Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 2 - 07

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Federigo proseguì il suo cammino.
Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di
gloria a quel pranzo del Cardinale, a renderlo un soggetto frequente
di ammirazione e di memoria; non gli verrà fatto. È forse da dire che
queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia
degli uomini di che ammirare? non già, poichè si parla tuttavia delle
magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e
comune la memoria del salino di Fabricio e del suo piattello, sostenuto
da un picciuoletto di corno. E perchè dunque il tozzo di pane di
Federigo e il suo bicchier d'acqua non potranno ottenere una simile
immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole
di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una,
ed è: che il cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più
parte degli uomini, parlo degli uomini colti, non consente ammirare le
virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù
feroci un'altra ammirazione di terrore: non risguarda quelle come
virtù, che quando sieno unite ad un profondo sentimento d'orgoglio e
di disprezzo per qualche parte del genere umano. Se quel tozzo di pane
fosse stato mangiato da un generale in presenza di ventimila cadaveri,
sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista
avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione in
vita sua. Eppure, la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo
d'un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne
asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar
pane a chi ne mancava; quel tozzo di pane, mangiato tra le fatiche
d'un ministero di misericordia, di pace e di pietà, dovrebb'essere una
rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello,
che copriva la mensa d'un uomo, che era sobrio per potere esser forte
contra gli uomini[103]; che si accontentava di essere un povero
Fabricio, perchè fosse un potente Romano. Le idee dì cui si componeva
il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti,
superficiali[104]; quelle di Federigo, umane, gentili, benevole,
profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio dette quelle
prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire
manifestamente quel suo animo: ivi, all'udire le dottrine epicuree
esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli
antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni[105]: Oh Ercole! (il santo
era degno del voto) oh Ercole! diss'egli, fa che queste dottrine sieno
ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo
romano. Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè,
se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi
nemici, ai nemici del suo popolo. Egli desiderava la giustizia, la
fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per la
gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a
promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale, nè aristocratica,
egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne
un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per
dividere la condizione dei suoi fratelli poveri e per migliorarla. A
dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica,
Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio, o, per meglio dire,
Federigo era veramente grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto
può stare con un sì misero sostantivo[106].


XVII.
LA CARESTIA DEL 1628--RAGIONI, RIMEDI E MOTI DELL'OPINIONE PUBBLICA
NELLE CARESTIE.

Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata
piuttosto scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni
grassi antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di
quello e la popolazione era giunta al nuovo raccolto non satolla e non
affamata, ma certo affatto sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto, nel
quale erano riposte tutte le speranze, fu scarso, come abbiam detto, e
lo fu d'assai più del primo, in parte per maggiore contrarietà delle
stagioni, e in parte per colpa orrenda degli uomini. Si guerreggiava
allora in Italia, e non lontano dal Milanese, il quale si trovò
soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie.
Queste furono tanto intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il
guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte possessioni
erano rimaste abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini
erano andati accattando quel vitto che avrebbero procacciato a sè
e ad altri col lavoro delle loro braccia[107]. E dove pure s'era
coltivato, le seminagioni erano state scarse, perchè l'agricoltore,
tentato dall'urgente bisogno, aveva sottratta e consumata una parte e
la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle. Ottenuto
appena il raccolto, la guerra stessa, che era stata la principale
cagione a renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte. Le
depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento
infinito delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel
misero raccolto, che la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe
stessa. I territorj che circondano il Milanese, in parte afflitti dalla
guerra, e tutti dalla sterilità comune di quell'anno, non lasciavano
speranza di cavarne ajuto di viveri. Sorse quindi quel sentimento di
ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele in alcuni, che
nasce da una cognizione confusa, ma viva, della sproporzione tra il
bisogno di nutrimento e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame:
e questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile:
la ricerca premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il
rincaramento.
Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra,
perchè pesano ad un tempo sur una moltitudine: quando un tal male
esiste, i migliori mezzi per alleggerirlo, (giacchè toglierlo non è in
potere dell'uomo) sono tutte quelle cose che possono diffonderlo più
equabilmente, farne sopportare al maggior numero, a tutti i viventi, se
fosse possibile, una picciola porzione, affinchè a nessuno ne tocchi
una porzione superiore alle forze dell'uomo; fare che quel male sia
un incomodo per tutti, piuttosto che l'angoscia mortale per molti; e
la morte per alcuni. Quindi il primo, il più certo e il più semplice
mezzo di alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi,
che si privino di una parte di nutrimento per lasciarne di più alla
massa del consumo universale. Poi tutto quello che può aumentare nelle
mani degl'indigenti i mezzi di acquistarsi il vitto, in proporzione
dell'aumento delle difficoltà, cioè del rincaramento. Aumento quindi
delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per mezzo di nuovi lavori
ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i guadagni
usati. Questo mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un
accrescimento del male, se non fosse accompagnato dalla cura attenta,
assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che per debolezza,
o per infermità, non lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero
allora dei lavoratori ben nutriti e degli impotenti morti di fame: e
la beneficenza sarebbe crudele per molti[108]. A questi ultimi non si
può provvedere altrimenti che con l'elemosina, tanto sapientemente
comandata dalla religione: quella elemosina di cui molti scrittori
hanno enumerati e censurati amaramente gli abusi. Nè a torto; poichè
è utile scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però
cosa trista e dannosa che in soggetto di tanta importanza non si sieno
quasi considerati che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcune
pigliasse la bella e forse nuova impresa di ragionare del buon uso
della elemosina, di mostrare com'ella sia uno dei mezzi più potenti,
più semplici, e certo più irresponsabili a tutti quei fini[109] che si
propone una saggia e ragionata economia pubblica.
Questi, che abbiamo accennati, sono certamente i principali e più
sicuri rimedj alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero
posti in opera, il meglio da farsi sarebbe sopportare quella parte
inevitabile di patimento con tranquillità e con rassegnazione, giacchè
tutte le ire, tutte le declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non
ponno far nascere una spiga di frumento, nè accelerare di cinque minuti
il nuovo raccolto, che deve mettere alla disposizione degli uomini una
nuova massa di sussistenza.
Ma, oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo,
e moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista
e complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi mezzi
sono stati, per l'ordinario, più adoperati dei primi, e sì possono
ridurre a due capi principali: le idee del popolo, e i provvedimenti
dei magistrati. Nella epoca di cui parliamo, le idee e i provvedimenti
concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado
singolare.
Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tatti i discorsi:
fatto ben naturale, ma degno di molta osservazione e di commento.
Tutti ragionano delle cause del male, tutti propongono i veri rimedj,
tutti dissertano di principj generali, di commercio, di monopolio, di
accapparramento, di importazione, di esportazione, di circolazione.
Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita sua di questa
materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei principj
precede alla ricerca di essi. Guaj allora a quegli che hanno pensato
a questi principj nel tempo in cui nessuno vi pensava; guaj a quegli
che dànno più degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti
proferiscono; guaj a quegli che hanno esaminati con una vista generale
i fatti che sono l'argomento della discussione comune! Essi soli non
sono ammessi a parlare: essi debbono vedere pazientemente discorrere
i sofismi precipitati e baldanzosi della ignoranza, perchè chi può
fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non
si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che le si fa di
essere stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in
quelle dolorose circostanze è quella della irriflessione: ma cessata
la carestia, cessano tutti i discorsi; nessuno ne vuol più parlare, nè
sentire a parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino
di quella materia, sono per lo più un soggetto di contraddizione per
un momento, e rimangono dopo quasi dimenticati: la società è in quel
caso simile ad un povero scapestrato, il quale, trovandosi all'estremo,
non ha parlato d'altro che di novissimi e di penitenza; convalescente,
accoglie ancora il prete per urbanità; guarito, allontana da sè tutti i
pensieri di quel momento del terrore.
Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo
che non ha mai avuto maestri, nè ozio; l'irritazione fanatica ad un
popolo che non trova pane col suo lavoro. Ma quegli che meritano
rimproveri acerbi e severi, quegli che per utile loro e d'altrui
vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci caparbj, tanto che si
correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a loro agio
sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che
ne hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e
procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma, al
momento del serra serra, escono in campo a sentenziare furiosamente,
cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono,
vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero,
ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizj storti,
le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la
stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj
che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale sulla natura
e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione
più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano: e
infervorati in queste degne imprese non si spaventano col pensiero
della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria e di fiducia;
e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle obiezioni, perchè di
rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo) rispondono con
quell'inverecondo sproposito: noi non vogliamo teorie; non riflettendo
nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie;
diverse da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono
fondate sulla cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.
Le storture del popolo e di questi che abbiamo detto intorno alla
carestia sono molteplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni
e nei loro rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni
libri che le hanno esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza
che profitto; ma si possono forse ridurre a due capi principali.
Il primo è l'opinione che il male non esista, che il difetto di
sussistenze sia soltanto una apparenza, nata da combinazioni perfide
degli uomini. Questa opinione viene sempre espressa e ripetuta con
una formola concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o un
equivoco: il grano c'è. Proposizione ambigua, che può intendere una
verità fatua e inconcludente, o una affermazione temeraria e fanatica.
Poichè se con quelle inconsiderate parole si vuol dire che esiste
una indeterminata quantità di biade, si dice il vero, ma che cosa
s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è, nè può essere
la questione. Ognun sa che i grani si raccolgono una volta l'anno, o
a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto
e l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse
assolutamente, non si parlerebbe più di stentare, ma di morire, e
tutti, e in pochi giorni. Se poi dicendo: il grano c'è, s'intende (come
s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario,
proporzionata al bisogno, o al desiderio della popolazione; come mai
una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter conoscere, senza
cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità
del grano esistente? Eppure un fatto, che con le più minute indagini,
coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce
mai con precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza
indagini, senza calcoli, senza esame: un fatto, che appena si può
conoscere approssimativamente per gli indizj del prezzo, della ricerca,
della distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra la
testimonianza di tutti questi indizj.
L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale, è nel
supporre che il male sia il caro prezzo del grano: mentre questo
non è che un effetto del male vero, la sproporzione tra il grano
e il bisogno; è un effetto, e un doloroso, deplorabile, funesto,
acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete, non saranno mai troppi: ma
il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo è un rimedio, considerato
parzialmente per un territorio, perchè vi attrae il grano dai paesi
dove è meno scarso, e quindi a minor costo: è un rimedio considerato
generalmente, perchè, forzando pur troppo migliaia d'uomini a
diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si risparmj,
si distribuisca per tutto l'anno fino al raccolto la scarsa e mancante
vittovaglia. Se una forza qualunque potesse illudere, addormentare
fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un
anno, scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni
abbondanti, ne avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi
fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe
lietamente a discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di
questo terribile beneficio sarebbe di fare sparire tutta la provvigione
qualche mese prima del raccolto.
Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due
storture è accetto al popolo, che patisce; e la cosa è troppo naturale:
non riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo
tutto alla perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una
compassione, che pare più sincera per chi soffre, un grande orrore
per chi fa soffrire, e fanno sempre intravedere la possibilità d'un
rimedio pronto ed assoluto. Ma quegli i quali veggono chiaramente la
realtà del male, non hanno cose gradite da dire a chi lo sopporta;
poichè chi, dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per minorare il male,
confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può
difficilmente far credere che compatisce chi nega all'addolorato che
la causa prima, unica del suo dolore, sia nella volontà scellerata
di alcuni; converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perchè
l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami
atroce, fautore, complice di quelli che creano il dolore. Sono i
chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al letto d'un
infermo circondato da una famiglia amante e ignorante, dove si trovi un
ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella cecità, o nella
impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la salute. Se
il medico, il quale vede che la malattia è incurabile, si lascia uscire
dalla chiostra dei denti questo suo parere, la famiglia lo riguarderà
come un pazzo crudele che desidera di veder morire le persone.
Queste false idee che, a malgrado di tanti scritti ragionati e
dell'aumento di tante cognizioni, vivono tuttavia latenti e come
addormentate nella mente di moltissimi, pronte a ricomparire quando una
penuria (che Dio tenga lontana) dia loro occasione di mostrarsi, erano
ben più universali, più pertinacemente tenute, più furibondamente
applicate nei tempi della nostra storia, nei quali l'ignoranza era
tanto più generale, e la scienza, che era pure di pochi, consisteva in
un peripateticismo, inteso come si poteva e applicato come si voleva
a tutte le questioni possibili di ogni genere, in tempi in cui non
esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta
in trattati, perchè l'economia politica di fatto esiste nella società
necessariamente, più o meno spropositata.
Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità
del raccolto, avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della
soldatesca, e gli sventurati abitanti della città le avevano pure
intese raccontare: ma quando la carestia cominciò a farsi sentire,
nè gli uni, nè gli altri volevano accagionare di un tanto male una
causa passata e irrevocabile. Come se non avessero veduto nulla, o
tutto dimenticato, attribuivano il caro prezzo soltanto alla crudele
ingordigia di quegli che possedevano il grano. E una circostanza
speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più freddamente,
se l'esame freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente
era pure stato scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra
gli accapparratori come contra la sola cagione della carezza; si era
detto che il grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato
nei granaj degli avari. Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo
raccolto; sarebbe stata cosa molto naturale ricercare se quel grano
era stato finalmente venduto, o no. Nel primo caso, avrebbero dovuto
gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati nell'affermare
che il grano abbondava, poichè s'era venduto a caro prezzo fino al
raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente
non era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj
erano occupati; come dunque potevano essi fare ancora nuove incette?
Ma la popolazione, sfogando sempre il suo dolore con imprecazioni,
non pensava che le ultime contraddicevano alle prime. Si diceva anche
che molti accapparravano i grani per ispedirli in altri paesi; e in
questi altri paesi si gridava che i grani erano spediti a Milano.
Tutti quelli che ne possedevano erano oggetto di minaccia e di
abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni; quegli
che lo comperavano per rivenderlo, mostri addirittura; i fornaj che ne
facevano provvista, scellerati che volevano ritirarlo dal commercio
e imporgli il prezzo che sarebbe piaciuto alla loro avidità. Che
ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli necessaria fino al
raccolto, era cosa impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto
o potuto rendersi un conto esatto delle sue idee e dei suoi desiderj,
avrebbe trovato ch'ella voleva che il grano non fosse in nessun luogo.
Il prezzo, straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe
nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare dell'inverno, e
col prezzo crebbe il fremito e il clamore del popolo, il quale accusava
già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di connivenza, con
coloro che lo affamavano.
Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro
molti spropositi; ma questi erano, in numero e in grossezza, ancora
ben lontani dai desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio
delle cose forza a riflettere anche quelli che sono più nemici
della riflessione; e chi deve operare o comandare direttamente
scorge talvolta, anche a mal suo grado, anche chiudendo gli occhi,
l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento che è domandato con
furore dai molti che lo stimano giusto, e lo credono agevole. Oltre
di che, l'effetto immediato di quegli spropositi era di esacerbare la
condizione universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si
attribuiva non già alla efficacia funesta degli spropositi fatti, ma
al non farne abbastanza[110]. Era stato tassato il prezzo massimo del
riso a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano[111]:
la conseguenza fu che quegli che possedevano riso e potevano venderlo
a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un
grano alla città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che
tassa il riso allo stesso prezzo massimo per tutto lo Stato: altra
conseguenza, che i possessori ricusino di vendere ad un prezzo
comandato quella merce a cui la rarità ne ha assegnato un maggiore.
Ordine di vendere il genere a chiunque ne offra il prezzo tassato:
industria dei possessori a nasconderlo, per poter rispondere: non ne
ho. Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova
industria, nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare
le pene senza esser danneggiato. Comparvero allora, come dovevano
comparire, di quegli uomini i quali conoscono a perfezione l'arte
di eludere gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti
sono assurdi. Costoro, osservato lo stato delle cose, fatte le loro
ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto maggiore
dell'assegnato arbitrariamente, si poteva fare ancor molto guadagno:
offersero quel prezzo ai possessori, i quali non rispondevano di non
aver riso da vendere a chi lo pagava più di quello che comandava la
legge. Questi nuovi compratori trovavano poi il modo di rivendere il
riso a maggior prezzo agli Stati vicini, dove non v'era tassa, o di
conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo consiste, come ognun
sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde è uscita la legge,
quanto le volontà molteplici, varie, più vicine, che debbono eseguirla,
e nel trovare i mezzi di eludere queste volontà, o di comperarne la
complicità.
Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come
il possederli, il farne commercio, era un rischio dell'avere e della
persona, un soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un
marchio d'infamia, così avvenne che questo commercio non fosse quasi
più ricercato che dagli uomini i più esperti ad eludere il rischio,
i più agguerriti contra l'odio e contra l'infamia; i quali sapevano
come tutte queste cose, affrontate e sofferte con una certa sapienza
particolare, possono fruttare danari.
La scarsità del frumento e i mezzi posti in opera per renderlo più
comune lo avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante. Si vendeva
cinquanta lire il moggio, se crediamo al Ripamonti, allora vivente:
settanta, anzi ottanta, se vogliamo stare al detto di Alessandro
Tadino, medico riputatissimo di quei tempi, che scrisse anch'egli
(a dir vero, con le gomita) una storia della peste e della carestia
che l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di
quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da porre in
angustia una gran parte della popolazione.
I mali nei loro cominciamenti producono nell'uomo, generalmente
parlando, una irritazione più forte del dolore. Sclama egli, da prima,
che i mali sono intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto
fa, tanto s'ingegna, tanto s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea
egli questo estremo, che naturalmente non sarebbe arrivato: s'accorge
allora che si può soffrire molto di più di quello ch'egli aveva creduto
dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà dì patire e di
accomodarsi, ch'egli non sospettava in sè stesso; e salta per lo più
dalla rabbia all'abbattimento, senza aver toccata la rassegnazione.
Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo
secondo i suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che,
assecondandole, gli procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva
succedere un nuovo dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza
del delitto, lo spavento delle pene, e quindi la tranquillità stupida
della disperazione impotente.
Il governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava
allora a campo sotto Casale, per una guerra, atroce nella condotta,
orrenda nelle conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei quali
parleremo più tardi e più laconicamente che sarà possibile[112].
Nella sua assenza governava lo Stato il gran cancelliere Antonio
Ferrer. Questi, stordito dai richiami continui e crescenti del popolo,
stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati, invece di
togliere il male, lo avevano accresciuto, non sapendo più che fare e
persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al partito
di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di
determinazione: fece un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse
trentatre lire il moggio, nè più nè meno. Ammessa l'ipotesi, tutte
le cose si raddrizzavano e correvano a verso. Il prezzo del pane si
trovava proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano
quindi i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere.
Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato,
Antonio Ferrer fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si
sarebbe ricondotto se si fosse potuto far discendere il pane al prezzo
corrispondente a quel prezzo ipotetico del frumento. Procedendo col
pensiero, trovò che un suo ordine poteva produrre questo effetto; e
conchiuse che bisognava dar l'ordine. Il pover'uomo non badò che
cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto, operare come se le cose
fossero in uno stato diverso da quello in cui erano: non pose mente
a distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto
fosse stato conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca e la
quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non pensò
a niente di tutto questo; fece come una donna di mezza età che per
ringiovinire alterasse la cifra della sua fede di battesimo. L'ordine
fu dato, promulgato ed eseguito.
Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella
natura stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza
esecuzione, ma alla esecuzione di questo vegliava il popolo, il quale,
come era ben naturale, l'aveva accolto con un grido di esultazione; e
vedendo finalmente esaudito e convertito in legge il suo desiderio,
non sofferiva che fosse da burla. Il popolo accorse tosto ai forni a
domandare il pane a quel prezzo legale, e lo domandò con quell'aria di
risolutezza e di minaccia che danno la forza e la legge insieme unite.
Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che
strillassero i fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello
era il caso di fare soffrire un picciol numero per sollevare e
tranquillare una gran moltitudine: ma il male era che questo picciol
numero era appunto quello che doveva e che poteva solo dare in fatto
quello che la legge comandava e prometteva in parole; e a produrre
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