Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 10

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amici: è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un
uomo del Signore.
--Male non me ne vorrà fare, che dite eh? sarebbe un peccato senza
costrutto: quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono
sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba![127].
--Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una
povera vedova, disse Agnese.
--Sia fatta la volontà di Dio, disse Don Abbondio: e intanto Perpetua
gli diede il fardello, dicendo: porti questo, ch'io porto quest'altro.
--Oh poveretto me! disse Don Abbondio. Che ci avete messo?
--Camicie e abiti, rispose Perpetua; indi, fattasi all'orecchio di Don
Abbondio, domandò sotto voce: i danari li ha in tasca?
--Sì, zitto, zitto, per amor dei cielo, rispose Don Abbondio, e
prese il fardello. Sentite, Perpetua, riprese poi tosto, al momento
di partire, tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo
servizio al suo curato di portarlo.
--Ma non vede che ho preso con me tutto quello di mio che poteva
portare? disse Agnese.
--Oh me poveretto! mormorò Don Abbondio, ognuno pensa a sè. Andiamo,
andiamo. Perpetua, chiudete bene la porta: alla custodia di Dio.
Aspettate... ma no, no, peggio: sono la metà luterani! misericordia!
Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che
alla prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa. Voleva
staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore e affiggerlo al
di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra e per fare in
modo che non potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione;
ma s'avvide tosto che quel mezzo di difesa, molto debole per sè
contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una
provocazione a far peggio, giacchè fra quei soldati v'era di molti ai
quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe
sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del saccheggio.
Data una occhiata lagrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle
due vecchie amazzoni e per tutta la via non fece altro che sospirare,
lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani,
domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e
se credeva che non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per
le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto
male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a
cui si andava fosse mal sicuro.
Giunti presso al castello, videro un gran movimento, gente che andava,
gente che veniva, uomini in arme appostati, altri che giravano in ronda
a tre, a quattro, tanto che Don Abbondio cominciò a scrollare il capo e
a dire: Che è questa faccenda? Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli
erano evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello,
e di quelli che, come si vedeva, andavano ivi a rifuggirsi.
--Ohimè! ohimè! disse Don Abbondio: vedo che qui si voglion fare delle
pazzie; farsi scorgere appunto quando più si vorrebbe stare zitti,
rannicchiati, senza nè meno fiatare. Basta: vedremo: se fanno pazzie
per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi
fanno paura: quando si tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io
quanto chi che sia, andrei in mezzo al fuoco.
Dette sotto voce queste parole, Don Abbondio proseguiva lentamente,
guardando con attenzione a quegli armati, e cercando di comporre il
volto alla indifferenza e di non lasciar trasparire il suo pensiero,
che diceva dentro: Scommetterei che questo gradasso ha caro che sia
venuto un flagello così orribile per avere il pretesto di fare un po'
di rimescolamento. Oh che gente! Oh che gente!
Del resto, le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate. Al
castello del Conte era rimasta unita una antica opinione di sicurezza
e di potenza; e i nuovi costumi del signore ne avevano cancellata
affatto l'idea di oppressione e di terrore; dimodochè la gente del
contorno dalla banda del Milanese vi accorreva come ad un asilo, forte
e pietoso nello stesso tempo. Il Conte, lieto di essere un oggetto di
fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed oppressi, raccolse
tosto i primi che si presentarono. Ma un tal uomo non avrebbe potuto
considerare la sua casa come un asilo disarmato, un nascondiglio di
paura, nè starsi con le mani in mano quando ad ogni momento poteva
presentarsi un'occasione di menarle santamente. Fece addirittura tirar
giù dal solajo le armi irrugginite, le fece ripulire in fretta, ne
distribuì ai servitori. Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi,
egli trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro
moschetti e partigiane. Quando la provvigione fu esaurita, ne fece
raccogliere all'intorno: e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati;
altri mandava in ronda, altri più lontano per esplorare, altri stavano
raccolti per porsi in difesa. Quando uno era entrato nel castello
ed era passato in rivista dal signore, diveniva verso di lui come
un soldato col suo antico ufiziale, tanto il Conte possedeva quella
forte risolutezza che piega le volontà, e quella parola che toglie il
pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona. Aveva allogate
le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano pei
vecchj e per gl'infermi: una gran sala serviva di magazzino per le robe
che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in ordine,
con numeri, dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla
porta della sala era posto come un corpo di guardia; chi aveva portate
provvigioni, viveva di quelle, e i poveri erano nutriti dal Conte con
razioni, che si distribuivano regolarmente come in un campo. Egli,
come l'Ariosto sognò di Carlo in Parigi, di qua, di là, non istava
mai fermo: dava ordini, visitava posti, metteva a luogo quelli che
arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse qualche garbuglio,
qualche contesa, si mostrava, e tutto era finito.
Era appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli
riconobbe tutti e tre e gli accolse tutti con pronta cordialità;
ma alla madre di Lucia fece una accoglienza particolare, nella
quale traspariva come una gratitudine perchè ella gli desse ora una
occasione di compensare alquanto in quello stesso castello la terribile
ospitalità che vi aveva trovato la figlia.
--Bene avete fatto, brava donna, disse il Conte, di cercare qui un
ricovero. Bene avete fatto di ricordarvi di me: fate stima di essere in
casa vostra. Voi ci portate la benedizione.
--Oh appunto! rispose Agnese, sono venuta a darle incomodo.
Il Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e quelle udite, si
rivolse a Don Abbondio, e disse: La ringrazio, signor curato, ch'ella
si degni scegliere un asilo in questa casa.
--Manco male che conosce i suoi meriti, pensò Don Abbondio, e cominciò
per rispondere: In questi frangenti... in queste circostanze... non
si... tutto è... Ma, vedendo che la frase così cominciata non poteva
venire a bene, la convertì in un inchino profondo.
--Son già arrivati alla sua parrocchia coloro? domandò il Conte.
--Dio liberi! rispose Don Abbondio: Dio liberi! Non sarei qui, vivo e
sano, ad implorare la protezione del signor Conte.
--Si faccia cuore, ripigliò questi: qua su non verranno; ma se
volessero tentar la prova, siamo pronti a riceverli. In ogni caso la
sua presenza è preziosa, signor curato: ella potrà animare questa buona
gente alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante
donne, che confidano in noi.
--Un corno, disse fra sè Don Abbondio.
--Ella potrà, proseguì il Conte, assistere quelli fra noi che
lasciassero la vita in questa impresa di misericordia.
--Signor Conte, disse Don Abbondio, sarà quel che Dio vorrà. E così
dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina e la più
alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era posto il
castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i
combattenti.
Non rimaneva nel castello più che un letto libero, e fu dato, com'era
giusto, a Don Abbondio, prete e vecchio. Ma il Conte, memore della
notte che Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto sofferire che
la madre di lei dormisse su la paglia. Fece quindi portare il suo letto
nel dormitorio delle donne e disporlo quivi per Agnese, intimando ai
servi che si guardassero bene dal dire che quello era il letto del
padrone: e nella sua stanza fece in quella vece portare una bracciata
di paglia.
Quindici giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello;
quindici giorni di batticuore e di sospetto, di spauracchi subitanei
e di rincoranti _non è vero_, di vigilie, di allarmi, di pericoli,
che, grazie al cielo, tutti svanirono senza danno. Il castello era
fuor di strada e quei pochi demonj di lanzichenecchi sbandati, che
capitavano alle falde del promontorio, veggendo su per la via uomini
in arme, e non sapendo quanti più ve ne fosse in alto, più curiosi
allora di preda che di battaglia, se ne tornava pel loro meglio.
Oltracciò, la parte dell'esercito che nella marcia si distendeva lungo
l'estremo confine, aveva un interesse urgente di tenersi raccolta e
all'erta e di non disperdersi troppo a buscare. Sull'altro confine
era raccolta una forza dei Veneziani, la quale, sotto il comando di
Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo, era destinata a
costeggiare l'esercito alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio
che toccasse i confini della Repubblica; e a questa forza avevano dato
nome di squadrone volante. Alla presenza di questi, che certo non erano
amici, e che vedendo un bel tratto potevano far da nemici, bisognava
camminare con giudizio; e questa fu principalmente la cagione per
cui il castello non fu molestato. Ma anche questa, che in fatto era
salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato, e per Don Abbondio
principalmente, un aumento d'inquietudine: poichè se il confine Veneto
fosse stato sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe varcato
e sarebbe andato innanzi innanzi fino a che non avesse più inteso
parlare di lanzichenecchi. Ma ora, il poveretto non aveva più rifugio;
l'accesso ai monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli pei predoni
che potevano trovarsi su la via: e attraversare lo squadrone volante
sarebbe stato lo stesso che correre in bocca al lupo: giacchè quella
era una marmaglia ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla
misura dei lanzichenecchi; e nel paese che le era dato a proteggere
faceva il peggio che poteva.
Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei
quindici giorni. Stavasi colle donne, coi vecchj e coi fanciulli
nel luogo il più riposto del castello: di tempo in tempo la paura
lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non
gli accrescessero lo spavento. L'aspetto dell'armi, dei preparativi
di difesa, da una parte, lo rincorava alquanto; dall'altra, gli era
intollerabile, facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in
movimento a far carne. Si percoteva il petto e le guance, pensando
alla minchioneria che aveva fatta. Mi son messo in gabbia da me
stesso[128], diceva tra sè, sospirando. Oh che bestia! mi sono lasciato
condurre da due pettegole. E in questo pensiero s'infuriava tanto che
più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj
contra di essa. Ma quando Perpetua, giustificandosi, alzava la voce,
Don Abbondio la faceva tacere e cessava di garrire anch'egli, tutto
impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte, tornando
all'antica natura, non facesse il diavolo. Don Abbondio sedeva alla
tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello
stato maggiore: v'erano i signori del contorno, che facevano da
ufiziali, le signore e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte,
da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad
ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in
comune, perchè i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento.
Bisognava dunque parlare e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio
era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il
discorso per animarlo un pochetto, egli allora, sforzandosi di mangiare
e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura
veramente compassionevole.
Ma tutte le cose hanno veramente un termine: passano i cavalli di
Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt,
passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi
quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo,
passano i Croati; quando piacque al cielo passò anche Galasso, che fu
l'ultimo. Lo squadrone volante de' Veneziani si mosse anch'esso per
tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta
dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due Stati, e portarsi poi
sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando le due retroguardie
furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come
uno stormo di passeri si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e
fronzati d'una gran quercia, dove erano accorse a ricoverarsi dalla
tempesta. Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido,
per mirar tosto cogli occhj proprj il suo dolore e il guasto che v'era
stato fatto, e nello stesso tempo perchè i barberini, vedendo la casa
abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan
potuto lasciare. E poi per quanto il Conte avesse dato segni e prove
d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar
mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre
volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata.
Ma, dall'altra parte, lo riteneva la paura di abbattersi in qualche
lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in
porto. Era quindi sempre su le mosse e sempre s'indugiava, domandando
novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le
novelle erano dolorose. Quei pochi, rimasti colla speranza di guardar
le case, o discesi troppo presto, si erano trovati sbigottiti, storditi
dalle percosse e dallo spavento; ogni arredo, ogni masserizia sparita,
e in quella vece nelle case un impatto di strame, tizzoni di mobili
arsi, greppi di stoviglie sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto
il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il
respiro, dimodochè ognuno tornando con ansia alla casa derelitta ne
usciva alla prima con fastidio e doveva farsi forza a poco a poco per
rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone,
avanzando così per la sua casa, udiva un gemito; guardava con sospetto
che fosse: era un soldato, che languiva infermo, che spirava: e il
padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e
di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle
membra macchiate del giacente l'immagine confusa, ma terribile della
peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il Conte, argomentando da queste relazioni, che Agnese, se si fosse
affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare,
la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse, di quello che
gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di
biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e, caricatone
un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta
e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che
aiutassero la povera donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo
molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio
e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione
e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla
esclamazione, cento volte ripetuta, di _povera gente_, succedette il
_povero me_: parola che, generalmente parlando, esce da una parte più
profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il
suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là
nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra, e tra
con questi rimasugli e con quel di più che il Conte le aveva dato
appresso, allogarsi in casa, se non come prima, almeno in modo da
poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi
paesani. Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione
più che mai di sclamare: oh che gente! oh che gente! La sua casa
era la più maltrattata del villaggio, perchè era la più apparente;
e gli ospiti eroi, sospettando che ci dovesse esser più che altrove
ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter
tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, nè le cure erano state
inutili: e Perpetua, mettendo il piede su la soglia, tra mezzo i mobili
spezzati, i fogli lacerati e le piume delle sue galline, scorse tosto
con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver
meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan
più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio,
spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal
ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza e lo
ritraeva, dava tre passi e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza,
oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale;
i segni d'un vasto saccheggio erano ragunati in un picciolo angolo,
come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul
focolare della cucina, per esempio, si vedevano più tizzoni spenti,
i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola,
il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino
dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva
riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di tanti
altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere e di carboni
spenti; e con quei carboni, come per compenso e per un complimento al
padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di fantocciacci,
ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei
preti e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che, per
verità, non poteva fallire a tali artisti.
Don Abbondio, mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigi su
le tempie, balzò di casa come un forsennato e andò di porta in porta a
gagnolare, a scongiurare quegli, che tornati da qualche giorno avevano
assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di
governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più
fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi
una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola;
tanto che con gli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno
in casa, per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco.
Passati quei primi giorni e nel tempo appunto delle brighe e delle
spese, Don Abbondio ebbe con sè stesso e con Perpetua una guerra assai
fastidiosa. Perpetua, parte con la sua vista, acuta come il fiuto di
un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse
che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai
barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini: ne
fece tosto avvertito Don Abbondio, perchè si facesse rendere il suo. Ma
Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che gli
dispiacesse assai vedersi così rubato a man salva e sapere il fatto suo
in mano d'altri, ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e
bizzarri arieti del suo gregge; quegli dai quali Don Abbondio aveva
sempre sofferto ogni cosa, piuttosto che provocarli al cozzo, che
aveva sempre accarezzati e lodati come i più savj ed esemplari. Sicchè
sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe
con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che
Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di
quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
--Vada a cercarlo al tale, che lo ha, diceva Perpetua, e che non lo
avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un... buon
uomo.
--Zitto, zitto, Perpetua, zitto.
--Zitto, zitto, rispondeva Perpetua, e così ella si lascerebbe mangiar
gli occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non
rubare.
--Oh che spropositi! oh che spropositi! sclamava Don Abbondio. Ma
sapete pure... Col nome del cielo... volete la mia morte!...
La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre
vincitore, perchè quando si trattava di paura, egli mostrava una
risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter
competere, e taceva la prima. Tutto quello che fece Don Abbondio fu
di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la
trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva
con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore
ad un predicatore di Corte. E pure, appena quelle parole erano uscite,
gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un
qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare
dell'ira e della mansuetudine e del gran male che è l'infierire centra
quelli che non vogliono nè possono far difesa.


XX.
DIALOGO SULLA PESTE TRA DON FERRANTE E IL SIGNOR LUCIO.

Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano
quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo
per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con
argomenti un po' più reconditi e si scatenavano contra il tribunale
e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più
filosofico. Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto riferisce
una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante
e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome,
accenna alcune qualità. Era costui professore d'ignoranza e dilettante
d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante,
anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; perchè i
libri, diceva egli, fanno perdere il buon senso. Ammetteva bene una
scienza che si poteva acquistare colla esperienza e comunicare per
mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è
da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so
per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che
bugie.
Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità,
che, divenendo di giorno in giorno più risoluti, cominciavano a non
far distinzione di persone e assoggettavano anche i potenti ad una
vigilanza incomoda.
--Tutto questo, diceva il Signor Lucio, in grazia dei libri, dei
sistemi, delle dottrine che hanno scaldata la testa d'alcuni, i quali,
per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia e
pietà nello stesso tempo il vedere quel buon vecchio di Settala, che
potrebbe fare il medico con giudizio e servirsi della sua buona pratica
acquistata in sessant'anni e del buon senso che gli ha dato la natura,
vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il
sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza
del contagio; perchè? perchè l'ha trovata nei suoi autori. Scienziati,
scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci.
--Piano, piano, disse Don Ferrante; il quale, benchè occupato a
dissertare in un altro crocchio, aveva intesa quella scappata del
Signor Lucio. Piano, piano; se si tocca la scienza, son qua io a
difenderla.
--Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che
gli comparte tanti favori, disse una signora; e il tratto riscosse un
mormorìo di applauso da tutta la brigata.
--Quand'anche ciò fosse vero, disse Don Ferrante, dopo aver pensato
soltanto per un mezzo minuto, una tale parzialità sarebbe da
attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del
sesso. Comunque sia, continuò egli, son qui a provare che la scienza
non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome.
--Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere,
rispose il Signor Lucio, che tutte quelle belle ragioni che si dicono
da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, o che so
io, non sieno cavate dalla scienza.
--Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie, rispose Don
Ferrante. Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il
contrario e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile,
una chimera, un non-ente.
--Sono cose che le donne possano intendere? domandò quella signora.
--La materia è un po' spinosa, disse Don Ferrante; ma vedrò di renderla
trattabile. Dico dunque, che in _rerum natura_ non vi ha che due
generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non
può essere nè dell'uno, nè dell'altro genere; dunque non può esistere
in _rerum natura_. Le sostanze... prego di tener dietro al filo
del ragionamento... sono semplici, o composte. Sostanza semplice
il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea,
perchè se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe
rimanersi a danneggiare i corpi: non è acqua, perchè bagnerebbe; non
è ignea, perchè brucerebbe; non è terrea, perchè sarebbe visibile.
Sostanza composta, nè meno, perchè tutte le sostanze composte si fanno
discernere all'occhio, o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi
sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto; non vi sarà quel Briareo
che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo
ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi
signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe
dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due
parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele
e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle
scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone
per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un
soggetto all'altro. Mi pare che la cosa sia evidente.
--Intanto, disse il Signor Lucio, senza tutti questi argomenti, col
semplice buon senso, tutti i galantuomini e il popolo stesso sanno
benissimo che questo contagio è un sogno.
--Non lo sanno; perdoni, rispose Don Ferrante, lo indovinano a caso,
come atomi senza cervello che, girando senza saper dove, concorressero
a comporre una figura regolare. Mi dica un po', di grazia, se sapranno
poi dire la cagione vera di questa mortalità.
--Oh bella! disse il Signor Lucio; la cagione è chiara; in tutti i
tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti, perchè v'ha più
malattie; e questo è il caso nostro.
--Si, disse Don Ferrante; ma la malattia, la cagione prima delle
malattie?
--Nè qui pure c'è sotto gran misterio, rispose il Signor Lucio: la
carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie.
--Tutto bene, disse Don Ferrante, ma la cagione prima?
--Io non so che cosa ella intenda per cagione prima, disse Don Lucio.
--Ora vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza, disse Don
Ferrante. Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia,
di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto,
bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla
negli aspetti dei pianeti. Perchè non si vuoi fare come il volgo,
che guarda in su, vede le stelle e le considera come tante capocchie
di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle
influiscono, ma non va poi a cercare nè come, nè quando. Abbiamo il
libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si
tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella
gran cometa, causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, _apparet
cometa magnus in cardine dextro_, la quale indicava chiaramente che
l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una
terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno,
con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: _Fames in Italia
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