Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 11

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morsque vigebit ubique_. Che se i dotti le avessero trovate prima, non
sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il
fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare
e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra
predizione egualmente chiara; così non fosse!
Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se
stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò, la sua
voce prese un tuono lugubre e solenne, e articolò la formola terribile:
_mortales parat morbos_; _miranda videntur_.
--O poveretti noi! disse una signora, e, rivolta al suo vicino, chiese
che cosa volesse dire quel latino.
--Le prime parole, rispose egli, voglion dire che il morbo appare
mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente[129].
Don Ferrante continuò: Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove
sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare e
resistere all'evidenza e credono di spaventarci con un grande apparato
di dottrina, come se, alla fine, avessero a fare soltanto con gente che
non abbia mai toccato il _limen_ della filosofia. Non basta parlare, a
proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni
violacei, di furoncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte
parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...
--Eppure, disse il Signor Lucio risolutamente, perchè gli pareva di
avere alle mani una buona ragione, eppure anche quei medici non negano
che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...
--E qui li voglio, interruppe Don Ferrante; qui dà in fuora lo
sproposito. Confessano questi signori, perchè a negare un tal fatto
ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato
dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica
da un uomo all'altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le
influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come
tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze e
dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e
schiferete il male: come se le influenze, discese dai corpi celesti in
questo mondo sublunare, potessero schifarsi; come se quando le stelle
inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe
precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale
dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei
corpi celesti. Per me credo che anche questo accecamento dei medici,
e appunto dei medici, che hanno la mestola in mano, sia un effetto
di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato,
acciocchè, per giunta di tanti mali, ci tocchi anche il flagello dei
regolamenti.
Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era
contagioso; sapevano che era comparsa quella cometa; avevano inteso
dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto, ma da tutte
queste idee non avevano mai pensato a cavar quel sugo che Don Ferrante
espresse nella sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi
più atterriti di prima e nello stesso tempo più irritati contra i
regolamenti e più disposti a trascurare come inutili tutte le cautele.
Lo stesso contraddittore Signor Lucio partì da quella disputa più
pensoso, perchè le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli
riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.
Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute
generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute e predicate,
con che fiducia applicate ai casi e alle deliberazioni della vita, si
prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione
mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi;
non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto
trovarsi in quella età con le idee presenti sarebbe stato in molte cose
l'uomo il più illuminato e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le
contraddizioni[130].
Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se
anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar
molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare
impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura
fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perchè no? Guardandoci
indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi
unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee
ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate
alla giornata a provarne altre, dominanti insomma per una, due, più
generazioni, talvolta senza proteste, senza richiami. Talvolta però ne
troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente
male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero
ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie
che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro
verso. Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di
passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più
diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani
e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi
e con istravaganze volgari. Dal che si vede quanto fosse prepotente
l'autorità di quelle idee; giacchè non ardivano impugnarle che gli
uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire,
della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano
la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo
poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee, si trova
generalmente che dopo quei primi assalti staccati, comparve qualche
scrittore pensante e metodico a combatterle in regola. Allora un
trambusto da non dire: quelle idee, disturbate seriamente nel loro
antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza è con
ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti,
così inconcusse, come in quel momento: ma noi posteri, che vediamo la
cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come
quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo; gli
abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio
terribile; pare che vadano ad una conquista, o che celebrino una
vittoria; ma guardate al nido, è vedrete ch'egli arde; v'accorgete che
tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi
ad alloggiare.
È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino:
in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il
sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con
somma fidanza e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano
malconci e renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono
talvolta molto arguti; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa
della scoperta era un pregiudizio contra di essi; poichè sarebbe cosa
troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso
in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali
che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di conformità che
hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a
scovare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee,
per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle
non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe
non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a
provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che
era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o
l'avevano rifiutata avvertitamente.
Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno
così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi e della
caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze raccolte insieme
e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente
avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo
il negare la tal cosa, che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe
fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro, l'affermare la tal altra,
che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio, vi avrebbe fatto andar
prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere
ogni credito; in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale
grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi
per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora
era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe un
tale errore proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia,
combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi
dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro, annunziato con
pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, creciuto e morto
in un paese: tale, recato da di fuori e ricevuto con gratitudine; tale,
sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti,
ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo
di dottrine; tale, scovato in un libro vecchio; tale, immaginato da
un corpo, da un uomo autorevole; tale, messo fuori da un uomo senza
credito e senza merito, aver fatto grande fortuna, perchè conforme ad
altre idee storte già dominanti e ad una generale disposizione degli
ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista,
che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe
tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico
dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal
popolo e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni
diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodochè su quel punto
i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali
hanno più di ammirazione.
Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno
scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute,
si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni
a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse,
nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti
loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri
scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si
potrebbe osservare se fra le idee, dominanti al nostro tempo, ve
n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne
un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più
libero e più fermo, e con un certo sospetto, per vedere se mai non
fossero di quelle che una età impone a sè stessa come un giogo, che
le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacchè è cosa troppo
probabile che anche noi ne abbiamo di tali, e sarebbe pretensione
troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura, comune a tutti i
nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali
si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è
tanto manifestamente, che, senza studio, alla prima occhiata si può
scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si
ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un errore
della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione
a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto
all'autorità dei morti e al consenso dei vivi per chiamar tante voci
in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso.
Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza: quante dottrine non
predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo? Se v'ha chi lo nega,
è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare
egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno
venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente
provato che... Eh ma! signori, voi mi fate già la cera brusca!
Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il
manoscritto del mio autore e torno alla storia[131].


XXI.
LA PESTE A BERGAMO--RITORNO DI FERMO AL PAESE NATIVO--SUO INCONTRO CON
DON ABBONDIO E CON AGNESE.

Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero[132] ci conviene
andare in cerca d'un personaggio separato da lui per condizione, per
abitudini e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai
stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno
della carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo
buon parente; alla fine, per non essergli troppo a carico, intaccò i
cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non
fosse più quella per lui. Il passaggio della soldatesca interruppe
quelle scarse e imbrogliate comunicazioni di pensieri e di notizie
che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca venne la peste,
ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero il
commercio col territorio milanese finitimo, mandarono commissarj ad
invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come era
accaduto nel Milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra,
più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco
non credevano nè pur essi molto alla peste e trattavano di soppiatto
coi loro vicini; e, con molta fatica e con molto pericolo, ottennero
di potere avere anch'essi la peste in casa. Entrata che fu, invase
poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città[133].
La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i
suoi accidenti, presenta molti tratti di somiglianza notabile con
quelli del Milanese. Come in questo paese, così nel bergamasco, dopo
scoverta la peste, si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per
evidenti segni astrologici e per inauditi portenti; v'ebbe pure la
incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni;
v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini e il
rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il
male fosse cessato. Quivi pure una processione, contrastata con ragioni
savie e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella
città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del
prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure
licenza e avanie degli infermieri e becchini, che ivi erano chiamati
_nettezzini_, come in Milano _monatti_; quivi pure preservativi e
rimedi strani o superstiziosi. Quivi pure, come in Milano, subitanei
spaventi per voci sparse di sorprese nemiche, sognate dalla paura, o
inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure
all'udire che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con
unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve
di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte e le pile delle
chiese[134]. Ma la cosa non andò oltre; e come in questo particolare,
così nel resto, gli accidenti tristi, che abbiam toccati, furono in
Bergamo men gravi, meno portentosi; l'incrudeltà fu meno ostinata, men
clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la
violenza meno bestiale e meno impunita. Di questa differenza v'era
molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone e
quale nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del
nostro argomento. Quello che ora importa di sapere si è che Fermo
contrasse la peste, e la superò felicemente. Tornato alla vita, dopo
d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì
egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure
e i desiderj della vita, cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche
affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto
tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della
salute, della vita di lei, in quel tempo dove il vivere e l'esser sano
era una come eccezione alla regola. Tutte queste passioni crescevano
nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e
quando queste furono ben riconfortate, egli, con la risolutezza d'un
giovane convalescente, disse in sè stesso: andrò e vedrò io come stanno
le cose. Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello
che si passava in Bergamo egli vedeva che la peste assorbiva o affogava
tutte le sollecitudini, ch'ella era come un obblivione, o un giubileo
generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben
poca forza e poca voglia d'agire centra i delitti della giornata, e
tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva, per la voce pubblica,
che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era
ancor più grande. Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome,
di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo
paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano. Con questo disegno,
egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente
era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese
pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e
un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire
di luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al
lazzeretto.
. Il Manzoni ne possedette una copia fatta dall'ab. Bentivoglio, che
gli fu procurata dal suo amico Gaetano Cattaneo. Sulla peste conobbe
anche il _Ms.º Vezzoli_. _Preservatione_ | _dalla peste_ | _scritta dal
sig. Protomedico_ | LODOVICO | SETTALA | _con privilegio_. | In Milano
| Per Giovan Battista Bidelli. | M. DC. XXX; in-8º di pp. 60.
_Cura_ | _locale_ | _de' tumori_ | _pestilentiali,_ | _che sono il
Bubone, l'Antrace, o Car-_ | _boncolo_, _& i Furoncoli._ | _Contenente
tutto quello, che si ha da fare_ | _esteriormente nella cura di questi
mali._ | _Tolta dal Libro della cura della Peste_ | _del Signor
Protofisico_ LODOVICO | SETTALA. | In Milano, | Per Giovan Battista
Bidelli. 1629; in-8º di pp. 32.
_La peste del_ | MDCXXX | _Tragedia nouamente_ | _composta_ | _dal
padre_ | _Fra_ BENEDETTO CINQVANTA | _Teologo, e Predicatore_ |
_generale_ | _De Minori Osservanti_ | _Fra li Accademici Pacifici_
| _detto il Seluaggio_; in-24º di pp. 239, senza anno e note
tipografiche. [Il permesso della stampa, dato in Milano da fra Leone
Rossi, Ministro provinciale, è del «10 genaro 1632»; la lettera
dedicatoria del Cinquanta a «Gio. Battista Calvanzano, Mercante Pio e
diuoto», è data dal Convento di Santa Maria della Pace in Milano il
«6 genaro 1632». Parecchi versi di questa tragedia furon dal Manzoni
trascritti ne' suoi Estratti.]
_La pestilenza_ | _seguita in Milano_ | _L'anno 1630_ | _raccontata
da_ | _D._ AGOSTINO LAMPVGNANO | _Priore di San Simpliciano_ |
_Al Serenissimo_ | _Carlo primo Gonzaga_ | _Duca di_ | _Mantova,
Monferrato, Neuers,_ | _Vmena, Rethel, etc._ | In Milano per Carlo
Ferrandi, | con licenza de' Superiori. | 1634; in-12 di pp. 82.
_Raggvaglio_ | _dell'origine_ | _et giornali successi_ | _della gran
peste_ | _Contagiosa, Venefica & Malefica seguita nella Città_ |
_di Milano & suo Ducato dall'Anno 1629._ | _fino all'Anno 1632._ |
_Con le loro successive Provisioni & Ordini._ | _Aggiuntovi un breve
Compendio delle più segnalate specie di Peste_ | _in diuersi tempi
occorse_ | _diviso in dve parti_ | _Dalla Creatione del Mondo fino alla
nascita del Signore,_ | _Et da N. S. fino alli presenti tempi._ | _Con
diversi antidoti_ | _Descritti da_ ALESSANDRO TADINO _Medico Fisico_
| _Collegiato & de' Conservatori dell'Illustriss. Tribunale_ | _della
Sanità dello Stato di Milano._ | _All'Ill.ᵐᵒ Sig.ʳ Francesco Orrigone
Vicario_ | _di Prouisione della Città & Ducato di Milano._ | In Milano.
M. DC. IIL. | Per Filippo Ghisolfi. Ad instanza di Gio. Battista
Bidelli. | Con licenza de' Superiori & Privilegio; in-4º di pp. 151,
oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerare.
_Alleggiamento_ | _dello_ | _Stato di Milano_ | _per_ | _Le Imposte,_
_e loro Ripartimenti._ | _Opera di_ | CARLO GIROLAMO CAVATIO |
_prosapia de' Conti_ DELLA SOMAGLIA, | _Gentilhuomo Milanese,_ |
_giovevole_ | Per _rappresentare alla Cattolica Maestà_ | _del Re N.
S._ | _Filippo IV. il Grande_ | _L'Amore Costante del Dominio,_ |
_E la forma facile di Benigno sollevamento._ | _Honorevole_ | _Per
le Prodezze de Cittadini._ | _Dilettevole_ | _Per le Storie, ed
Informationi._ | _Dedicata a gli Illustrissimi Signori_ | _Vicario, e
Sessanta_ | _del Consiglio Generale_ | _della Città di Milano._ | In
Milano M. DC. LIII.; Nella Reg. Duc. Corte, per Gio. Battista, e Giulio
Cesare fratelli | Malatesta Stampatori Reg. Cam. & della Città; in-fol.
di pp. 732, oltre 58 in principio e 76 in fine senza numerazione.
_Vita_ | _di_ | _Federico_ | _Borromeo_ | _Cardinale del Titolo di
Santa Maria degli Angeli,_ | _ed Arcivescovo di Milano,_ | _Compilata_
| _da_ FRANCESCO RIVOLA | _Sacerdote Milanese,_ | _e dedicata da'
Conservatori_ | _Della Biblioteca, e Collegio Ambrosiano_ | _Alla
Santità di Nostro Sig. Papa_ | _Alessandro Settimo._ | In Milano, |
Per Dionisio Gariboldi. M. DC. LVI.; in-4º di pp. 769, oltre 24 in
principio e 55 in fine non numerate.
_Il_ | _memorando contagio_ | _seguito in Bergamo l'anno 1630._ |
_historia_ | _scritta d'ordine pubblico_ | _da_ LORENZO GHIRARDELLI |
_libri otto._ | _Consacrata_ | _all'immortalità | della stessa Illᵐᵃ
Città_ | _di Bergamo._ | In Bergamo, M. DC. LXXXI. | Per li Fratelli
Rossi Stampatori di essa Città. | Con licenza de' Superiori; in-4º di
pp. 361, oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerazione.
_Memorie_ | _delle cose notabili_ | _successe in Milano intorno al_
| _mal contaggioso l'anno 1630._ | _Del riccorso da Signori della
città a Padri Capuccini_ | _per il Governo del Lazzaretto._ | _Come fu
destinato il Molto Rev. Padre Felice da Milano della_ | _Nobilissima
Famiglia de Casati, ed il Rev. Padre Michele_ | _da Milano della
Famiglia de' Marchesi Pozzobonelli._ | _De' Portamenti d'essi Padri
in quelle calamità; e come entrasse_ | _la Peste ne' Conventi loro._
| _Delle ammirabili azioni, ed affannose fatiche d'Eccellentissima
Carità_ | _dell'Illustrissimo Signor Marchese_ | _Don Gianbattista
Arconati_ | _di Gloriosa ricordanza, luce splendidissima di que'
tempi,_ | _Reg. Senatore, e Presidente della Sanità._ | _Del bel
passaggio all'Eternità di molti Capuccini Vittime di_ | _Carità, E
d'altri risanati per intercessione della Gran_ | _Vergine Miracolosa
delle Grazie_ | _Nella Chiesa delli Molto Reverendi Padri Domenicani_ |
_in Porta Vercellina._ | _Con in fine tre Capitoli in compendio della
purga_ | _delle cose infette, e sospette usata._ | _Raccolte da Don_
PIO LA CROCE, | _Consagrate_ | _all'Illustrissimo Signore il Sig._ |
_Don Giuseppe Arconati_ | _Marchese di Busto Garollo_ | _Arconate,
etc._ | In Milano Nelle Stampe di Giuseppe Maganza. 1730; in-4º di pp.
92, oltre 8 in principio e 2 in fine senza numerazione.
Del conte Pietro Verri consultò e cita la _Storia di Milano_ e le
_Osservazioni sulla tortura_, che postillò; come postillò il suo
discorso _Dell'Annona_. Cfr. _Opere inedite o rare di_ A. M. vol II,
pp. 122-124 e 374-386. Cita pure il trattato _Del governo della peste_
di Lodovico Antonio Muratori, edizione modenese del 1714; cita _Del
morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera del
dott._ F. ENRICO ACERBI; l'amico e medico suo.
Cfr. inoltre: GHIRON I., _Documenti ad illustrazione dei «Promessi
Sposi» e della peste dell'anno 1630_; nell'_Archivio storico lombardo_,
ann. V, fasc. 4 [31 dicembre 1878], pp. 749-758.
Degli _Estratti_ manzoniani ne trascriverò qualche brano, per saggio.
«Danno portato dai soldati veneziani. Ghirar[delli], p.
55--Processione, p. 161--Sintomi della peste, p. 224.--Unzioni, p.
244.--Inumanità dei _nettezzini_, p. 252.--Non furono mai veduti tanti
frutti pendere dagli arbori, etc., p. 258.--Mortalità: città e borghi,
9,533; territorio, 47,322, p. 341.--Continuò la mortalità, sicchè
più d'un terzo fu trovato mancar di peste--Esenzioni per 10 anni ai
forestieri in Bergamo, p. 356».
«Deputati delle parrocchie. Rip[amonti], p. 58--10 cal. maii, p.
75--Quatuor homines deprehensos esse, etc., p. 111--Lazzeretto e P.ʳᵉ
Felice, p. 128--Diluvio ai 23 di luglio, p. 131--Sed belli graviores
esse curas, p. 245».
«Viveva in un certo castello, etc. Rivola, p. 254--Card. Fed. Borromeo
raccomanda ai parochi che inculchino il dovere di rivelare la malattia
contagiosa, p. 582--Condotte a termine di salire in fin sopra i tetti,
etc., p. 759».
«Morti della peste in Milano, 1630. Ripamonti, pagine 228-229, morti
140,000. Vedere il luogo, dove le ragioni per cui il calcolo sembra a
lui stesso al di qua del vero--Tadino, p, 136, morti 185,558--Somaglia,
p. 500, morti 180,000--Rivola, p. 584 (a mezzo settembre), morti
122,000--Ms.º Vezzoli, p. 73, morti 122,464--Lampugnani, pag. 67 (la
stessa avvertenza che al Ripamonti), morti 160,000».
In un foglio volante, non però di mano del Manzoni, si legge: «Il
giorno 21 giugno a Milano il sole leva a 4.ʰ 12.', tramonta a 7. 48.
Era uso in Italia incominciare a contare le ore o al preciso tramonto,
o ad una mezz'ora dopo di esso. Nel primo caso le 8 ore italiane
corrispondono a 3. 48 della mattina, ossia 24 minuti prima del levare
del sole; che è precisamente all'aurora. Se si contino le 24.ʰ mezz'ora
dopo il tramonto, lo che è il 2º caso, le 8 ore corrispondono a 4. 18
dell'orologio francese, perciò 6 minuti prima del levar del sole. In
Milano si contava dunque le 24 al preciso tramonto». (Ed.)]
I pochi, che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra
popolazione come una razza privilegiata. Una grandissima parte della
gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto
il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva
col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi
erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta
ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a
fuggire, e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante
precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto. I pochi
risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano
senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui
cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro: erano
come i cavalieri dell'undecimo secolo, coperti d'elmo, di visiera,
di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella
destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco,
una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno, agile
all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani
a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per
offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto
delle membra non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità del
pericolo ispira il sentimento e dà il contegno del coraggio; è la parte
meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è
sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro,
che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche
ardito. Con questa baldezza, temperata però dalle inquietudini che noi
sappiamo e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un
bel mattino d'estate, per coste amene, donde ad ogni tratto si scopre
un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il
fresco e spezzato luccicare della rugiada, all'aria frizzante dell'alba
e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte.
Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora,
del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo:
erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da
qualche cadavere, che era portato alla fossa senza accompagnamento,
senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti, che erravano,
infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria
aperta, birboni che agguantavano dove fosse da spogliare impunemente.
Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi; sul
mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si
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