Alle porte d'Italia - 14

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pastori delle capanne di Soiran, dell'Infernet, di Giacet, della Cella,
della Cella veia; e ascoltandolo, provavo un senso d'ammirazione,
e anche una certa tristezza, a pensare che, mentre io ero nel mio
studio, al caldo, a giocare con l'immaginazione, lui, quell'uomo così
colto e gentile, se n'andava su per i monti, per sentieri dirupati,
in mezzo alle nevi, incontro ai venti gelati, tutto solo, con un
pezzo di pane e con la Bibbia, a predicare la bontà, la rassegnazione
e la preghiera. Ma al vedere com'egli parlava della sua solitudine
e delle sue fatiche con assai più compiacenza ch'io non provi mai a
parlar dei miei giochi, mi rimaneva ancora l'ammirazione, ma scappava
la tristezza, per ceder il posto all'invidia. Sì, quel buon pastore
m'era così simpatico, il suo aspetto e la sua voce eran così dolci,
mi ridestavano così vivamente nel cuore dei sentimenti, o piuttosto
degli echi di sentimenti morti o sopiti da molti anni, che se fossi
stato solo con lui.... non so, gli avrei forse preso la mano come a
un amico, e gli avrei detto: — Vediamo.... parli.... mi persuada....
il mio cuore non è mai stato così ben disposto a sentire, e mi pare
che non ci sia più altra voce che la sua da cui io possa ancora sperar
qualche cosa.... — Chi sa mai come m'avrebbe guardato, che cos'avrebbe
risposto, in che maniera, con quali parole incominciato? Io mi facevo
queste domande, fissandolo, quando egli s'alzò, per condurci sul
piazzaletto del tempio, dove giocavano alcuni bambini valdesi. Proprio
sotto, ai piedi della rocca, c'è la chiesetta cattolica, consacrata
alla Madonna delle Grazie e a San Carlo, scolorita e triste dirimpetto
al tempio nuovo, variopinto e trionfante, e pareva che l'uno e l'altra
si guardassero minacciosamente con l'occhio del loro finestrino
rotondo, quella per slanciarsi all'assalto, questo per farle fare il
ruzzolone. Dio buono! Quanto parevan piccini, in fondo all'abisso,
ai piedi di quelle grandi montagne, quei due mucchietti di pietruzze,
ciascuno dei quali diceva all'altro: — Io son più vicino al cielo di
te! — Ma bastava dare uno sguardo in giro, sui pochi contadini valdesi
e cattolici, che passavano, per accertarsi che non c'è più lotta se
non fra le facciate dei due edifizi. Passavano lentamente e a lunghi
intervalli, salutandosi con un cenno del capo, uomini e donne, con
gli strumenti del lavoro sulle spalle o con la calza tra mano, quasi
senza guardarsi, come persone d'una sola famiglia che girassero per la
casa; e dal viso di tutti, e dai loro movimenti s'indovinava la quiete
infinita della loro esistenza. Essi vivon là, infatti, come il presidio
d'una fortezza solitaria, non visitata che da pochi curiosi, che ci si
trattengono un'ora, in una sola stagione dell'anno. Pochi vanno qualche
volta a Torre Pellice; pochissimi, più di rado, fino alla grande città
di Pinerolo; e si contan certamente sulle dita quelli che sono arrivati
fino alla lontana e immensa Torino. Una cresciuta del torrente,
la caduta d'una valanga, un matrimonio, una morte, sono i grandi
avvenimenti di cui discorrono per mesi, intorno ai lumicini fumosi che
rischiarano le loro lunghe veglie invernali. Delle più grandi cose che
accadono fuori della loro valle, a loro non arriva che un rumor fioco
e confuso, come d'un lontano mare agitato. Il socialismo trionfante
potrà sconvolgere il mondo: essi appena se n'accorgeranno. Dalla casa
al tempio, dal torrente al pascolo, dall'orto al castagneto, tutti
i giorni fanno i medesimi passi, volgendo in mente le medesime idee,
dicendosi, quando s'incontrano, le medesime parole. I loro bisogni non
sono che un po' di pane, un po' di fuoco e il sermone del pastore.
Quand'hanno avuto questo per sessant'anni, muoiono senza lagnarsi
della vita. E dire ch'è per aver questo, non altro, che hanno lottato,
sanguinato e pianto per quattrocent'anni!
*
* *
Avremmo voluto trattenerci ancora un pezzo in quella pace profonda; ma
vedendo che i tappeti d'oro distesi qua e là fra i castagni sparivano
l'un dopo l'altro rapidamente, ci mettemmo in cammino per il ritorno.
Ripassammo sotto le roccie enormi, tornammo a sentire quel fragoroso
diluvio d'acque. La valle era già rotta da vaste ombre nere, in cui
si vedevano appena le case, come macchie più nere; le cime petrose dei
monti erano di color rosa e di porpora; la via, anche più solitaria che
la mattina. Per due miglia di cammino, non udimmo che il tintinnio di
qualche sonaglio di pecora o di capra, invisibili, e a grandi distanze,
il canto d'una gallina o il latrato d'un cane, che risonavano in tutta
la valle, come ripercossi da cento echi. Risalutammo Serre, rivedemmo
la roccia della fata.... Due dei quattro viaggiatori avevan già
l'aspetto e l'andatura dei due crociati dell'arcidiacono di Cremona,
dopo la disfatta famosa delle Rocciaglie. Ma la vista della piazzetta
di Angrogna li rimise su, come l'apparizione d'una bella signora
alla finestra. Là il signor Bonnet ci fece vedere due curiose pietre
storiche: una rotonda, confitta nel suolo, sulla quale è tradizione
che il popolo facesse batter le mele (senza buccia) ai debitori
insolventi, come già facevan i fiorentini ai falliti sul lastrone di
Mercato nuovo; l'altra, della forma d'una lastra da tavola, sostenuta
da un pietrone diritto, intorno alla quale si dice che venissero i
litiganti, in presenza d'un pastore, o d'un vecchio autorevole, a dire
le loro ragioni; il perchè si chiama ancora la pietra della ragione;
ma nè l'una nè l'altra portando traccie di melate o di pugni, si può
credere che tra i Valdesi antichi fossero diffuse molto le due rare
virtù di pagare i debiti e di discutere con pacatezza. La piazzetta era
solitaria come la mattina.... Ma quel diavolo d'operaio cantava ancora,
con la stessa lena e con la stessa allegrezza della mattina! Pareva che
non si fosse mai chetato per tutte quell'ore, e che avesse a continuare
così per anni e anni per schiattare poi tutt'a un tratto come una
cicala. Invidiabile fine! Io che ho tanta paura di dever cessar di
cantare avanti di morire!
Prima di separarsi da noi, il signor Bonnet ebbe la gentilezza
di condurci a casa sua: una casetta bianca, con un muro coperto
di pampini, divisa in piccole stanze linde e chiare, arredate con
semplicità graziosa, e rallegrate da voci di fanciulli e dalle note
d'un pianoforte. Non avremmo potuto chiuder meglio la nostra giornata
che in quella casa sorridente, in mezzo a quella famiglia amabile, in
cui il ministero del padre diffonde come un riflesso di dignità e di
serenità religiosa. Ma io ebbi la cattiva idea di chiedere al pastore,
e di sfogliare un vecchio librone, che non avevo potuto trovare in
commercio: la storia valdese di quel celebre pastore Léger, che visse
nel diciassettesimo secolo, e che ebbe parte importante in molti
avvenimenti, tanto che la corte di Torino mise la sua testa al prezzo
di ottocento ducati. La sua storia tratta con particolare diffusione
delle stragi di Pasqua, riporta deposizioni di testimoni oculari dei
fatti, illustra i fatti con delle incisioni. Dicono che è uno storico
partigiano e leggiero, e che ha detto molte bugie, e fatto molte
frangie. Non lo so. Certo è che non ha mentito in tutto, e che parecchi
di quei disegni rappresentano il vero, pur troppo. Vorrei non averli
guardati. Credevo d'essere andato molto in là coll'immaginazione; ma
dovetti riconoscere che certe cose non si possono immaginare. L'autore
di quei disegni deve aver visto certamente come si torce e come gira
gli occhi una creatura umana sul rogo. Io darei non so che per poter
cancellare dalla mia memoria quelle immagini che son certo di non mai
più dimenticare. E poi all'idea di certi spasimi, di certi dolori si
può resistere coll'immaginazione, facendo uno sforzo; anche all'idea
del rogo. Ma, Dio eterno! quella di vedere, per una via già chiazzata
di sangue, fuggire i propri bambini, bianchi, impazziti dallo spavento;
vederli raggiunti e afferrati; vedere in quei corpicini amati, che
abbiamo coperti di baci, cullati, scaldati col nostro fiato, difesi
con mille cure da un soffio d'aria, per tanti anni, vederci entrare,
frugare delle mani e dei coltelli, e udire le loro grida, e sentirsi
chiamare per nome e non poterli difendere, non poterli vendicare, non
potersi muovere, non poter urlare, e dover star lì, a veder tutto,
e morire.... Ah! non regge neanche l'anima d'un eroe a questa idea,
bisogna scacciarla, scacciarla per non piangere, per non maledire,
per non pigliare in odio il genere umano e la vita, per non lasciarsi
sfuggire dalla bocca le più orrende bestemmie che sian mai risonate
sotto la vòlta del cielo!
Ma come scacciarla? Quell'idea m'accompagnò per tutta la strada,
molto tempo dopo che il caro signor Bonnet ci aveva lasciati, e mi
tenne inchiodata la bocca; e anche i miei compagni tacevano, per la
stessa cagione. C'era un solo pensiero che potesse rifarmi l'animo,
e mi ci attaccai fortemente; il pensiero di quello che era avvenuto
cento novantatrè anni dopo, il giorno 28 di febbraio del 1848, quando
la deputazione dei Valdesi, andata a Torino per festeggiare quello
Statuto che li rendeva liberi per sempre, moveva da porta Nuova per
far la sua entrata solenne nella città. Eran più centinaia di persone;
portavano uno stendardo di velluto con una iscrizione in argento: _A
Carlo Alberto i Valdesi riconoscenti;_ li precedeva un drappello di
ragazze valdesi, vestite di bianco, ciascuna con una bandiera. Già,
per tutto il viaggio dalle valli a Pinerolo, e di qui a Torino, erano
stati accompagnati con le fiaccole e con le musiche, festeggiati
come fratelli che ritornassero da un lungo esilio immeritato. Ma
l'accoglienza che ebbero entrando in Torino fu ben altra cosa. Il
popolo li acclamò con indicibile affetto, le signore sventolavano
i fazzoletti, da ogni parte piovevan fiori, i torinesi rompevan la
processione per abbracciare i vecchi e accarezzare i giovanetti;
perfino dei preti si slanciavano in mezzo a loro e gettavan le braccia
al collo ai primi venuti; molti di essi piangevano. Carlo Alberto volle
che sfilassero per i primi sotto il balcone reale, in quella piazza
Castello dove erano stati bruciati i loro padri. — Sono stati per
troppo tempo gli ultimi, — disse; — è giusto che oggi siano i primi. —
E passarono i primi tendendo le braccia verso il loro re, salutati da
un altissimo grido della moltitudine, circondati, baciati, apostrofati
con parole in cui si sentiva il tremito di chi domanda perdono, e a
cui essi rispondevano con le lagrime agli occhi, con gesti concitati
e gioiosi che volevan dire: — Non abbiamo nulla da perdonare, non ci
ricordiamo più di nulla, siamo fratelli, abbiamo una sola patria, un
solo nemico, un solo avvenire! — Oh bei momenti della vita dei popoli,
belle ore gloriose del cuore umano, pagine d'oro della storia della
civiltà, siate ricordate, amate, benedette in eterno! E benedetta tu
pure, bella e nobile val d'Angrogna, che negli annali della grande
guerra per la libertà dell'anima hai scritto col sangue dei tuoi
pastori una parola vittoriosa e immortale.


LA MARCHESA DI SPIGNO

“Nata dai nobili Canalis di Cumiana, damigella d'onore di Madama Reale,
sedotta, ancor giovinetta, da Vittorio Amedeo II, sposò il conte di
San Sebastiano, del quale rimase vedova, con molta prole, nel 1724.
Nominata allora dama di corte, accesa dalla speranza del trono, con
mille arti fecesi riamare e segretamente sposare dal sovrano; il
quale la investì del marchesato di Spigno; ma avendo subito appresso
abdicato, dovette ella con molto dispetto e rammarico ritirarsi con
lui in Savoia. Impaziente però della solitudine e smaniosa di regnare,
eccitò il re abdicatario a riprendere la corona al figliolo. Onde,
tornati insieme in Piemonte, e imprigionato Vittorio Amedeo a Rivoli,
fu rinchiusa nella fortezza di Ceva, per esser poi restituita al
marito prigioniero di cui assistette alla morte; dopo di che venne, per
ordine di Carlo Emanuele III, relegata nel monastero delle Salesiane
di Pinerolo, dove chiuse i suoi giorni. Donna d'ambizioso e temerario
animo, e di triste memoria.„
Niente di meno. Io stavo appunto rileggendo, per caso, quei quattro
periodi in cui è così brutalmente strozzata la storia d'una vita di
novant'anni, piena di grandi casi e di grandi dolori, quando entrarono
nel giardino della villa una signora e una signorina, nostre amiche
e vicine, ad annunziarmi che la superiora delle Salesiane aveva
cortesemente acconsentito a ricevermi nel parlatorio, e a dirmi quanto
si sapeva nel monastero intorno alla marchesa di Spigno. Era una
graditissima notizia. Chi sa, pensavo, ch'io non riesca a fare almeno
uno sbrano nel velo di mistero che copre quella benedetta marchesa,
tanto discussa, tanto maltrattata, e così poco conosciuta! Perchè
nè le storie di Casa Savoia, anche le più minute, nè il romanzo del
Dumas, nè il racconto del Rabou, nè la novella storica del buon teologo
Viglierchio, nè la bella monografia di monsignor Bernardi, nè gli
altri scritti che trattano di quel periodo storico, ci danno più che
delle congetture per quanto risguarda “il cor profondo„ e la giusta
misura di colpevolezza della celebre signora; la quale non lasciò una
sola lettera, ch'io sappia, in cui si riveli tutto o in parte l'animo
suo, e neppure un suo sentimento passeggero. Quello che si sa di certo
è che era bella “d'una bellezza ribelle agli anni,„ come dice uno
storico illustre, “pericolosa all'età prima e alla matura.„ E bisogna
che fosse bella veramente, se, già vicina ai cinquant'anni, innamorò
ancora d'un ardente amore Vittorio Amedeo, grande conoscitore, che
aveva fatto un corso così vasto e splendido di studi, da madamigella di
Saluzzo alla contessa di Verrua, alla marchesa di Priez, alla marchesa
di Chaumont, alla contessa della Trinità; la quale non era stata nè
l'ultima nè la più ammirabile. Giovane ancora e bellissima a quasi
cinquant'anni, che maravigliosa creatura sarà stata ai sedici, quando
fece la prima apparizione alla Corte, ancora commossa dai ricordi
della battaglia terribile della Marsaglia, di cui aveva visto il fumo
e udito il fragore dalle finestre del suo bel castello di Cumiana! E
può darsi pure che tutta la sua bellezza non sia fiorita che nell'età
avanzata: era forse una di quelle opere predilette dalla natura, che
essa accarezza, ritocca e abbellisce per mezzo secolo, tormentata da un
desiderio amoroso e infaticabile di perfezione. Còlta non è credibile
che fosse, poichè sarebbe stata nel suo ceto, e in quel tempo,
un'eccezione; e non era forse in grado di scrivere una lettera, neanche
in francese, senza molti e grossi spropositi di varia categoria. Ma per
questo appunto, chi sa quali altre forze di seduzione e d'amore doveva
avere quella sua giovinezza indomabile, chi sa lo sguardo, la carezza,
la grazia delle mosse, la musica della parola, l'eloquenza miracolosa
del pianto e dell'ira, l'originalità strana dell'ingegno e la fragranza
propria, innata del suo bel corpo, cresciuto come una pianta di rosa
all'aria delle Alpi! E tutta questa bellezza, tutta questa forza,
tutta questa ambizione, salita fino all'ultimo gradino d'un trono, fu
precipitata in fondo a un carcere, e andò a finire sul catafalco d'un
chiostro. Ah! se la superiora delle Salesiane mi avesse saputo rivelar
qualche cosa!
*
* *
In pochi minuti, scendendo per un vicolo erboso e triste, arrivammo
alla porta del monastero; che è un grande edifizio nudo, posto
sulla china del colle di San Maurizio, con la facciata vòlta verso
le Alpi, circondato da un muro altissimo, intorno al quale gira una
stradicciuola solitaria. Non ci è più che poche monache; ma sempre
un buon numero di educande soggette a un tenor di vita severo; tra
le quali, in altri tempi, ci furon ragazze delle prime famiglie del
Piemonte, e principesse, che anche presero il velo, e morirono tra
quelle mura; poichè il monastero godeva della predilezione della casa
regnante. La marchesa di Spigno, lasciata libera di scegliere tra
quello e un convento di Carignano, aveva scelto quello, perchè ci
aveva due parenti. Le poche case che son là intorno, pare che faccian
parte anch'esse del chiostro: non ci si vede e non ci si sente nessuno.
Accanto al chiostro c'è una chiesetta chiusa. La marchesa doveva essere
passata per quello stesso vicolo silenzioso e malinconico. Sonammo a
una porticina, che ci fu aperta da una mano invisibile, salimmo su per
una piccola scala tetra, e passando per un'altra porta bassa e stretta,
ci trovammo in una stanza bianca, davanti a una larghissima grata
doppia, di legno grigio, simile a una inferriata di carcere, di là
dalla quale si vedeva un'altra stanza, pure bianca, e semioscura. Qua
e là, sulle pareti, ci son scritte a grandi caratteri delle sentenze
di santi. A sinistra della grata, c'è una finestra chiusa da una ruota,
come quelle degli esposti, per far girare gli oggetti di dentro, senza
che si veda in viso chi li riceve. Dall'altra parte c'è appeso al muro
un cartellino, che proibisce di dar dei confetti alle educande. La
giornata essendo coperta, ci si vedeva appena. E c'era un silenzio,
una tristezza fredda, un'espressione così severa, in tutte le cose, di
penitenza, di rinunzia al mondo e di malinconia, che quelle due signore
coi cappelli infiorati e coi vestiti eleganti ci facevano un contrasto
violento e stranissimo, come di due mascherine pompose nella stanza
mortuaria d'un ospedale. Aspettammo per molto tempo, senza trovar nulla
da dire, come già presi dalla tristezza del luogo. Finalmente, s'udì
un fruscio: comparvero due monache. Eran la superiora e un'anziana,
vestite di nero, con un soggòlo bianco, e con un velo oscuro calato
fin quasi sugli occhi. S'avvicinarono alla grata. Il velo e la mezza
luce non lasciavan distinguere nè l'età, nè la fisonomia. La superiora
doveva esser giovane. Quando aperse bocca, fui maravigliato della sua
voce dolcissima e della sua pura pronunzia toscana. Era di Pistoia. Ci
sedemmo, e cominciammo a parlare, come in confessione, a bassa voce, a
traverso ai fori della grata.
*
* *
La superiora cominciò con dire che aveva ben poche notizie da darmi.
Essendo state costrette parecchie volte a sgomberare in fretta e
in furia il convento, per cagione delle guerre, le monache avevan
perduto molte carte importanti, ed anche degli oggetti preziosi; fra
i quali dei doni della marchesa di Spigno. Il ricordo più notevole
che rimanesse di lei era un ritratto a olio, di grandezza naturale,
che si diceva somigliantissimo e che doveva essere stato fatto prima
della sua entrata in monastero, perchè non si poteva supporre che, nel
monastero, si fosse fatta ritrarre con quel vestimento. Era forse del
tempo in cui credeva di diventar regina, chè allora aveva la passione
dei ritratti; in uno dei quali si fece dipingere in piedi, con la mano
distesa sopra il diadema. La superiora mi domandò se lo volevo vedere.
Non aspettavo altro: una monaca, che non vidi, lo portò su dal piano
terreno e lo fece passare nello spiraglio tra la ruota e il muro; la
signorina lo prese e lo appoggiò alla spalliera d'una seggiola a cinque
passi da me, rivolto verso la finestra; e io ci fissai gli occhi su,
avidamente.... Bella.... Bella.... Cioè, non so. Seducente, senza
dubbio. Una testina, un visetto pieno di grazia, di grilli, di vezzi,
di sorrisi sfuggevoli, di sottintesi arguti, di piccole minaccie e
di piccole carezze, gli occhi neri e grandi, un nasino patrizio, una
boccuccia amorosa e maliziosa, un bel collo lungo, una vita snella
e diritta, che fa indovinare un'alta statura, e un corpo leggero e
pieghevole, d'una eleganza altera, il quale si possa afferrare e levar
su con una mano, come un arboscello, e che debba essere irresistibile
nei movimenti della contraddanza e quando s'abbandona sui guanciali
della carrozza. Bellissima no; ma simpatica, bizzarra, salata, come
dicon gli spagnuoli, un misto curioso di tipo francese e di tipo
italiano, una fisonomia che rivela un sangue bollente e una volontà
risoluta, e la consapevolezza della propria potenza; uno sguardo che fa
aspettare un parlare stringato e concitato, tutto frasine scintillanti
e scherzi acuti, e parole che infochino l'anima, all'occasione. Una di
quelle figure che vedeva sognando Enrico Heine, quando sonava certi
pezzi il Paganini, adagiate sopra un canapè in una stanza decorata
alla Pompadour, con molti piccoli specchi e piccoli amori, in mezzo
a un grazioso disordine di porcellane chinesi, di ghirlande di fiori,
di trine lacerate, di guanti bianchi e di perle. Ha una foggia strana
di pettinatura, rotonda e altissima, a trecce ravvolte, della forma
d'un turbante enorme; dal quale vien giù un velo trasparente che le dà
l'aria d'una musulmana; un vestito di broccato azzurro ricamato a fiori
d'argento, e un manto di velluto vermiglio ornato d'ermellino, del
quale stringe un lembo con la mano sottile. Ha l'aspetto d'una grande
signora; ma d'una signora salita più alto dei suoi natali, e che abbia
la coscienza di star degnamente dov'è salita; e si capisce ch'è salita
per l'amore. Si capisce come Vittorio Amedeo potesse credere ch'ella
sarebbe bastata a riempirgli la vita nella solitudine di Chambéry.
Si prova un rammarico di non averla vista viva. E si vorrebbe dire
molte cose alla sua immagine, come si sarebbero dette a lei vivente;
e non parole timide e ossequiose, ma brillanti, ardite, argute, per
farla ridere, per parerle spiritosi, festosi e amabili, e piacerle a
qualunque costo, e ottenere un lembo di quel velo bianco da stropicciar
fra le dita e la bocca. Non una donna bellissima; ma che sarebbe meno
seducente e meno terribile, se fosse più bella.
— Sappiamo poca cosa, — disse la superiora, dolcemente. Quello
che si sa di certo, perchè è scritto nelle memorie del monastero,
è che l'annunzio della sua venuta arrivò alla superiora quasi
improvvisamente, pochi giorni dopo la morte del re Vittorio Amedeo, in
modo che ci fu appena il tempo di far sgombrare e rintonacare alcune
stanze al piano terreno, e di metterci un poco di mobilio. A che
ora sia arrivata e da chi accompagnata, non si sa. Era un giorno di
novembre del 1732. Ci si dice che fosse una mattina di domenica. Ma non
lo potremmo assicurare.... La superiora d'allora era la madre Chiara
Maria di Luserna....
Mentre la superiora parlava con quella voce soave e monotona, io
continuavo a guardar fissamente la tela, sempre più attirato da quella
singolare bellezza. E come avviene sovente, che a furia di fissare
un ritratto pare che gli occhi s'avvivino, che le labbra fremano,
che i muscoli guizzino e che da un momento all'altro debba uscir
dall'immagine la parola, così avvenne a me. Intorno non c'era nulla
che mi distraesse: in capo a pochi minuti mi parve che il ritratto
s'animasse. E come da molti giorni pensavo quasi continuamente alla
marchesa di Spigno, studiandone l'animo, attribuendole pensieri,
sentimenti e parole, così mi seguì quello che segue a tutti qualche
volta, di far parlare dentro di noi una persona familiare, e di starla
a sentire con attenzione, come se fosse veramente lei che parlasse,
e senza intervenzione alcuna, fuorchè passiva, della nostra facoltà
intellettuale. La marchesa mi fissò, il suo sguardo prese a poco a poco
un'espressione severa, la sua bocca s'atteggiò a un sorriso di ironia
e di disprezzo: poi, tutt'a un tratto, arrossì come d'una fiammata di
sdegno, e sprigionò un torrente di parole.
— Eh bien! Que voulez-vous? Êtes-vous encore un historien de la
maison de Savoie? Êtes-vous un officier des gardes déguisé, venu
pour surveiller mon portrait? N'est-ce pas encore assez de vous
être acharnés pendant cent cinquante ans contre une pauvre femme
que personne ne défend? Mais c'est honteux, à la fin! Je suis lasse
de traîner dans vos romans et dans vos sottes histoires, pleines de
calomnies et de mensonges! Pourquoi donc êtes-vous si impitoyables
avec moi, vous qui êtes si flatteurs pour tant d'autres? Allez, allez
faire vos romans sur la comtesse de Verrue. Je ne suis pas assez
intéressante, moi. Je n'ai pas assez changé de couvent, je n'ai pas
trahi mon mari, je n'ai pas fait des voyages triomphants à Saint
Moritz avec des cortèges de reine, je n'ai pas fait l'espionne pour
l'Ambassadeur de France, je n'ai pas fui de Turin comme une voleuse
en emportant les collections d'objets d'art achetées avec l'or de mon
amant, je n'ai pas fini ma vie dans un palais splendide, au milieu
des fêtes et des plaisirs, en me glorifiant de mes amours passés!
Allez. Je n'ai pas d'auréole poétique, moi. Je n'ai été qu'une
ambitieuse vulgaire. Je visais peut-être déjà à la couronne à l'âge
de seize ans, lorsque je commis la faute monstrueuse de donner mon
cœur d'enfant à l'amour d'un roi, jeune, beau, glorieux, à qui toutes
les autres ont résisté, comme tout le mond sait bien! Je n'ai jamais
eu que de l'ambition; je n'ai jamais su ce que c'était l'amour, la
reconnaissance, le dévouement, l'amitié. Je n'ai pas même eu le cœur
d'une piémontaise et les entrailles d'une mère. J'ai été le malheur
et la honte de mon pays. C'est moi seule qui ai poussé Victor Amédée
à bouleverser l'État pour ressaisir la couronne, c'est moi qui ai été
le tourment de ses derniers jours, c'est moi qui ai été la première
cause de sa mort. J'ai fait tout cela pour l'ambition. Et je l'ai
satisfaite, en effet, cette malheureuse ambition, pour être traitée
comme je le suis! J'ai fait mon bonheur, j'ai joui de la vie, je n'ai
pas été punie, je n'ai pas expié, je n'ai pas souffert, je n'ai pas
pleuré! J'ai mérité vraiment que la haine du monde s'abattit sur ma
tête et frappât au cœur mes enfants, et que mon pauvre nom fût prononcé
pour toujours avec un sourire de raillerie et de dédain comme le nom
d'une coquette sans âme et d'une aventurière bafouée! Oh!... C'est une
infamie!... Êtes-vous venu pour mentir comme les autres?
— Nel convento, — continuò la superiora, con la sua voce dolce, mentre
io dicevo l'animo mio alla marchesa di Spigno, — essa non fu cagione di
alcun disturbo. Non vestì l'abito di monaca; ma si può dire che visse
quasi come una monaca. Ci aveva qui una sorella, suor Maria Giuseppina
Radegonda, e una nipote, suor Teresa Innocente, che le furono di molto
conforto nei primi mesi. Ma si adattò a ogni cosa con grande dolcezza.
Era buona con le educande, ossequiosa con la superiora.....
— Eh bien, oui! — rispose la marchesa; — je vous ouvre mon cœur,
j'avoue mes fautes. Lorsque, après la mort de mon mari.... —
S'interruppe un momento, e poi ricominciò, con una strana pronunzia
tra piemontese e francese, e con un poco di stento: — Ebbene, sì, lo
confesso. Quando mi ripresentai alla corte dopo la morte del conte di
San Sebastiano mio marito, non miravo soltanto a rialzar la fortuna dei
miei figliuoli, caduti nelle strettezze; quando m'accorsi che il Re
mi riamava, mi lasciai sedurre da una pazza speranza. È vero. E feci
quant'era in me perchè il mio sogno s'avverasse. È anche vero. Sono
stata ambiziosa, sono stata donna. Si perdonano, si scusano tante colpe
d'ambizione agli uomini! Non si dovrà perdonar nulla a una donna? Sì,
ho creduto di diventar regina, lo confesso, e quando intesi la notizia
inaspettata dell'abdicazione, mi si gelò il sangue nelle vene, come se
fosse crollata la reggia sotto i miei piedi. Ma tutto fu finito in quel
punto. Quella delusione terribile mi tolse ogni speranza per sempre. È
una scellerata ingiustizia l'accusarmi d'aver eccitato Vittorio Amedeo
a rivocare l'abdicazione, d'averlo spinto da Chambéry a Moncalieri per
ritogliere la corona al figliuolo. Non è vero. Quelli che furono primi
ad accusarmene, dimenticarono di aver predetto essi medesimi, quando il
re voleva abdicare, che se ne sarebbe pentito ben presto, che avrebbe
voluto regnar da capo dopo sei mesi; dimenticarono d'averlo supplicato
piangendo di desistere dal suo proposito, perchè appunto presentivano
quello che sarebbe accaduto; come lo supplicò il suo stesso figliuolo,
turbato da un eguale presentimento. Ma che dimenticarono! Come potevano
non ricordarsi che, nei primi mesi dopo l'abdicazione, Vittorio Amedeo
aveva continuato a regnare, che non si faceva nulla a Torino senza
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