Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 04

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d'alcuni cenni critici intorno a ciò che di meno pregevole e di meno
consonante al rimanente» vi aveva rinvenuto; manifestando nel tempo
stesso «le bellezze ancora dell'opera, benchè con minore verbosità
dei difetti». Lasciando in pace le «bellezze», diamo un saggio dei
«difetti» che la fantasia del critico nota: «Renzo ed Agnese volevano
che Lucia parlasse di che le avvenne con don Rodrigo: _Ora vi dirò
tutto, rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale_. Se l'A.
laddove dipinge Lucia vestita nel giorno nuziale me l'ha presentata,
oltre agli spilli e al rimanente, con due calze vermiglie, con due
pianelle di seta a ricami, e mi ha passato sotto silenzio il grembiale,
io fui necessitato di attingere ch'ella in quel dì non lo cingesse.
Adesso poi veggio che appunto in quel medesimo giorno, e non ancora
tramutata di panni, si terse le lagrime col grembiale. Com'è questa
faccenda?... O Lucia aveva il grembiale, o Lucia non lo aveva; una
delle due. Se lo aveva, inavvedutamente l'Autore: 1.º ha trascurato di
farlo conoscere al proprio leggitore; 2.º gli ha dato verun prezzo,
facendogli esercitare l'officio del moccichino, mentre, se a tutto
l'abito doveva aver consonanza, saria pur valuto qualche cosa. Se
all'incontro non lo aveva dapprima, o l'A. ha preso adesso un abbaglio,
o fa duopo argomentare, non che inserire negli annali, che = uno
spirito, nel giorno 8 di novembre dell'anno di nostra redenzione 1628,
ha cinto di un grembiale Lucia Mondella, mentr'essa stava per favellare
di don Rodrigo con Agnese sua madre e con Renzo Tramaglino suo
innamorato =». Eccoci ad Agnese, che, in casa del sarto, si abbocca col
Cardinal Federigo e svela le colpe di Don Abbondio. «Udire una femmina»
(nota il critico) «inveir quasi, e dinanzi al Cardinale, e contra il
proprio curato, e perchè? perchè questi, onde scansare di perir tosto,
ha prorogato il giorno delle nozze: ov'è colui che non saria preso da
escandescenza contro della donna crudele, e non cercherebbe di turargli
la bocca e di troncargli nella strozza le parole, ove la donna non
fosse una larva che lo eludesse? Ma la passione del leggitore vuole pur
trovare il suo sfogo; sicch'essa, riversandosi almeno sopra le pagine
istesse, che ha dinanzi, chi sa quante insieme a quelle ne andranno
vittima! Il mio tirare di penna è sicuramente il minor male».
Giuseppe Veladoni riconosce «che le menti di tutti gli italiani, e si
potrebbe anche dire di molta parte d'Europa, restarono sopraffatte di
meraviglia, da entusiasmo e da vero diletto» a leggere i _Promessi
Sposi_. «Una tanta opera... non poteva esser pensata e scritta che da
un profondo filosofo, da un vero conoscitore del cuore umano e da una
penna condotta dai sentimenti più vivi di religione e di patria... Per
me, credo impossibile che siavi uomo di cuore che non abbia da rimaner
commosso sino alle lagrime in più e più luoghi di questa mirabile
prosa... Essa è un libro che non perirà mai e farà sempre grande onore
all'Italia del secolo XIX. Ma che? Non ha dunque difetti? Sì, ne ha:
ma tutti compensati da una straordinaria bellezza e sodezza, così di
pensieri, come di stile, considerati anche in sè stessi. Sono, per
esempio, moltissime le parti che potrebbero essere capaci di utile
restringimento, e queste per non raffreddare di troppo il calore della
storia principale. Tale, per esempio, la lunga conversazione, di cui è
testimonio fra Cristoforo, quando trova a tavola don Rodrigo. Ma non
è forse quella conversazione medesima una pittura vera e fedele delle
follie che passavano per la mente dei grandi d'allora? Dissero alcuni
altri, che la storia di Lucia e di Renzo, cioè del matrimonio di due
villici, è cosa troppo piccola per farne il soggetto di un'opera di tre
volumi, ond'è che le parti accessorie soffocare dovevano il principale.
Ma non è forse vero, che per questo appunto che il matrimonio di due
villici è una piccolissima cosa, tanto più ne risulta quindi l'evidenza
di questa gran verità, che in quei bruttissimi tempi, mentre i grandi,
avendo paura uno dell'altro, si rispettavano a vicenda, tutta la loro
prepotenza andava poi a scaricarsi nell'oppressione dei piccoli? Volete
sapere dove io non saprei come validamente difendere il grande autore?
Egli è sull'orrenda, scandalosa e ributtante comparsa, che malgrado
l'industria usata dal religiosissimo autore nell'accennare le cose, fa
nullameno in quest'opera quell'indegnissima monaca. Ben vedo e conosco
che lo scopo morale del grand'autore, anche in questo caso, fu quello
di far vedere a quali orrendi termini riesca una vocazione forzata, e
quanto grande peccato era egli quello delle famiglie di un tempo, che
monacavano le figlie per viste economiche e mondane affatto. Ma il
danno e lo scandalo di quella pittura è troppo potente per concepire la
speranza che fra cento lettori possano li novantanove raccogliere il
frutto dell'esempio, e non rimaner invece amareggiati dal fiele. E se
anche il danno non fosse che per uno solo?»[51].
A Torino, Federico Govean così salutava la comparsa de' _Promessi
Sposi_: «Mancava all'Italia un buon romanzo», che potesse rivaleggiare
con quelli del Lesage, del Cervantes e dello Scott. «Sorse quella
benedett'anima del Manzoni, onore e lume d'Italia, e non contento di
avere tentato una forse dannosa rivoluzione nella drammatica, e di
aver migliorata la lirica moderna, volle far dono all'Italia di un
romanzo, ma di un vero romanzo; opera degna di non altro ingegno se
non di quello che dettò la _Pasqua_ e il _Cinque Maggio_». L'avv.
Modesto Paroletti notava: «Un cospicuo letterato piemontese, che già
ebbe tentato il romanzo allegorico, aveva quindi intrapreso di battere
le orme di Walter Scott, pubblicando due storiette, scintillanti di
erudizione... Nelle altre contrade d'Italia parecchi autori stavano
in procinto di calar anch'essi nell'arena romanzesca per farvi pompa
dei loro lavori, fra cui giova distinguere il _Castello di Trezzo_ e la
_Battaglia di Benevento_; e quelli in cui, fra i subalpini, un dottor
tortonese faceva pur mostra di bell'ingegno, la _Sibilla Odaleta_ cioè,
seguita dalla _Fidanzata Ligure_. Ma la fama loro doveva ecclissarsi
dal romanzo de' _Promessi Sposi_ di Alessandro Manzoni: perchè, alla
chiarezza d'un tanto nome, ottenendo quest'opera la maggiorità de'
suffragi, allettando i più schivi, piacendo ai dotti e facendosi
leggere da ogni persona, fu acclamata qual libro popolare in Italia».
Ne loda lo stile, la scelta e la condotta dell'argomento. «Fra tutte
le difficoltà non era la minore quella dello stile in cui si avesse
a dettare. Dovendo purgarlo da ogni sentore d'imitazione straniera,
perchè ai dì nostri ogni cosa si desidera nelle prette forme italiane,
e dovendo nullameno renderlo grato pei modi del dire, ognuno può
giudicare quanto malagevole fosse tal cosa; mentre, se importava di
dare il bando ai modi francesi, per contro, era necessario lo schivare
quell'andamento stucchevole che presenta all'orecchio dei più lo
stile cruscante. E questa può affermarsi essere stata vittoria grande
riportata dal Manzoni, perchè lo stile del suo romanzo è schietto
italiano, senza macchia d'affettazione; è classico senza arcaismi;
ed è purgato, non senza una qualche tinta di popolarità, che molto
aggiunge alla verità de' ragguagli. Stile insomma da poter servire di
modello a chiunque voglia scrivere romanzi italiani». Dopo averne
con ammirazione schietta e sentita rilevato le grandi bellezze, tocca
de' difetti. «È danno che questo libro, il quale da romanzesco può
pigliar nome di storico, nelle parti più importanti diventi prolisso
di soverchio e alquanto noioso. A lato delle inimitabili descrizioni
rapide, vive e ben accennate, come quelle del lago di Lecco, della
notte in cui battevano i bravi condotti dal Griso per rapire gli sposi,
ed imprendevano questi a sorprendere il parroco, e poi del muoversi del
P. Cristoforo da Pescarenico, e dello scappare Renzo di là dall'Adda,
riprova il lettore un fastidio grande per le cotanto prolungate e
sminuzzate due descrizioni della carestia e della pestilenza»[52].
Il prof. Giuseppe Chiappa, dell'Università di Pavia[53], dice che
«i così detti romanzi istorici sono una sì fatta contraffazione
dell'istoria che non possono venir lodati di giusta e sincera lode.
Quel mescere il reale all'immaginario, quel confondere il vero al
falso, e il naturale al fittizio, non può dare che una mostruosa
opera e quasi ibrida e bastarda». Soggiunge però: «ma ove la finzione
sia ben innestata sul fatto istorico, e che quella non sia che un
colore, o mezzo, per isvolgere e mostrare lo stato reale delle cose,
serbando in ogni luogo le leggi della convenienza e del verisimile,
ne potrà risultare un utilissimo lavoro. E tale è il celebre romanzo
del Manzoni». Ne tesse le lodi, ne segnala le bellezze; poi conclude:
«Nessun altro romanzo venuto dopo, ha potuto appena toccare a un terzo
della gloria durevole del romanzo di Alessandro Manzoni. Lo stile
poi si è, quanto si richiede, convenevole al soggetto. Egli è vivo,
animato, franco e pieno di forza. Solo si fa desiderare più purgata la
lingua. Ma oltrechè finge l'A. averlo ridotto da una cronaca di que'
tempi corrotti, egli non ha poi volto lo ingegno che alla chiarezza
e all'evidenza, schifando ogni artificiosità e leziosaggine. Ed in
ciò è ottimamente riescito, conciossiachè nulla siavi che in quanto
a intelligenza abbia mai dato luogo a lagnanza. Ed in ciò egli ha
conseguito il principale scopo di ogni scrittura, quello di rendersi
intelligibile e chiarissimo a tutti»[54].
Due de' nostri esuli, Giovita Scalvini e Pietro Giannone, presero a
esaminare il romanzo del Manzoni. Giuseppe Pecchio scriveva da Brighton
il 10 gennaio del '30 a Antonio Panizzi: «La _Rivista italiana_ si
stampa. [_Pellegrino_] Rossi ha scritto l'Introduzione, Scalvini un
bellissimo articolo sui _Promessi Sposi_, [_Giovanni_] Arrivabene uno
su gli Istituti de' poveri de' Paesi Bassi. Si spera di avere dei
collaboratori tedeschi di primo grido. Si avranno traduzioni dallo
svedese. Quindi mi si scrive che passò stagione di osservazioni, e
giunta è quella di dar spalla all'impresa. È vero, e bisognerebbe
sostenerla con decoro almeno per un anno»[55]. La _Rivista_ ebbe vita,
ma per due mesi soltanto, e vi fece la sua comparsa l'articolo dello
Scalvini[56]; addirittura «bellissimo», anzi quanto di meglio venne
allora pensato e scritto intorno a' _Promessi Sposi_. E fu giustizia il
toglierlo dalla dimenticanza colpevole in cui giaceva, il ristamparlo
e il divulgarlo[57] a onore della critica e del nome italiano.
Il Giannone nel giornale _L'Esule_, che incominciò a stamparsi a Parigi
nel settembre del '32 con a lato la traduzione in francese; e lo
dirigevano Giuseppe Cannonieri, Angelo Frignani e Federigo Pescantini;
non si limitò a parlare del romanzo, trattò anche del _Carmagnola_
e dell'_Adelchi_, de' _Carmi_ e degl'_Inni sacri_[58]. Del romanzo
ne dette un largo sunto, poi pigliò a farne l'esame. «Un lettore
difficile» (son sue parole) «esigerebbe forse un piano più magnifico,
e condizione e caratteri meno comuni ne' due, che dan pure il titolo
all'opera. Le avventure de' promessi sposi son esse le principali, a
cui s'aggiungono come episodi il cappuccino Cristoforo, la monaca, il
moto de' Milanesi, l'innominato, il cardinale, la fame, il passaggio
d'un esercito, la peste e in generale la condizion di que' tempi, o
_viceversa_? Renzo che è? Un filatore di seta, onestissimo giovine per
altro, e, come dice egli stesso, un _buon figliuolo_, ma nè distinto
per altezza di sensi, nè per vigor di carattere, nè per altro che dia
lustro e importanza. Interessa, non per sè, ma per la persecuzione di
Don Rodrigo. Ne' moti di Milano soltanto acquista qualche valor che
gli è proprio, e nella costanza del suo amor per Lucia. Questa poi è
anche minore di lui, e se non si trovasse nel castello dell'innominato,
ov'è bella veramente e per dolore ineffabile e per isventura, la sua
rassegnazione abituale ci parrebbe mancanza d'ogni umana affezione. Il
medio evo offriva avvenimenti più splendidi e caratteri d'un'energia
che spaventa, per così dire. Che importa che nell'avvilimento in cui
sono gl'Italiani, sappiano che altre volte sono stati così, per trovare
un esempio e una scusa forse alla loro ignavia presente? Nel vedersi
presentare un quadro d'oppressione attiva da una parte e di passiva
stupidezza dall'altra, si consoleranno forse perchè que' tristi tempi
passarono, e soffriranno quindi pazientemente i mali che rimangono
loro, perchè in cumulo minore? Ma che han mai guadagnato? I pessimi de'
mali che gravan sempre sovr'essi, terribili, insistenti, mortali: la
divisione e 'l dominio straniero. Ecco ciò che un lettore severo, un
lettore che riferisca ogn'opera alla gloria e all'utilità della patria,
le uniche non usurarie e generose davvero, potrebbe osservare riguardo
alla scelta del soggetto; ma questa scelta non era nell'arbitrio
dell'A. per la difficoltà de' tempi e de' luoghi, e gli è costato, ne
portiam ferma opinione, mille volte più sforzo d'ingegno, il cercarlo e
il combinarlo così, che se avesse fatto altrimenti. Discutiamo dunque
sul piano com'è, senza cercare più oltre. Il sig. Manzoni volendo, e
noi ne siamo convinti non solo, ma certi, anzi tratto ci proverebbe,
non che così dovess'essere, ma che poteva essere solamente così.
«Questo fatto, sì breve, semplice e chiaro, ha però tali episodi e
schiarimenti così allungati, che distraggon l'attenzione da esso.
Quanto a questi ultimi, l'insistere che si fa, e nel bel principio
dell'opera, su la inutilità de' decreti contro i _bravi_, basterà,
crediamo, a provare, che le digressioni non son sempre nè felici, nè
brevi. Quanto a' primi, quello della monaca di Monza fa accorgere che
dovria finire molto più presto. Gli altri, la fame cioè, e il guasto
prodotto dal passaggio degl'imperiali, e la descrizione della peste,
nel tempo stesso che mostran la forza d'ingegno e di pennello di chi
ha saputo dipingerli con sì terribile evidenza, potrebbero spingere su
le labbra a più d'uno la breve, ma calzante sentenza: _non erat hic
locus_. Le pagine che riguardano il cardinal Federigo sono protratte in
modo da farci credere che l'autore temesse che quel prelato non fosse
conosciuto abbastanza, e ne faccia perciò il panegirico; e quelle poi
ove si parla del carattere e degli studi di don Ferrante, sembrano,
e quasi per confessione dello stesso scrittore, veramente perdute.
Ma vi sono due altri episodi, due, l'uno per la brevità, l'altro pel
legame immediato alla narrazion principale, entrambi per verità di
colori e per interesse fortissimo, la cui bellezza è rara veramente
e mirabile; gli eventi del P. Cristoforo quand'era al secolo, e
l'apparizione sulla scena dell'innominato. Peccato che il primo, a
cui ci eravamo tanto affezionati, scompaia quasi al cominciare, e non
ritorni che al finir dell'azione; e l'altro, il di cui carattere è
gigantesco senz'essere esagerato, non produca qualche cosa di veramente
straordinario e solenne come l'indole sua! Nella storia ciò accade
sovente; ma nel romanzo, e sia pure storico quanto vuolsi, lo scrittore
non ha il privilegio d'intendere con ogni sforzo all'effetto dell'arte?
«Da questo rapido cenno delle cose che ci sembrano mende
nell'esecuzione del piano tale qual'è, può indursi che lo stile
sia generalmente diffuso; e difatti a noi pare così. In quanto a
lingua, l'A. ha, più spesso che non si vorrebbe, fatt'uso di parole,
d'idiotismi e di maniere proprie del luogo ove l'avvenimento si compie.
Omero formava la sua lingua maravigliosa da' differenti dialetti di
Grecia, Dante da quelli d'Italia, ma questi due esseri straordinari
erano i primi. Gli altri grandi venuti dopo di loro, non l'hanno più
fatto, e la ragione n'è chiara; non ne avevan bisogno, nè credevano
o bello o necessario tentare ciò che i tempi non concedevano più.
Potrebbe aggiungersi anche, e senza tema d'errare, che la continua
tendenza ad essere facile, e stretto il più che si può alla natura
delle cose, abbia fatto trapassare d'un salto l'A. su certi modi, che
appartengono alla lingua parlata sì, ma non sempre alla grammaticale.
«Rispetto allo scopo morale di questo lavoro, a noi sembra che
sia e la purità del costume e la sommissione ai decreti della
Provvidenza suprema; due grandi insegnamenti ambedue, il primo
d'una utilità generale e che balza agli occhi d'ognuno, perchè
limpido come la luce del sole; il secondo d'un immenso conforto
nelle sventure, allorchè sono consumate e irreparabili, ma che può
avere un'influenza rovinosa e veramente fatale nell'atto in che le
sventure ti sovrastano o percuotono, essendo allora, com'è difatti,
soggetto a tante interpretazioni ed applicazioni quanti sono i
caratteri degli uomini, i loro interessi, le passioni, le circostanze
di famiglia, di patria, di religione, etc. etc. Perchè, quale sulla
terra può dirti sicuramente:--Questa sventura ti viene dal cielo, e
convien rassegnarviti; questa no, e puoi e devi lottare contro di
essa?--È forse che la lunga tolleranza de' popoli, riguardo agli atti
crudelissimi e nefandi della prepotenza feudale e dell'inquisizione,
deriva tanto da questo elemento astutamente impiegato, quanto dal
timore che si ha d'una potenza stabilita, sia pure qualunque, e dalla
naturale tendenza degl'individui alla calma, ove il moto offra un
evidente pericolo. Gli ambiziosi vestano poi il manto dell'umiltà
o quel degli onori, l'hanno, e spesso pur troppo! usato a lor fini
privati: in altre parole, l'altare ed il trono, o meglio ancora, il
potere spirituale ed il temporale, i quali per quanto altro possa
parere a' poco veggenti, si collegano in essenza fra loro, e sono per
ogni società costituita quello che l'anima e il corpo sono per l'uomo,
hanno fatto di esso ciò che un avaro fa d'una mina d'oro o d'argento.
In fine è tal arma che, secondo la man che la tratta, può essere spada
e scudo a vicenda, può salvare un popolo dall'infamia del servaggio,
e farvelo piegare vilmente. Ma ne' _Promessi Sposi_ quest'elemento è
esso presentato nella sua parte buona o cattiva? Noi oseremmo dare un
tal giudizio, quando, non per induzione soltanto, ma per esperienza
potessimo veramente sapere qual'è l'impressione che lascia nel comun
de' lettori. Certo è intanto che nelle circostanze e ne' tempi che
corrono, la virtù della rassegnazione non è quella che occorre alla
nostra povera patria: la sua sventura può essere combattuta e vinta
da una volontà forte e tenace, temprata dalla prudenza. Che se mai,
oltre lo scopo che abbiam creduto dovere accennare, si dicesse che
v'è quello anche di far conoscere i tempi e promovere il debito
abborrimento contro i privilegiati, un giudice severo risponderebbe
nel primo caso, che un tale ufficio tocca alla storia; e nel secondo,
che è prodezza intempestiva l'aprire ferite in un corpo già da tanto
tempo cadavere. La feudalità, questo mostro immanissimo, non somiglia
all'idra della favola: le sue teste cadute nè si riprodusser finora, nè
si riprodurranno mai più.
«Presentato ed accennato così il linguaggio della censura, ci si
permetta ora passare alla seconda parte della critica, non meno utile
e più piacevole a un tempo; nè faccia maraviglia il vedere lodato
ciò che ci è parso finora dar luogo a qualche rigida osservazione;
non v'ha cosa, che non possa offrire due aspetti. E primamente nella
scelta di due protagonisti volgari, il sig. Manzoni ha mostrato avere
un concetto, più sensato non solo, ma più generoso ed umano della
generalità de' romanzieri presenti. Perchè mostrare di credere che
qualche classe della società solamente meriti la menzione e gli onori
dell'eloquenza, ed il resto, che pure è base di tutto e fa vivere
queste classi medesime, debba essere condannato all'oblio? Strana
contradizione questa con lo spirito del secolo e col vantare che fanno
i più celebrati scrittori la dignità dell'umana natura, la quale col
fatto paiono restringere poi a sola qualche frazione di uomini! Ne'
_Promessi Sposi_ le debolezze, gli errori, i vizi e i delitti de'
potenti si presentano tai quai sono, e non con quell'aria d'amabile
storditaggine, d'interesse e di grandezza quasi, di cui li adornano e
li accarezzan sì spesso gli altri scrittori di simil genere; i quali,
magnificando i tempi feudali, non sembrano neppur dubitare che posson
mettere così in forse il loro titolo di promotori, sostenitori o
fautori almeno de' dritti imperscrutibili che la natura ci accorda.
Ma tranne il romanziere Britannico, che l'ha fatto con cognizione
di causa, e con animo, per quanto esser mai possa, deliberato, gli
altri, illusi non sappiamo da quale malia, hanno seguito la corrente,
senza pensare ad altro scopo che alla novità; ma speriamo che siano
per avvedersene in tempo. Il nostr'A. non è caduto in tal fallo; e per
certo, leggendo quest'opera, nessuno risentirà mai la più picciola
brama d'essere distinto da' suoi fratelli per qualche privilegio
mostruoso, ereditato od usurpato sovr'essi.
«Intanto la ricchezza, la varietà, l'evidenza delle descrizioni, sono
pregi che distinguono quest'opera dal principio alla fine. Gli episodi,
quelli stessi che sono meno giustificabili, offrono tale abbondanza di
cose, di pensieri, d'interesse, e tanta conoscenza del cuore umano, che
appunto per questo distraggono dall'azion principale. Commove e desta
un'ansia crescente il vedere con quali malizie fittissime la religiosa
di Monza sia tratta a compiere l'intiero sacrifizio di sè, e non si può
a meno, nel condannar le sue colpe, di sentirne un'affannosa pietà.
L'ammutinamento de' Milanesi è descritto sì vivamente, le particolarità
ne sono sì vere, che vedi agitartisi tutta quella calca su gli occhi,
ne distingui i volti, ne ascolti la voce. L'ebbrietà perfino del povero
Renzo non ti percuote meno dell'astuzia per la quale il bargello
riesce a carpirgli il nome di bocca. Ma ciò che supera ogni lode è
Lucia nel castello dell'Innominato. L'immagine d'un essere debole
ed innocuo di fronte ad un altro sì formidabile e spietato, e la
vittoria del primo, racchiudono in sè un profondissimo senso di morale,
che fa palpitare d'un impeto di speranza e d'ardire, ed eleva ogni
anima ben nata. I pensieri di quell'uomo feroce, que' pensieri che lo
traggono a disperare, e l'altro che gli arresta la mano; tutta quella
notte infine offrono un tal che di sì terribilmente vero, misterioso
e solenne, che a noi sembra poco il dire che negli altri lavori di
simil genere non v'ha brano che possa paragonarsi a questo. Nè si
creda che dopo un tal quadro la fantasia e il cuor del poeta mostrino
esaurimento o stanchezza. La descrizione della fame, e più ancora
quella della peste, fanno veracemente rabbrividire. In quest'ultima il
sogno di don Rodrigo nella notte stessa che n'è colpito, basterebbe
esso solo a far conoscere quanto l'A. senta avanti nell'arte somma
che segue sì dappresso la natura senza scoprirsi; e la madre che reca
la sua bambinella morta a' _monatti_, è tal misto di desolazioni, di
pietà, di amore, di dolor rassegnato, che, breve e toccato di volo,
com'è, ti si scolpisce indelebilmente in pensiero. Questi due brani
stanno, a parer nostro, con vantaggio in faccia a tutto lo splendore,
l'abbondanza e la verità di quella vivace e straordinaria pittura. I
caratteri sono disegnati a tratti sì giusti ed arditi e sostenuti con
sì gran maestria, che non si smentono mai; e quello di don Abbondio in
particolare è nel suo genere d'una verità che dispera. Quel colore
locale che non t'induce mai in errore, quell'esattezza di fatti che non
si trova mai
_Dans les romans où l'on apprend l'histoire,_
come ha cantato scherzando un savio francese[59], sono qualità che,
unite ad uno stile pieno di vita, e vario sempre secondo gli accidenti,
e ad una lingua facile, ricca, armoniosa, assicurerebbero la fama di
questo libro, quand'anche non vantasse altri meriti, e, come speriamo
aver dimostrato, di gran lunga maggiori.
«Quantunque questo genere, per quanto ci pare, non debba porre gran
radici in Italia, perchè nell'ampissimo campo delle lettere, offre gli
stessi caratteri degl'Ibridi fra le piante, pure trattato da chi, oltre
la forza d'ingegno, si figga un alto, un utile proposito in mente, può
produrre nobilissimi effetti».

IV.
De' tanti giudizi dati da' giornali d'allora intorno a' _Promessi
Sposi_, due levarono un gran rumore: quello della _Biblioteca italiana_
e quello dell'_Antologia_: ma l'eco di quest'ultimo, scritto da Niccolò
Tommaseo[60], si dileguò ben presto; non così l'eco dell'altro, uscito
dalla penna di Paride Zaiotti[61], in voce di critico ingegnoso e
acuto tra' partigiani della vecchia scuola. Fin dal '24, appunto nella
_Biblioteca italiana_, aveva scritto un lunghissimo articolo intorno
all'_Adelchi_, diviso in due parti[62]; ma la Censura austriaca (è
proprio il caso di ripetere: _Tu quoque, Brute!_) ne corresse e mutilò
alcuni brani, con grave dispiacere del critico, che li mandò a leggere
manoscritti al Manzoni; il quale, vinto dal tratto cortese, fu forzato
a rispondergli e a ringraziarlo[63].
L'incarico di scrivere la rassegna de' _Promessi Sposi_ l'accettò
contro voglia: era un libro che non gli andava a sangue; lo riteneva
«sotto alcuni rapporti» inferiore alla _Sibilla_ del Varese che, a
suo giudizio, «era un romanzo, cosa che non osava dire degli _Sposi
promessi_». La scrisse finalmente, dopo essersela fatta aspettare un
gran pezzo; per concludere: «bello è questo romanzo, ma il Manzoni
potea fare anche di più». E si accordò con lui il Tommaseo ripetendo:
«dall'ingegno e dall'animo di Manzoni si deve pretender di più»[64].
Erano due delle tante «persone di gusto», che «lo trovavano molto
inferiore all'aspettazione».
Un bibliofilo romagnolo, Giacomo Manzoni di Lugo, il futuro ministro
della Repubblica Romana, inviando al P. Alessandro Checcucci l'articolo
dello Zaiotti: _Del romanzo in generale e dei Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni discorsi due_, l'accompagnava con questa lettera:
«Vi mando il libro dello Zaiotti, di cui vi parlai. E certamente
questo vi sarà dono gratissimo, chè due prose di questo genere, così
ben condotte, e scritte con pari facondia e modestia forse non le ha
l'Italia nostra. Fra le lodi le più smodate che da ogni parte son
piovute e piovono sopra il romanzo del Manzoni, fra il grido che lo
proclama capo-scuola del Romanzo storico e principe dei romanzieri
italiani, levarsi in piedi e pubblicare una censura di 101 pagine,
giusta dalla prima all'ultima parola, sempre dignitosa senza iattanza,
sempre riverente senza viltà, scriverla con istile che ogni letterato
vorrebbe invidiargli, piano, armonioso e variatissimo, e divulgarla,
e trovar plauso in Milano, sotto gli occhi del Manzoni, nel teatro
delle maggiori sue glorie, è impresa ardua davvero». Il P. Checcucci
si affrettò a fare una nuova edizione di «questi due maravigliosi
discorsi, sì perchè chi non l'ebbe ancora alle mani potesse ammirarvi
la vasta dottrina, la stupenda eloquenza, la profonda erudizione ed
il retto giudizio di quell'esimio scrittore; sì perchè i giovani
specialmente, usi a muoversi più per affetto che per ragione, nel
giudicare delle opere, sebbene d'uomini grandi e giustamente reputati,
prendano piuttosto norma dalle regole invariabili dell'arte, che dal
prestigio dell'opinione, alcune volte sospetta e ben sovente non
buona». Il Checcucci battezzò «quinta» la sua edizione[65], ignorando
che l'autore stesso già ne aveva fatta una «sesta» a Venezia[66]; nella
quale, per bocca del tipografo, manifesta l'intendimento suo: quello
di «preservare il cuore e l'ingegno» degli italiani «dalle dannose
influenze che recar potevano i grandi esempi di Gualtiero Scott e di
Alessandro Manzoni».
Lo Zaiotti, a cui non manca nè erudizione, nè urbanità, nè qualche
acuta osservazione particolare, in fondo ammirava il Manzoni, ma come
poeta e poeta lirico soprattutto. Fedele alla scuola de' classici,
che proscrive in letteratura quanto non ha faccia d'antico, parlò del
Manzoni tragico col preconcetto che fosse fuori di strada: «perchè
vorrà egli ostinarsi ad esser meno di Sofocle, quando l'Italia
gli offre la corona di Pindaro?» Parlò del Manzoni romanziere col
convincimento che il romanzo storico sia da rigettarsi; e appunto
perchè un grande ingegno si era dato a coltivarlo, gli parve una
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