
sentiva però anche confusamente che esso era come in guerra con tutto
il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della
natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto
andar così sempre, nè a lungo. Approfittava quindi del momento di
baldoria, assediava continuamente i forni, come dice il Ripamonti,
si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una
ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la
fretta e col travaglio dei fornaj. Così quella cieca moltitudine
consumava improvvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la
scarsa e preziosa provvigione, la quale però doveva servirgli, per
tutto l'anno. I fornaj, costretti ad affacchinare e a scalmanarsi per
discapitare, ponevano in opera tutte le arti per far perder tempo ai
chieditori di pane, senza irritarli all'estremo, adulteravano il pane
con tutte quelle sostanze che, senza troppo lasciarsi distinguere,
ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che
la legge fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i
richiami, come Enea agli scongiuri di Didone[113]. Generalmente
parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da una
sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei
fatti, perchè finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha
fatta egli; e l'ha fatta, non per ozio, nè per ispasso, ma per un
gran bisogno che ne aveva, per uscire da un impaccio. Oltre questa
cagione generale, si può supporre, senza temerità, che quell'uomo,
benchè dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il suo ordine era
stato pazzo, non voleva revocarlo egli e perdere così tutto il favore
del popolo, anzi cangiarlo in furore; giacchè certamente il popolo
l'avrebbe creduto subornato e corrotto, se avesse tolto ciò che egli
aveva stabilito come giusto. Prevedeva egli dunque che la cosa non
sarebbe durata, ma lasciava ad altri la briga di dichiararla cessata
legalmente. Come però spesse volte bisogna rispondere qualche cosa ai
richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva
ai fornaj, a tutti quelli che per uficio erano costretti parlargli
dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano
guadagnato assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora
quella picciola perdita. I fornaj replicavano che non avevano fatto
questi guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita presente;
Antonio Ferrer ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che
sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato
a tutto[114].
Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano, è vero, di
due difetti: d'esser troppo corto e d'esser troppo lungo; di passare
troppo tardamente, e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione
primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel
tempo, il quale per sè è una gran bella cosa: ed è proprio un peccato
che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia.
In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi,
adir vero, gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno
più gravi. I fornaj avevano protestato fin da principio, che se la
legge non veniva tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno e
abbandonate le botteghe; e non lo avevano ancor fatto, perchè sono
di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo all'estremo,
e perchè speravano di dì in dì che Antonio Ferrer, gran cancelliere,
sarebbe restato capace, o qualche altro in vece sua. Alla fine i
Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che la minaccia de' fornaj
sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore, ragguagliandolo
dello stato delle cose e chiedendogli un provvedimento. Probabilmente
il signor Gonzalo Fernandez di Cordova avrà avuto molto a cuore di
trovare un mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in quel
momento, impedito egli e assorto in una faccenda più urgente, quella
di farne ammazzare molti altri, non potè occuparsi della prima e ne
diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del presidente del
Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario
e di due questori. Si riunirono essi tosto, o, come si diceva allora
spagnolescamente, si giuntarono; e dopo mille riverenze, preamboli,
sospiri, proposizioni in aria, reticenze, tergiversazioni, spinti
sempre tutti verso un solo punto da una necessità sentita da tutti,
conscj che tiravano un gran dado, ma convinti che altro non si poteva
fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane, riavvicinandolo alla
proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono nello stato
d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina non caricata da
lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo nè quando, nè quale
egli sarebbe.


XVIII.
DON FERRANTE E LA SUA FAMIGLIA.

Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava
Lucia.
Don Ferrante[115], capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia
illustre, che pur troppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la
vecchiezza, era di mediocre statura, e tendeva un pochette al pingue,
portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali,
spezzate nel mezzo, cadevano penzoloni, e d'altre non rimaneva che un
torzo. Sotto a quel cappello si stendevano due folti sopraccigli, due
occhi sempre in giro orizzontalmente, due guancie pienotte per sè,
e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano
mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una
minestra; sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di
merletti finissimi di Fiandra, lacera in qualche parte e lorda da per
tutto: una cappa di...[116], sfilacciata qua e là, gli cadeva dalle
spalle, una spada, col manico di argento mirabilmente cesellato e col
fodero spelato, gli pendeva dalla cintura; due manichini, della stessa
materia e nello stesso stato della gorgiera, uscivano dalle maniche
strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava talvolta
nell'una delle due sudicie sue mani; talvolta, perchè quell'anello
passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo;
e in quegli intervalli Don Ferrante gestiva alquanto meno del solito.
Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del
suo carattere e delle sue circostanze: Don Ferrante, portato al fasto
e alla trascuraggine, era anche ricco e povero. Già da molto tempo
aveva egli divorato a furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di
negligenza e d'imperizia, il suo patrimonio libero; e sarebbe egli
rimasto povero del tutto e per sempre, se un suo sapiente antenato
non avesse anticipatamente provveduto a quel caso, istituendo un
pingue fedecommesso. Don Ferrante quindi, benchè nell'animo non fosse
molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli,
abbatter l'albero per cogliere il frutto, e non poteva far altro
che lanciar pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato.
Viveva di prestiti: e per trovarne doveva ricorrere ai più spietati
usuraj, e subire le più rigide leggi che essi sapessero inventare
e per supplire alla legge comune, che non dava loro alcun mezzo di
ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio. E siccome nelle
idee di Don Ferrante le pompe e il fasto tenevano il primo luogo, così
alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano le
sue mani; e il necessario pativa. In mezzo a queste cure incessanti,
Don Ferrante non aveva lasciato dì coltivare il suo ingegno, e senza
essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno degli uomini colti
del suo tempo. Possedeva una libreria di varie materie, la quale per
poco non aggiungeva ai cento volumi[117]: e aveva impiegato su quelli
abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle
scienze più importanti e più in voga; teneva i principj e quindi non
era mai impacciato nelle applicazioni. L'astrologia era uno di quei
rami dell'umano sapere nei quali Don Ferrante era versato. Sapeva non
solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze
che hanno in ciascuna i diversi pianeti, ma conosceva anche in parte
la storia della scienza, la quale è ragione della scienza stessa: ne
conosceva i cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e
ci doveva nascere: giacchè essendo il cielo un gran libro, e il cielo
dell'Assiria molto sereno, è naturale che ivi si cominci a leggere
dove i libri sono più chiari e intelligibili. Sapeva a memoria un
buon numero delle più stupende e clamorose predizioni che si sono
avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli argomenti principali
che servivano a difendere la scienza contro i dubbj e le obiezioni
dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi, che ne
parlavano con poco rispetto; perchè anche a quel tempo v'era degli
uomini così fatti. Della magìa aveva pure una cognizione più che
mediocre, acquistata non già con la rea intenzione di esercitarla, ma
per ornamento dell'ingegno, e per conoscere le arti così dannose dei
maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte della guerra che
tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere
umano. Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio,
il quale nelle sue disquisizioni magiche aveva trattata la materia a
fondo, aveva sciolti tutti i dubbj e stabiliti i principj, che per
quasi due secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati
e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha
fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore
dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione pubblica, che il
metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un indizio di
stregheria. A un bisogno Don Ferrante sapeva parlare ordinatamente e
anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del
maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i
segreti dei congressi delle streghe come se vi avesse assistito. Aveva
più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una
volta quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi
singolarmente quella del tempo dei paladini, che aveva studiata nei
_Reali di Francia_. Per la politica positiva aveva egli principalmente
rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva assai bene la
politica di Spagna, di Francia, dell'Impero, dei Veneziani e di tutti
i principali Stati Cristiani, e poteva pur dare una occhiatina anche
nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato per
gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al
secondo posto nel concetto di Don Ferrante e cedere il primo a quel
gran Valeriano Castiglione, che in quello stesso anno aveva dato alla
luce la sua opera dello _Statista Regnante_, dove tutti gli arcani i
più profondi e i più reconditi precetti della ragione di Stato sono
trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna confessare che il
nostro Don Ferrante prevenne il giudizio del mondo sul merito del
Castiglione. Poco dopo, Urbano VIII lo onorò delle sue lodi; Luigi
XIII, per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia,
per esservi istoriografo; Carlo Emanuele dipoi gli affidò lo stesso
ufizio; il Cardinale Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli lo
pregarono, invano però, di scrivere storie: e fu finalmente proclamato
il primo scrittore dei suoi tempi. Quanto alla storia naturale non
aveva, a dir vero, attinto alle fonti e non teneva nella sua biblioteca
nè Aristotele, nè Plinio, nè Dioscoride, giacchè, come abbiam detto,
Don Ferrante non era un professore, ma un uomo colto semplicemente;
sapeva però le cose le più importanti e le più degne di osservazione,
e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e
delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma
una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che
la salamandra è incombustibile, che il cristallo non è altro che
ghiaccio lentamente indurato. Ma la materia nella quale Don Ferrante
era profondo assolutamente era la scienza cavalleresca, e bisognava
sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di paci, di mentite.
Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la Gerusalemme
liberata e la conquistata, i Dialoghi della nobiltà e quello della
pace di Torquato Tasso gli aveva a menadito; i Consigli e i Discorsi
cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della
sua biblioteca. Anzi Don Ferrante affermava, o faceva intendere spesso,
che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più
rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione
che meritavano, e che, per verità, ottenevano da tutti, Don Ferrante
aggiungeva misteriosamente: Basta: ho messo anch'io un zampino in quei
libri.
Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don
Ferrante che non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene:
e senza contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti
di quel tempo egli aveva pressochè tutto a memoria, non gli erano
ignoti nè il Marino, nè il Ciampoli, nè il Cesarini, nè il Testi: ma
soprattutto aveva fatto uno studio particolare[118] di quel libretto
che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale diceva
Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato,
Sorte, Destino e somiglianti, era pensiero pellegrino ed arguto. Aveva
poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello
stesso grand'uomo; e su quelle si studiava di modellare quelle che gli
occorrevano di scrivere per qualche negozio, o per isciogliere qualche
ingegnoso quesito, che gli veniva proposto; e, a dir vero, le lettere
di Don Ferrante erano ricercate con qualche avidità, e giravano di mano
in mano per la scelta e la copia dei concetti e delle immagini ardite,
e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la questione e di
guardare le cose: stavano però male di grammatica e di ortografia[119].
Vi sarebbero molte altre cose da dire chi volesse compire il ritratto
di questo personaggio, ma, per amore della brevità, ce ne passeremo,
tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia.
Veniamo dunque alla sua signora consorte.
Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era molto al di
sotto del suo marito. Il suo ingegno, a dir vero, non era niente
straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di
coltivarlo, almeno sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere
senza idee, così Donna Prassede aveva le sue, e si governava con
esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli amici. Ne aveva poche,
ma quelle poche le amava cordialmente e si fidava in esse interamente
e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche
avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa: e
pare che il carattere trascurato[120] di Don Ferrante avrebbe dovuto
servire a maraviglia a questo desiderio della consorte: ma v'era un
grande ostacolo. La più parte delle idee in questo mondo non possono
esser messe ad esecuzione senza danari; ora Don Ferrante, poco o nulla
curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto sempre presso di
sè il ministero delle finanze; e, a dir vero, gli affari ne erano tanto
complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe potuto intendervi
qualche cosa.
Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto
nuziale, e allo spirare d'ogni termine, dopo un po' di guerra, un po'
di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai
parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta.
Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza, tutta l'insistenza, tutte le arti
di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo dalla borsa di
Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a
pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di
Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che
su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone
addette specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don
Ferrante lasciava fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini
l'esecuzione dei quali non portasse una spesa, o che non fossero in
opposizione alle abitudini e alle volontà risolute di Don Ferrante. La
sua gran voglia di comandare, ristretta in questo picciol campo, vi si
esercitava con una energia singolare. Donna Prassede profondeva pareri
e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che dovevano
sentirla: e per quanto dipendeva da lei, non avrebbe lasciato deviar
nessuno d'un punto dalla via retta. Perchè, a dire il vero, questa
smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era
puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo
discerneva istantaneamente in qualunque alternativa, in qualunque
complicazione di casi le si fosse affacciata da esaminare: e quando una
volta aveva veduto e detto che quello era il bene, non era possibile
ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire, predicava ed operava
fin tanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa fosse divenuta
impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare, per convincere
tutti che avrebbe dovuto riuscire.
La signorina Ersilia, anzi Silietta, giacchè come amici di casa noi
possiamo chiamarla col diminutivo famigliare che usavano i suoi
parenti, Silietta era un personaggio non troppo facile da descriversi,
nè da definirsi. Le sue fattezze erano senza difetti e senza
espressione: i suoi due grandi occhi grigj non si movevano che quando
si moveva tutta la testa; teneva la bocca sempre semiaperta, come se
ad ogni momento sentisse una leggiera maraviglia: rideva spesso e
sorrideva di rado; parlava lentamente e placidamente, ma volentieri e a
lungo tutte le volte che alcuno dei suoi parenti non fosse presente a
darle su la voce. Intendeva a stento, e talvolta a rovescio, quel che
altri dicesse; e quando ciò le accadeva con persona che ne mostrasse
impazienza, Silietta si scusava con dire: son corta d'ingegno; cosa che
s'era intesa dire spesso da Don Ferrante e da Donna Prassede e dalle
suore che l'avevano avuta in cura. Era destinata al chiostro, per la
ragione, facile ad indovinarsi, che Don Ferrante non poteva certamente
darle una dote proporzionata al partito che sarebbe convenuto alla sua
nascita e al grado che teneva la casa. Su questa sua destinazione non
sapremmo, per verità, dire quali fossero i suoi sentimenti. Non vi
aveva avversione, inclinazione nemmeno: risguardava questa destinazione
come una cosa a cui altri aveva dovuto pensare ed aveva pensato, e che
per lei era indifferente, a un di presso come l'esserle stato posto più
tosto un nome che un altro; anzi la risguardava quasi una conseguenza
naturale del suo sesso e delle circostanze della sua famiglia; e
ripeteva sovente ciò che le era stato detto nell'infanzia da una sua
governante: se fossi nata un maschio, sarei un gran signore. Ma la cosa
era fatta, e Silietta sapeva bene che non si nasce due volte.
Sotto due padroni, così diversi di inclinazioni e di occupazioni,
(giacchè Silietta, e per l'ordine naturale delle cose, e per indole,
non si contava come padrona) la famiglia era come divisa in due
classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva nella famiglia
stessa un capo; le due persone cioè che erano più innanzi nella
confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero, il maggiordomo di
casa e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto
e composto, dotto a tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare
gli affari e a parlare senza mai proferire le parole che potevano
far sentire gl'impicci o offendere la dignità del padrone, sapeva
suggerir a proposito un invito da fare onore alla casa, trovare un
cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una rata di pagamento
stava per entrare nella cassa di Don Ferrante: e sapeva trovare
un prestatore ogni volta che la cassa era asciutta. L'antesignano
dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede, era
nominata molto variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla
padrona era chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei e dai paggi
di Donna Prassede, signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante,
quando parlavano fra di loro, non era mai menzionata altrimenti che
la signora Chitarra. Pretendevano costoro che il suo collo lungo,
la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la vita serrata
dal busto e le anche allargate le facessero somigliare alla forma di
quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata e saltellante
imitasse appunto il suono che esso dà quando è strimpellato da una mano
inesperta. Esercitava essa, sotto gli ordini immediati della padrona,
la più severa vigilanza sulle persone che dipendevano da questa, ed
era ministra di tutto il bene ch'ella poteva fare in casa e fuori.
Ma quanto alla gente di Don Ferrante, essa non poteva fare altro che
notare tutte le azioni disordinate che essi commettevano, disapprovare
con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e riferire poi il tutto
alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che gemere con lei.
Prospero, com'è naturale, era l'oggetto principale di avversione per
Donna Prassede; ma inviolabile, com'egli era, se ne burlava in cuore,
non lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi
della padrona, che rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla
signora Chitarra. Benchè questi due capi col loro predominio fossero
passabilmente incomodi ognuno alla parte della famiglia che dirigeva,
pure l'una parte e l'altra aveva sposate le passioni e le animosità
del suo capo; l'una faceva crocchio a mormorare dell'altra; quando si
trovavano in presenza, sì scambiavano visacci, e talvolta parolacce;
cercavano scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a
vicenda nella esecuzione degli ordini ricevuti. Don Ferrante però
aveva appena qualche sentore di questa guerra sorda, perchè egli non
osservava molto, e Prospero non si curava di parlargli di malinconie;
e le querele della moglie le attribuiva Don Ferrante ad inquietudine
di carattere, a giuoco di fantasia, come le domande di quattrini.
Silietta, senza prender parte attiva, secondava coi voti, e, quando le
era permesso, con le parole, il partito della signora Chitina.
Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede,
la quale certamente non intendeva di lasciare questa autorità in
ozio. Si proponeva ella, a dir vero, di farsi ben servire da Lucia
nella parte che le aveva assegnata; ma, oltre questo fine, che era
semplicemente di giustizia, Donna Prassede ne aveva un altro di carità,
disinteressata a suo modo, che le stava a cuore ancor più del primo, ed
era di far del bene a Lucia, la quale le pareva averne gran bisogno.
Perchè tutto ciò che Donna Prassede aveva udito in campagna, per la
voce pubblica, della innocenza di quella giovane, le affermazioni
magnifiche ed energiche di Agnese quando era venuta a proporle la
figlia, il volto, il contegno modesto, la condotta stessa così
irreprensibile di Lucia non bastavano a produrre un pieno convincimento
nella mente di Donna Prassede: e non poteva essa persuadersi che una
giovane contadina avesse levato tanto romore di sè, fosse passata
per tanti accidenti, senza averne cercato nessuno, senza essersi
gittata un po' all'acqua, come si dice, senza essere almeno una testa
leggiera. Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far
del bene bisogna pensar male: la sua voglia di dominare, di operare
su gli altri, che anche ai suoi occhi proprj prendeva la maschera di
carità disinteressata, era come il ciarlatano che non dice mai a chi
viene a consultarlo: voi state bene; perchè allora a che servirebbe
l'orvietano? Oltracciò, l'aver ricoverata, sottratta al pericolo
d'una infame persecuzione una povera giovane, era un'opera certamente
non senza gloria; però in questo Donna Prassede non era più che uno
stromento quasi passivo, e la parte che le era toccata non domandava
altro che un po' di buona volontà, senza efficacia di azione e senza
esercizio di senno, era più un assenso che una impresa. Ma dopo aver
ricoverata la povera giovane, emendare anche il suo cervello un po'
balzano, rimetterla sulla buona strada, questo sarebbe stato non solo
compire, ma rassettare l'opera del cardinale Federigo, il quale era,
a dir vero, un degno prelato, un uomo del Signore, dotto anche sui
libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di persone,
non ne aveva molto: questa insomma sarebbe stata gloria; e perchè Donna
Prassede potesse ottenerla, era necessario che Lucia avesse il cervello
un po' balzano, e avesse fatto almeno qualche passo su una cattiva
strada. Per averne qualche prova positiva Donna Prassede richiese qua
e là informazioni intorno a quel Fermo a cui Lucia era stata promessa,
e sulle avventure, sulla fuga del quale Donna Prassede aveva intese
in villa voci confuse, discorsi, ma tutte poco buone. Le informazioni
furono quali dovevano essere, che quel giovane era un facinoroso,
venuto a Milano per metterlo sossopra, per fare il capopopolo, ch'era
stato nelle mani dei birri, a un pelo della forca; e se ora respirava
tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere
alla giustizia e alla celerità delle sue gambe. Questa notizia confermò
il giudizio di Donna Prassede e le diede materia per le sue operazioni.
Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti
i proverbj non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere
infallibile l'applicazione che ne fa chi lo cita. Lucia aveva dunque
infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo,
ma una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna
Prassede. E il bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia
ricadesse mai nelle mani di Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma
corrispondenza; bisognava andare alla radice, al più difficile, guarire
Lucia, farle far giudizio, togliere da quel cervellino l'attacco per
colui: attacco che, a dir vero, era il solo vizio essenziale di Lucia.
Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona creatura; e chi
avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa? Donna Prassede.
La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza
esteriore sopra Lucia, era particolarmente affidata alle cure di
Ghita. Doveva essa tenerle sempre gli occhi addosso, accompagnarla
alla chiesa, spiare s'ella parlava a qualcheduno, se qualcheduno le
faceva un cenno, osservare attentamente che qualche messo nascosto non
le si accostasse. Compresa e piena dell'uficio che le era imposto,
Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati e sospettosi; e
siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi, così
la guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso dell'arme ai
guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava e che
la loro mira era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di
sospetto e di minaccia femminile, invece di stornare i tentativi,
avrebbe provocata l'insolenza, pericolo comunissimo a quei tempi,
allora accelerava il passo e lo faceva accelerare a Lucia. In chiesa
poi, se uno di quegli che si trovavano sui banchi vicini aveva guardato
attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita, continuando a mormorare
le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo deposito. Aveva
inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere scoperta,
nelle tasche di Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche
lettera. Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile, giacchè,
e qui dobbiamo apertamente confessare una cosa, che finora si è appena
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