Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 01

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OPERE DI ALESSANDRO MANZONI
_EDIZIONE HOEPLI_
Vol. II.
(in due parti)
BRANI INEDITI
DEI
PROMESSI SPOSI
DI
ALESSANDRO MANZONI
PER CURA
DI GIOVANNI SFORZA
PARTE II.
SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA
Milano--ULRICO HOEPLI--Editore


BRANI INEDITI
DEI
PROMESSI SPOSI


BRANI INEDITI
DEI
PROMESSI SPOSI
DI
ALESSANDRO MANZONI
PER CURA
DI GIOVANNI SFORZA
PARTE II.
Seconda edizione accresciuta
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1905


PROPRIETÀ LETTERARIA
Milano, 1905--Tipografia Umberto Allegretti, Via Orti.


INDICE DELLA SECONDA PARTE

Le prime accoglienze ai «Promessi Sposi», studio
di GIOVANNI SFORZA IX

XII.--Fuga di Don Rodrigo 353
XIII.--Ritorno di Lucia al suo paese 363
XIV.--Visita del Conte del Sagrato a Lucia 373
XV.--Cure del Cardinal Federigo per mettere
al sicuro Lucia 387
XVI.--Il tozzo di pane e il bicchier d'acqua del
Cardinal Federigo 395
XVII.--La carestia del 1628--Ragioni, rimedi e
moti dell'opinione pubblica nelle carestie 405
XVIII.--Don Ferrante e la sua famiglia 433
XIX.--Il passaggio de' Lanzichenecchi 465
XX.--Dialogo sulla peste tra Don Ferrante e il
Signor Lucio 495
XXI.--La peste a Bergamo--Ritorno di Fermo al
paese nativo--Suo incontro con Don Abbondio
e con Agnese 525
XXII.--Fermo trova Lucia nel lazzeretto 557
XXIII.--Scioglimento del voto di Lucia e morte
di Don Rodrigo 579
APPENDICI 595
I.--Il principio del Romanzo nella prima minuta 597
II.--Il principio del Romanzo nella seconda
minuta 604
III.--Il principio del Romanzo nella copia per
la Censura 607
IV.--La fine del Romanzo nella prima minuta 611
V.--La Serva di Don Abbondio 618
VI.--La confessione di Lucia e il consiglio
d'Agnese 626
VII.--Una disgressione 642
VIII.--Il Padre Cristoforo ripreso dal Guardiano
di Pescarenico 648
IX.--Il tentativo fallito del matrimonio clandestino
nella prima e nella seconda minuta 653
X.--Le correzioni all'«Addio ai monti» 676
XI.--L'Innominato; brano della seconda minuta,
stralciato poi dall'Autore 688
XII.--Descrizione dell'autografo della prima
minuta dei «Promessi Sposi» 712


LE PRIME ACCOGLIENZE
AI
«PROMESSI SPOSI»

I.
Giulia, la primogenita del Manzoni, scriveva al Fauriel l'8 luglio
del '27: «Debbo dirvi che abbiamo provato un gran piacere nel vedere
il lieto successo del libro del babbo. In verità, superò non solo
la nostra aspettativa, ma ogni speranza; in meno di venti giorni se
ne vendettero più di 600 esemplari. È un vero furore; non si parla
d'altro; nelle stesse anticamere i servitori si tassano per poterlo
comprare. Il babbo è assediato da visite e da lettere d'ogni specie
e d'ogni maniera; furono già pubblicati alcuni articoli intieramente
favorevoli ed altri se ne annunziano».
Non senza una trepidazione grande l'aveva finalmente dato fuori,
come si rileva dalle lettere che il Tommaseo, allora a Milano e in
familiarità con lui, era andato di mano in mano scrivendo a Giampietro
Vieusseux[1]. «Il suo romanzo o addormentato»: (così il 12 novembre
del '26) «egli teme di pubblicarlo, tanta è la nausea che ispira a
ogni bene l'aspetto di quella canaglia che ha parte nella _Biblioteca
Italiana_». E di lì a dodici giorni: «Egli s'era scuorato un po', non
per tema di que' vili imbecilli, ma per quella stanchezza di mente che
nasce al pensiero di vedere male accolta un'opera che costò tanta pena,
e che, dic'egli, non fa male a nessuno. Io temo, soggiungea, che mi
vogliano far scontare la troppa aspettazione ch'egli hanno di questo
libro: aspettazione della quale, a dir vero, non è mia la colpa». Gli
tornava a scrivere il 2 decembre: «Manzoni ripiglierà il suo romanzo,
da cui l'aveva scuorato lo zelo dell'amicizia; voglio dire le critiche
fatte al 2º. canto del Grossi»[2]. In un'altra, senza data, ma del
febbraio o del marzo del '27, soggiunge: «Manzoni è all'ultimo capitolo
ancora. Ma incomincia a stampare l'altra metà dell'ultimo tomo; onde
innanzi alla fine dell'anno si può sperare di veder il Romanzo alla
luce[3]. Dev'essere un gran gridare, un gran sentenziare de' Classici.
E la _Biblioteca Italiana_ come lo prenderà d'alto in basso!» Gli torna
a scrivere il 12 maggio: «Manzoni non ha cominciato ancora a stampare
l'altra metà dell'ultimo tomo; ma non va, mi dice, in campagna, se non
se pubblicatolo. Io godo d'andarmene via: penerei a sentire la lotta
che forse gli si prepara, e forse non potrei non mischiarmivi».
Per «benevolenza modesta» dell'autore, aveva egli letta gran parte,
«innanzi che data alla luce», di «quella immortale più storia che
romanzo»; e, nel confidarlo al Vieusseux, la diceva «divina cosa».
Ne lesse anche de' tratti al Rosmini, «che, passeggiando la sua
stanza, sorrideva e ammirava»[4]. Avvenuta la pubblicazione, seguitò
a ragguagliare l'amico della varia fortuna del Romanzo. «I giudicii
sono ancor vaghi», gli scriveva il 20 di giugno. «Il pubblico è
incerto; il nome di Manzoni lo preme e incute rispetto. La virtù ha i
suoi diritti». E di lì a quattro giorni: «A Zaiotti e ad Ambrosoli
il romanzo del Manzoni non piace. Dicono che non conosce la lingua;
che il secondo tomo[5] meriterebbe di andar tutto al diavolo, ch'è
un disturbo dall'azione, che negli altri però l'_azione_ (sentite i
pedanti!) cammina bene. A molti piace molto: tutti però ci trovano
troppi particolari: quelli che sanno scrivere ci trovano delle
improprietà, e difetto di numero. Alcuni colloqui si notarono come
_eccessivamente veri_. Si confessa però ch'è un modello di stile
romanziero. Una signora ha trovato ottimo il titolo di _storia_[6],
perchè, dice, par tutto vero. Un'altra, malissimo prevenuta, dovette
pur piangere. S'accorse, per altro, ch'era un libro _pericoloso_,
perchè i contadini vi fanno miglior figura che i nobili. L'istesso
padre Cristoforo, diceva ella, è un mercante. V'ebbe chi ha trovato
che Manzoni guasta la letteratura, perchè... perch'è _inarrivabile_:
onde quelli che l'imitano, noi potendo agguagliare, non fanno che
inezie. Ad altri parve leggiero, e insignificante il titolo: ad altri
voluminosa la forma. Una famiglia inglese, che lo voleva comperare,
se ne tenne; perchè lo trova non libro da viaggio, ma da chiesa; non
romanzo, ma Bibbia». Il 18 di luglio seguitava a informarlo: «Parliam
di Manzoni... Si diceva che il suo merito è di _nulla tralasciare_,
neppure le menome circostanze, le menome pieghe del cuore; si lodava
l'artifizio della narrazione e dei passaggi; e che quel libro
doveva studiarsi anche per la lingua; e che nel secondo tomo quella
conversione è mirabilmente preparata e descritta; e che la prolissità
non annoia; e che il terzo tomo è di tutti il più bello; che quella
peste è cosa sovrana, quel _lazzeretto_ dalla potenza della pittura
aggrandito. Quest'ultima espressione annuncia un ingegno che giudica
un punto più elevato del solito: e questi sono gl'ingegni a cui deve
piacere Manzoni. Era ben piacevole, nei primi giorni in cui l'opinione
pareva pendere più al male che al bene, il vedere l'accanimento di
certe bestiucce letterarie a trovare i difetti, in quel libro in cui
poco innanzi non sapevano cercare che pregi. E per aver trovato in un
luogo _marmaglia d'erbe_, a gridare: vedete che improprietà... con
un'aria che inviluppava di disprezzo tutto il libro quant'era. Una
donna che, malgrado la presunzione contraria, è forzata a piangere in
quella lettura, val bene un articolo. Io confesso d'aver pianto anch'io
al terzo tomo: e un giorno dell'anno passato che fummo da Manzoni a
Brusuglio e ch'io leggeva quella medesima conversione del tomo secondo,
la trepidazione si leggea chiara nel volto di tutti gli udenti e del
medesimo autore. Quest'è il caso in cui un autore può senza orgoglio
lodare sè stesso. Ma se volete un giudicio d'altro genere, e non meno
onorevole: un vecchio, letto il primo tomo, trovava piacere a riportare
le cose lette, e narrarle anche a chi le sapea: e prima che il libro
uscisse, il legatore (poichè Manzoni si fece legare le copie in casa)
il legatore veniva congratulandosi con lui del merito di quell'opera,
e gliene ripeteva alcun passo nel suo dialetto, mostrando d'averlo
tutto inteso benissimo. I giudizii dei letterati sono ben diversi. Non
so se io v'abbia scritto di colui che trovava mirabile soprattutto nel
primo tomo la pagina 113[7]; quasi che in un'opera del Manzoni fosse
possibile o lecito prescerre una pagina. Altri trovava da lodare quegli
occhi del frate, paragonati a due cavalli bizzarri. Nei quali elogi
voi forse, così di lontano, non potrete sentire quanto di velenoso ci
sia[8]. Questi vili, non potendo sfogarsi sull'ingegno, gli mettono a
conto e il lungo studio ed il lungo tempo occupato, e la sua stessa
virtù». Soggiungeva poi: «Quello che offenderà molti, certamente, è la
troppa religione che c'è. Per apprezzar quel lavoro e comprenderlo,
conviene aver lungo tempo conversato con l'autore; conoscere le sue
idee letterarie e politiche, il suo modo di vedere le cose. Ed ancora
non basta: la storia di quel secolo egli l'ha studiata nelle prime
fonti, e ne' rivoli più solitarii: tante bellezze che paiono di
invenzione sono storiche, sono inspirate dal fatto, ch'è quanto a dire
sono doppie bellezze. Così tante sottili allusioni, che racchiudono
il germe d'un sistema. E v'ebbe chi trovò migliore il _Castello di
Trezzo_!» Lasciata la Lombardia e tornato nella nativa Dalmazia, il
Tommaseo seguita a parlar de' Promessi Sposi nelle sue lettere al
Vieusseux. «Da Milano» (così in una del 17 d'agosto) «si scrive che
le mille copie del Romanzo son tutte spacciate; che qualcuno ne ride
in segreto, che Monti chiacchiera dello stile[9]; che i più tacciono;
che molti applaudono, purchè però lo si chiami non romanzo, ma storia.
Sento che a Padova piacque molto alle donne».
Giacomo Leopardi ritrae al vivo l'opinione pubblica d'allora intorno
ai _Promessi Sposi_, in una lettera che scrisse, da Firenze, il 23
agosto del '27, al libraio milanese Antonio Fortunato Stella: «Del
romanzo di Manzoni (del quale io solamente ho sentito leggere alcune
pagine) le dirò in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano
molto inferiore all'aspettazione. Gli altri generalmente lo lodano». Le
«persone di gusto», cioè i letterati, erano partigiane, più o meno, de'
vecchi pregiudizi della scuola classica, e per conseguenza il Manzoni,
che aveva voltato le spalle a questa scuola, dando un avviamento nuovo
all'arte, era agli occhi loro uno scrittore fuori di strada. Tutti
però si accordavano nel riconoscergli un grande ingegno, ma con questa
differenza: per gli arrabbiati era nè più nè meno un Attila della
letteratura e dove metteva le mani guastava ogni cosa: i temperati, pur
trovando ne' suoi scritti un'infinità di difetti, vi scorgevano però
de' tratti di singolare bellezza; tratti che non mancavano di gustare
con ammirazione schietta e sentita. È utile e curioso il rievocare il
ricordo di questa battaglia tra le «persone di gusto» e gli «altri»;
i quali, oggetto, sulle prime, di compassione, anzi di disprezzo,
finirono poi col vincere; tanta e così irresistibile fu la forza della
verità.
Fin dal novembre del '21 Giuseppe Carpani, uno degli arrabbiati,
scriveva all'Acerbi, in quel tempo direttore della _Biblioteca
Italiana_: «Manzoni avrebbe ingegno da fare cose bellissime e
originali; battendo la via che batte, non farà che pazzie strampalate,
sparse di qualche scintilla di luce, che si perde nelle tenebre
del tutto»[10]. A Torino, l'ab. Michele Ponza, dal suo _Annotatore
Piemontese_, scagliava questi fulmini: «Io reputo classico tutto ciò
che in sè non ammette confusione di genere. Il giardino italiano è
classico e l'inglese è romantico; la pianta ed il fabbricato di Torino
è classico, quello di Milano romantico; l'abito nero con pantaloni
bianchi è romantico, l'abito tutto nero con calzoni corti è classico;
la musica di Cimarosa è classica, quella di Rossini romantica; le
commedie di Destouches, di Regnard e di Goldoni sono classiche, quelle
di Kotzebue e di altri scrittori nordofili, gallofili, stranofili
sono romantiche; le tragedie d'Alfieri sono classiche, quelle del
Manzoni sono romantiche. Dunque, dove è ordine, armonia, regolarità è
classicismo; dove mancano queste condizioni è romanticismo». Giovita
Scalvini scriveva: «La poesia romantica fu trovata da Cam figliuolo
dì Noè. Ne' quaranta giorni che si trovò nell'arca, egli fece un
poema dove descriveva tutto ciò che aveva d'intorno. Unì le idee più
disparate, perchè vedeva presso sè l'agnello e il lupo; vedeva fuori i
pesci sulle cime dei monti: la sua musica, le strida de' moribondi».
E per mettere alla gogna i romantici ideava il dramma: _La creazione
del mondo e la fine_, con questi attori: «Il caos, le stelle, le
tenebre, la luce, il diavolo, il serpente. Gli animali di Daniele.
Il teschio di Adamo. La cometa che accompagnò i re Magi. Il libro
dei sette sigilli. Enos. Il cavallo della morte. Il bue, l'asino, il
corvo». Scene: «La creazione: una conversazione patetica fra Eva e
il serpente. Il diluvio. Un soliloquio del corvo sulla carogna che
sta per beccare». Carlo Botta scriveva da Parigi: «Io ho in odio,
peggiormente che le serpi, la peste che certi ragazzacci, vili schiavi
delle idee forestiere, vanno via via seminando nella letteratura
italiana. Io gli chiamo traditori dell'Italia, e veramente sono. Ma ciò
procede, parte da superbia, parte da giudizio corrotto; superbia, in
servitù di Caledonia e d'Ercinia, giudizio corrotto con impertinenza e
sfacciataggine». Gli battè le mani il _Giornale Arcadico_ di Roma: «Sì
certo, o Carlo Botta, _sfumerà questa infame contaminazione_: tempo
verrà, nè forse è lontano, che gl'italiani si vergogneranno di tanti
romantici vituperii, levati ora alle stelle dai goffi imbrattacarte
e ciarlatani di certi giornali: e frutto di questa vergogna sarà il
gittare sdegnosamente alle fiamme tutto in un fascio quel bastardume
d'_inni_, di _tragedie_, di _romanzi_, di che ora, parte ridono e parte
fremono i veri sapienti della nazione»[11].
A difesa de' Romantici si levò animoso Giuseppe Mazzini. «Gli uomini
che in tutti i loro scritti anelano al perfezionamento dei loro
concittadini; che avvampano per quanto di bello e sublime splende su
questa terra; che hanno una lagrima per ogni sciagura che affligga
la loro patria, un sorriso per ogni gioia che la rallegri; gli
uomini a' quali il vero è _fine_, la natura e il cuore son _mezzi_;
che trasportano il genio per vie non corrotte dalla imitazione, non
guaste dalla servilità de' precetti; che a favole, vuote di senso
per noi, sostituiscono una credenza che tragge l'animo a spaziare
pei campi dell'infinito; gli uomini che s'aggirano religiosi tra le
rovine dell'antica grandezza e dissotterrano a conforto dei nipoti
ogni reliquia dei tempi trascorsi; questi uomini non tradiscon la
patria; non son vili schiavi delle idee forestiere. Essi vogliono dare
all'Italia una letteratura originale, nazionale; una letteratura
che non sia un suono di musica fuggitivo, che ti molce l'orecchio, e
trapassa; ma una interprete eloquente degli affetti, delle idee, dei
bisogni, e del movimento sociale. Ogni secolo modifica potentemente
gli uomini e le cose; ogni secolo imprime una direzione particolare
all'umano intelletto... I veri Romantici non sono nè boreali, nè
scozzesi; sono italiani, come Dante, quando fondava una letteratura, a
cui non mancava di Romantico che il nome»[12].
Il Rosmini fin dal maggio del '26 aveva scritto a don Antonio Soini:
«Col Manzoni abbiamo parlato di voi. Che bontà di questo sommo poeta!
Che affabilità! Che anima sparsa in sul volto tutto e in sulle labbra!
Egli lavora nel suo romanzo assiduo. Temo assai della sua prosa; non
dubito delle immagini e dei nobili sentimenti: di quello spirito non
possono che uscire emule alla natura sublime, questi degni della
nostra immensa destinazione. Ma la lingua? Non può crearsela questa
lo spirito, alto quanto si voglia; gli bisogna ricorrere per essa
alla dotta memoria; e temo che questa non sia stata arricchita per
tempo di cotal mercè. Pare però che egli stesso lo senta; e se lo
sente, lo studio assiduo, ancorchè un po' tardi, acconcerà forse la
trascuranza dell'età prima». L'ab. Giuseppe Manuzzi, richiesto dal P.
Antonio Cesari, che cosa pensassero a Firenze de' _Promessi Sposi_,
gli rispose, suonarne «orrevolmente la fama, sì per l'invenzione, sì
per la lingua, e sopratutto per la profondissima cognizione del cuore
umano». Ma però soggiungeva: «Da alquanti brani ch'io ne lessi, la
lingua certamente non è della migliore: anzi, secondo me, poco buona, e
peggiore lo stile. Già voi sapete essere il Manzoni un forte campione
dei romantici: di che non è da meravigliare se trova lodatori in gran
numero. Leggeste voi nulla di suo? che ve ne pare? scrivetemene». Il
Cesari gli rispose: «Ho letto i _Promessi Sposi_ del Manzoni; mi ci
parve trovare suoi difetti; quanto ad episodi o digressioni, che non
s'innestano col fatto (è ciò che tiene il lettore forse a disagio);
quanto a lingua, egli ha studiato i nostri maestri, ma i Comici
sopratutto. Del resto nella eleganza dello scriver grave e naturale,
egli è ancora addietro: ma credo che in poco, si farà grande scrittore.
Nel colore, nella forza, nell'espressione tuttavia vale assai: nelle
pitturette fiamminghe è maraviglioso; come altresì nel toccare le
passioni, gli affetti e movimenti tutti del cuore, fino a' più minuti,
mi par gran maestro. Ingegno ha altissimo, acuto e facondo assaissimo.
De' suoi _Inni_ il migliore mi sembra quello della _Pentecoste_: sono
però sparsi tutti, qual più, qual meno, di concetti pellegrini, che
egli solo era atto a trovare. Risplende poi la sua pietà e religione: e
certo quel romanzo è un trionfo della virtù; e farà troppo più frutto,
che nessun altro quaresimale». Il Cesari[13] poi finiva una sua lettera
all'ab. Gaetano Della Casa: «Mi direte degli _Sposi_ del Manzoni e
de' difetti che ci noterete; a vedere se ci scontriamo. Ma bellezze
grandi!» Che cosa gli rispondesse non so. Giuseppe Pederzani, al quale
pure ne aveva domandato, gli replicava: «Del Manzoni ho letto un tomo
e mezzo il passato autunno; e più avanti non potetti, perchè chi mel
prestò, sel portò poi a Milano, che fu il Rosmini prete. N'ebbi piacer
molto, e certo ha tutti que' meriti che voi dite; tranne forse questo
solo, che a voi sembra, rispetto alla lingua, avere egli studiato ne'
classici più di quel che pare a me; ma io debbo stare al giudizio
vostro. Anche mi son paruti troppo lunghi e noiosi quegli episodi: ma
qui posso aver torto facilmente: imperciocchè comprendo bene, che in
fine formano la materia dell'opera. Forse alla seconda lettura non mi
parrà più così. A ogni modo, scritto assai dilettevole e buono».
Un altro pedante de' più arrabbiati, il corcirese Mario Pieri, così
discorre de' _Promessi Sposi_ nelle sue _Memorie_, che son rimaste
inedite:
«Firenze, 15 agosto 1827. Ho letto i primi due capitoli (non potei
averlo che per pochi momenti) del romanzo di A. Manzoni, del quale non
dirò nulla fino a tanto che non l'avrò letto tutto, benchè in quegli
stessi capitoli io abbia inciampato in più d'una cosa di cattivo
gusto, senza dir dello stile, che mi sembrò così tra il milanese ed il
francese. E questi godono fama di grandi scrittori!
«Firenze, 6 ottobre 1827. Leggo i _Promessi Sposi_, che ora mi stancano
colla soverchia prolissità e colle minutissime descrizioni.
«7, domenica. Il viaggio di Renzo (nel romanzo del Manzoni), da Milano
a Bergamo, è una bellissima cosa, e quivi stanno bene anche quelle
minutezze e particolarità, che ci vengono tanto spesso innanzi fino
al fastidio in quel libro. Grande ingegno è il Manzoni, ed è un gran
peccato ch'egli voglia farsi il corifeo del falso gusto in Italia! Ho
consumato gran parte del giorno (dalle due alle sei) alle Cascine,
passeggiando e leggendo i _Promessi Sposi_. La mattina ho letto una
prefazione, che il signor Camillo Ugoni pose alla testa d'una edizione
parigina delle poesie del Manzoni, in cui quel letterato bresciano,
romantico per la vita, delira, al solito, sui bisogni del nostro
secolo, sul dramma storico, sull'arte e sulla natura, sopra una libertà
ch'egli chiama _Scolastica_, ch'egli attribuisce all'Alfieri, e ai
seguaci de' classici, e simili follie. Povera letteratura italiana,
ecco i tuoi sostegni! Che mai diverrà questo secolo, quando Monti e
Pindemonte non saranno più tra di noi!
«Firenze, 22 ottobre 1827. Ho terminato finalmente i _Promessi Sposi_,
libro che, a malgrado del falso gusto, delle lungaggini eccessive,
delle troppo minute descrizioni, e simili altre tedescherie, manifesta
un grande ingegno nel suo autore, oltre l'animo gentile e gli egregi
costumi».
Chi vide e gustò le bellezze de' _Promessi Sposi_ appena che uscirono
dal torchio fu Pietro Giordani; e da Firenze, dove allora abitava, andò
manifestando agli amici le impressioni ricevute da quella lettura. Il
21 settembre del '27 scriveva a Francesco Testa[14]: «Del Manzoni siamo
perfettamente d'accordo: eccellente pittore, benchè fiammingo. Egli
è ora qui: amabilissima e modestissima persona: riverito e amato da
tutti, onorato straordinariamente dalla Corte». E che nel romanzo ci
sia del fiammingo, è vero; ma lì dove ha maggiore bellezza, bellezza
ineffabile. Il 15 d'ottobre chiedeva a Lazzaro Papi: «È venuto costà
[_a Lucca_] il romanzo di Manzoni? Com'è piaciuto?... Manzoni fu qui
molti giorni; ebbe grandi accoglienze da tutti; e straordinario onore
dalla Corte. È uomo di molta e amabile modestia, e belle maniere...
In Roma ora è proibito di vendere il romanzo di Manzoni, che pur vi
entrò con amplissime licenze»[15]. Il 22 del mese stesso torna a
scrivere al Testa: «Manzoni, amabilissimo per la modestia e la bontà e
l'ingegno, dev'esser partito assai contento di Firenze, e più contento
della Corte, che l'ha onorato straordinariamente. Del suo libro, poichè
volete, vi dirò che mi è piaciuto. Ci vedo un'assai fedele pittura
dello Stato di Milano in que' tre anni miserabilissimi 28, 29 e 30.
Verità somma e finitissima ne' dialoghi e ne' caratteri. Nobilissimo
il carattere del Cardinale: naturalissimi tutti gli altri inferiori:
la. stolidezza e la ferocia dei dominatori stranieri efficacemente
rappresentata: un modello di religione tollerabile, e anche utile.
Cominciano a insorgergli contradittori al solito: ma credo che il
libro vincerà e durerà. A me i difetti paion pochi e leggieri: i pregi
moltissimi e non piccoli. E poi è il primo romanzo leggibile che sia
sorto in Italia: è adatto a molte sorti di lettori: s'insinua nelle
menti: vi germoglierà qualche buon pensiero. Eccovi contentato, mio
caro: v'ho detto quel che penso; e non per politica, come m'imputano
alcuni: e non pensano che uno che non si cura nè del papa nè dei re,
non ha cagion di mentire per Manzoni, che biasimato non può mandarmi in
galera, nè lodato può farmi cardinale o ciambellaio». Così ne scrive
a Giuseppe Bianchetti il 13 decembre: «Il Romanzo di Manzoni mi par
bello come lavoro letterario; ma stupenda cosa e divina come aiuto
alle menti del popolo. Io credo che farà un gran bene; e i nemici del
bene se ne accorgeran tardi. Grande amor del bene, e gran potenza e
arte di farlo si vede in quell'ingegno». Di nuovo al Testa il 25 dello
stesso mese: «Ho letto più di venti romanzi di Walter; e quanti ancora
me ne restano!... Non mi maraviglio che in tutta Europa piaccia molto
il libro di Manzoni; e ne godo. In Italia vorrei che fosse letto a Dan
usque ad Nephtali: vorrei che fosse riletto, predicato in tutte le
chiese e in tutte le osterie, imparato a memoria. Se lo guardate come
libro letterario, ci sarà forse un poco da dire; secondo la varietà
de' gusti e delle abitudini. Ma come libro del popolo, come catechismo
(elementare; bisognava cominciare dal poco) messo in dramma; mi pare
stupendo, divino. Oh lasciatelo lodare: gl'impostori e gli oppressori
se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che potente leva
è, chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione: ma
minchione a chi? agl'impostori e agli oppressori, che sempre furono e
saranno minchionissimi. Oh perchè non ha Italia venti libri simili!» E
al Bianchetti l'8 luglio del '31: «Bellissimo e utilissimo il vostro
Discorso sui romanzi storici, che io credo si potrebbero far belli, e
al nostro popolo proficui; purchè si seguisse la via di Manzoni. Ma chi
ha la sua anima? Di tutti gli altri che ho veduti, nessuno mi piacque;
anzi mi dispiacquero assai: imitazioni, e ben cattive e torte dello
Scott. Invece di scrivere contro tal genere (se pur è vero che scrive)
bisognerebbe pregare Manzoni che facesse un secondo lavoro simile; e
sarebbe, una vera salute per la povera Italia. Gli altri, che dopo lui
hanno guastato e guastano il mestiere, bisognerebbe pregarli a tacersi,
e aspettare che sorga un Manzoni secondo»[16].
Giambattista Niccolini a Firenze e Felice Belletti a Milano non si
fidavano del proprio giudizio e aspettavano quello «del sesso gentile».
Il Niccolini era «impaziente» da un pezzo di vedere i _Promessi Sposi_
del Manzoni e I _Lombardi alla prima crociata_ del Grossi, «avendo in
gran concetto il loro ingegno»; come scrisse al conte Fracavalli il 20
decembre del '25. Nell'aprile del '26 chiedeva a Felice Bellotti: «Il
romanzo del Manzoni quando uscirà?» Gli rispose il 29: «Del romanzo
di Manzoni altra notizia non posso darvi, se non che tra un mese si
comincerà la stampa del terzo ed ultimo tomo, essendo già finiti i due
primi, che però l'autore non vuol dar fuori se non insieme con l'altro.
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