Alle porte d'Italia - 02

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Pinerolo, agosto 1883.
Era un pezzo che desideravo di visitare quel vecchio palazzo, il
quale mi mostra tutti i giorni i suoi merli rossi di là dai pini e dai
cedri del giardino della bella marchesa Durazzo. Uno strano edifizio,
veramente, d'una forma che non riuscivo da nessuna parte ad afferrar
intera con lo sguardo; coronato di certi merli bizzarri da castello di
palcoscenico; carico di secoli, e pure colorito di fresco, e triste
a vedersi come un cadavere imbellettato: e poi, nascosto là in un
canto solitario di Pinerolo, in mezzo a casette misere e a vicoli in
salita, irti di sassi enormi e corsi da larghi rigagnoli sonori. Non ci
avevo mai visto intorno che ragazzi scalzi e processioni di pulcini,
e qualche vecchio sonnacchioso, accucciato davanti a una porta, il
quale non sapeva certamente chi avesse abitato una volta tra quei muri,
più che non lo sapessero l'erbe che gli verdeggiavan tra i piedi. —
Che diavolo ci ha da esser là dentro? — mi domandavo. Una mattina,
passando sotto quelle finestre misteriose, m'era parso di sentire un
bisbiglio di voci lamentevoli, come una preghiera di anime in pena, e
una sera, affacciandomi al terrazzo d'una villa vicina, avevo visto
giù nel giardino oscuro del palazzo una bella monaca che fuggiva
come uno spettro in mezzo alle piante: — l'immagine d'un quadretto
del Boccaccio. Ce n'era più del bisogno per eccitare la curiosità di
qualunque più ostinato odiatore di rovine illustri.
*
* *
Sarebbe stato ingiustizia, peraltro, se quella curiosità non fosse nata
anche in parte da un sentimento di simpatia per i Principi d'Acaja.
Dico simpatia, non entusiasmo. Grandi non furono, nè forse potevano
essere. La parte principale, in quel fortunato lavorìo diplomatico e
guerresco della casa di Savoia, toccava naturalmente ai Conti, loro
signori, più forti d'armi e piantati in domini assai più sicuri che non
le terre dei principi. Tolto anche il conte Verde e il conte Rosso,
che vissero al tempo loro, sarebbe bastata ad oscurar gli Acaja la
gloria di Amedeo il Grande che li precedette e la fama d'Amedeo VIII
che li seguì. Ma non furono indegni d'ammirazione. Accampati sopra
un territorio di dubbie frontiere, circondato da Comuni turbolenti
e da Signori il cui unico pensiero era la conquista; posti in una
condizione, rispetto ai Conti savoiardi, la quale, se li assicurava
d'un valido sostegno nei grandi cimenti, vincolava però in mille modi
la loro libertà politica; costretti sempre a destreggiarsi fra nemici
spesso più potenti di loro, con alleanze ed accordi continuamente
rotti, ripresi, falsati e violati; condannati a combattere quasi senza
riposo coi Marchesi di Saluzzo e di Monferrato, cogli Angioini e coi
Visconti, in un paese impoverito dalla sfrenatezza della soldataglia
mercenaria; inceppati nel governo dalle mille difficoltà e dai mille
disordini che nascevan dalla mancanza d'un Codice generale di leggi, e
dall'imperfezione degli Statuti di ciascun Comune; essi riuscirono non
di meno, a furia di sagacia e di costanza, parte coi matrimoni accorti,
parte con gli ardimenti opportuni, e molto col valor personale, gli
uni ad accrescere, gli altri a consolidare la propria potenza, e a
preparar largamente la via alle conquiste avvenire della casa sabauda;
ci riuscirono, — questa è la loro gloria maggiore, — conservando quanta
fama di lealtà era possibile meritare allora, tra quei nemici: non
macchiandosi di efferatezze famose in un tempo in cui pochi Principi
avevan le mani nette di sangue; non opprimendo smodatamente i loro
sudditi, liberando anzi i Comuni dalla maggior parte degli incagli dei
diritti feudali; governando anche fra i torbidi e le guerre in maniera
da legare a poco a poco al loro nome, nella mente del popolo devoto
non per timore, una certa idea di magnanimità e di giustizia, che era
forza nei pericoli e conforto nella miseria. Eccettuato Giacomo, non
malvagio, ma debole, e imprudente e pauroso a vicenda davanti ad Amedeo
VI, gli altri, educati tutti nella Corte di Savoia, e compagni d'armi
dei Conti nei loro primi anni, lasciarono un nome illustre ed amato:
Filippo fu politico sapiente e capitano ardito; Amedeo non meno saggio
principe che soldato valoroso; Ludovico, gentile d'animo, non inetto
alla guerra, protettore e fautore degli studi, quanto era concesso al
tempo suo. E ci destano anche un sentimento particolare di simpatia e
di curiosità per il fatto di essere passati così, quasi perduti nella
gloria dei loro parenti, quattro soli nel corso di più d'un secolo, in
un'età tanto remota, in una terra presso che barbara allora appetto a
molte altre d'Italia, non celebrati da scrittori nè cantati da poeti,
non lasciando di sè che pochi documenti scritti in rozzo latino, e
nessun vivo ricordo personale, e nemmeno le pietre e la polvere delle
loro tombe; oltre a non so che di strano e di romanzesco che aggiunge
al nome loro quel titolo d'un principato lontano, non posseduto mai e
ambito sempre, che brillò per cent'anni nei loro sogni come la promessa
allettatrice d'un paese fatato.
*
* *
Fu quindi una festa per tutta la comitiva quando si vide davanti alla
porta spalancata del palazzo, pronto a riceverci, il cortese e còlto
canonico Chiabrandi, direttore dell'Ospizio dei Catecumeni. Poichè
è da sapersi che il palazzo degli Acaja, dopo essere stato un pezzo
proprietà privata, e poi ospedale, serve ora di ricovero e di scuola
ai giovani valdesi delle valli vicine, maschi e femmine, che vogliono
convertirsi al cattolicismo... o passare un inverno al coperto.
Ma, ahimè! appena si fu nel cortile, si provò un amaro disinganno.
Nessuna parola può dare un'idea della devastazione, che, sotto il
nome di restauro, fu fatta di quella povera casa. Lo sciupìo è tale
che desta per primo sentimento il desiderio di vedersi davanti tutti
coloro che fecero o lasciaron fare, ci fosse anche in mezzo qualche
Duca impennacchiato, per dare a tutti quanti, in nome della storia,
dell'arte, della poesia e della patria, una di quelle lavate di
capo che fanno perder la via di tornare a casa. Il palazzo, fondato
nel 1318, ha sei secoli, e può dimostrar benissimo sei anni. Qui fu
distrutto, là rifatto; parti nuove vennero aggiunte, con imitazione
infelice delle antiche; tutti i muri dipinti d'un color rosso
arrabbiato di pomodoro, coi mattoni segnati a contorno bianco, come
i piccoli castelli dei giardini di cattivo gusto; dentro, tutto rotto
e sformato per fare spazio alle nuove scale; le logge alte, tappate;
le sale, tramezzate; le pareti ch'eran dipinte, intonacate; la torre,
che si alzava d'un buon tratto sopra i tetti, tagliata via; una rovina
senza nome. Le ombre degli spodestati Marchesi subalpini ci debbono
venire a ridere una volta al mese. Il palazzo ha press'a poco la forma
d'un bidente rettilineo con l'apertura volta verso il Monviso, un
piccolo cortile nel mezzo, un piccolo giardino davanti. I tre corpi
dell'edifizio son disuguali d'altezza. L'unica cosa che si riconosca
d'antico, a primo aspetto, è nel corpo più basso: uno stretto porticato
a tre archi schiacciati, il quale sostiene una loggetta, sul cui
parapetto s'alzano delle colonnine leggere che sorreggono un tetto
a larga gronda, congiunte fra loro da grandi persiane claustrali. Ma
chi può dire quale fosse la forma e l'ampiezza del palazzo nel secolo
decimoquarto? Per quanto si sappia che vivevano pigiati, ed anco
ammesso che facesse parte del palazzo un piccolo edifizio che gli si
alza accanto, le cui finestre conservano il disegno e le incorniciature
del tempo, è difficile credere che tutta la famiglia dei Principi,
e gli ufficiali, e i servi, e gli ospiti principeschi che eran
frequenti, vi capissero. Non vi si potevan rigirare. Un'angusta stanza
sotterranea che si apre sulla strada e che pare fosse una scuderia, non
conteneva certo tutti i cavalli della corte. Ci dovevano essere intorno
altri edifizi. Un grosso muro scalcinato che sorge da un lato d'un
cortiluccio esterno, dove rimane ancora un antico pozzo da streghe, era
forse il muro maestro d'un annesso considerevole del palazzo. Comunque
sia, ciò che resta dà l'immagine d'un edifizio meschino, incomodo,
troppo stretto per la sua altezza, un che di mezzo tra il monastero,
la carcere e una casa da appigionare non terminata. Ma come! vien fatto
di dire entrando: di qui fu governato per cent'anni il Piemonte? qui si
ricevettero i legati del Pontefice e gli ambasciatori dell'Impero? Qui
si ospitò la sposa di Andronico Paleologo, imperatore d'Oriente? Oh!
tristissima delusione!
*
* *
Si stette un poco nel cortiletto a guardare in alto, scontenti, con
un leggero sentimento di pietà per gli antichi Principi; poi s'andò
su per le scale. Anche l'interno del palazzo ha un aspetto uggioso
di convento e d'ospedale, che gli vien dall'ammattonato rosso vivo,
dai muri bianchi e dai crocifissi neri, appesi in fondo agli anditi
nudi; nei quali il sole gettava qua e là dei grandi rettangoli di
luce d'oro, reticolati di fili d'ombra dalle grate delle finestre.
C'era un silenzio di Trappa. Il sacro ospizio non ha presentemente
che tre convertiti; la stagione è così bella! Si sentiva sfogliettare
un libro su al terzo piano, e di tratto in tratto, intorno a noi, un
fruscìo discreto di sottane monacali invisibili. Dalle alpi veniva
diritta in viso un'arietta deliziosa.... Ci affacciammo a uno stanzone
a dare un'occhiata alla travatura antica del soffitto, dove rimane
quale mensola rozzamente scolpita e imbiancata. Era forse la camera
nuziale dove dormirono il sonno più dolcemente stanco della vita le
sette spose della casa di Acaja. Chi può provare di no? Ora ci sono
due lunghe file di letti da infermeria, con le coperte di cotone a
quadretti bianchi e turchini; e ci dormon le monache e le catecumene,
quando ce ne sono. Un altro stanzone del primo piano è convertito
in cappella, con un altare da chiesuola di campagna. Non rimane il
menomo indizio dell'uso al quale potessero servire le altre stanze. Un
principe d'Acaja redivivo non ci si raccapezzerebbe più, sicuramente.
Un luccichìo che intravedemmo per uno spiraglio, ci fece accorrere con
la speranza di ritrovar delle antiche armature: erano le casseruole
della cucina. Mi prese la stizza. Era così penoso quel contrasto fra
la curiosità stimolata da mille memorie, fra l'avidità impaziente di
vedere, di riconoscere, di scoprire, di capire, e la nudità muta, la
stupida ignoranza di quei muri freschi e di quelle scale rifatte! Avrei
voluto afferrare un raschiatoio e un piccone, e lavorar come un dannato
a scrostar pareti, a sfondar tramezzi, a metter tutto in un monte,
per ritrovare un segreto, una immagine viva, una parola almeno del
passato! Perchè debbono averne visto quelle vecchie pietre nascoste, e
furori d'ambizioni disperate, e scoppi di pianto geloso, e tripudi di
vincitori, e audacie insensate di paggi, e secreti d'amore e forse di
sangue!
*
* *
Girammo lentamente di stanza in stanza, vedendo ogni tanto per certi
finestrini ad arco acuto degli squarci luminosi di paesaggio lontano:
la cosa che è meno mutata attorno al palazzo, credo io. E mi tornava
continuamente in capo questa domanda: — Come vivevano? In che maniera
avranno ammazzato le loro giornate, qua dentro, nei tempi ordinari? E
m'immaginavo, non so bene perchè, delle ore interminabili di noia in
mezzo al grande silenzio di Pinerolo, addormentata sotto il sole di
luglio, e delle eterne giornate scure d'autunno, in cui il rumor della
pioggia nel piccolo cortile doveva empire il palazzo d'una tristezza
da far piangere. Le ricreazioni intellettuali dovevano essere scarse
in un paese dove non era traccia d'arte, nè di letteratura, e in cui
pochi legisti, qualche monaco e qualche notaro formavano tutto il ceto
erudito. Il tema più frequente dei discorsi saranno stati gli amori e
i pettegolezzi delle Corti vicine, specie di Savoia e dei marchesati,
e i matrimoni e le avventure dei nobili vassalli, sparpagliati da
Perosa a Torino. Avranno pure ragionato, in famiglia, degli argomenti
spesso delicati o stravaganti delle moltissime liti, per le quali si
ricorreva ai Principi contro le sentenze dei giudici dei Comuni. Le
udienze accordate ai castellani e ai vicari, l'arrivo dei corrieri di
Chambéry, la comparsa di un capitano di ventura che veniva a offrire
la sua spada o a fissare i patti per la sua compagnia, saranno stati
avvenimenti graditi, e oggetto di molte parole. Tutta quella politica
minuta e intralciata di piccoli Stati, quelle contese senza fine per
una ròcca, per un mulino, o per un palmo di terra, avranno dato luogo
naturalmente a infinite conversazioni del pari intricate e sottili,
nelle quali si ripetevano forse mille volte le medesime cose. Un
gran discorrere l'avranno fatto pure, prima e dopo, delle corse e
delle giostre con le quali festeggiavano gli sponsali e le paci,
e di quegli strani banchetti in cui servivano i porci dorati, col
fuoco nella bocca, e i vitelli tutti d'un pezzo, con un giardino sul
dorso. Anche avranno molto pregato, e discorso molto di cavalli e di
cani. Eran più giovanili di noi; avranno sfogliato più assiduamente
il libro dell'immaginazione. E davano una parte maggiore alla vita
fisica. Il palazzo si sarà assopito di buon'ora dopo i ritorni stanchi
delle cavalcate festose, le sere che i pinerolesi vedevan passare
in un nembo di polvere dorata dal sole, dietro al viso infiammato
d'Isabella d'Acaja, un'onda di cavalli, di levrieri e di paggi. Che
diversa vita, peraltro, che violente commozioni dovevan provare in
tempo di guerra, quando cento vedette esploravan la pianura dall'alto
delle torri e dei campanili, e tutta la città si rimescolava ad un
cenno e ad un grido! Dalle finestre del loro palazzo, come dalle logge
d'un torneo, le principesse vedevano le milizie uscir dalle porte, e
allungarsi in colonne pei campi, e coronar le colline di stendardi e
di spade. Quando Filippo assediava Savigliano col fiore della nobiltà
sabauda, e allorchè il Principe Giacomo stringeva Saluzzo con Manfredo
e col Siniscalco del Balzo, e Facino Cane dava il sacco ad Osasco e
Ludovico assaliva Pancalieri, esse vedevano i fuochi notturni degli
accampamenti, e i bagliori degl'incendi, e i nuvoli bianchi sollevati
dal galoppo degli squadroni. Dovevan martellare gagliardamente i cuori!
Era ben altro che ricever le notizie dal bollettino del telegrafo.
Respiravano l'aria della battaglia, sentivan passare il soffio della
morte. Si capisce come crescessero col petto forte quei Principini e
quelle future spose di Principi, che assistevano ai ritorni notturni
dalle mischie feroci, tra le lance insanguinate e le fiaccole, in mezzo
alle imprecazioni dei prigionieri e agli urli dei mutilati.
*
* *
Covando questi pensieri, arrivammo al secondo piano. Qui, finalmente,
si ritrovò qualche resto notevole: uno stanzone, che si dice fosse
la sala dei grandi ricevimenti, nel quale rimangono qua e là sulle
pareti alcuni affreschi a chiaroscuro. Il buon gusto di non so chi li
aveva non solamente imbiancati, ma coperti di calce, delicatamente;
ed è il direttore dei catecumeni che li rimise alla luce del sole.
Occupano un terzo circa dei muri. Il rimanente dev'essere stato
raschiato senza pietà dalla zampa d'un asino di cui vorrei essere
padrone per ventiquattr'ore. Dalla rozzezza infantile del disegno
si giudicherebbero questi affreschi più antichi; ma non si può
ammettere che siano, almeno in parte, anteriori alla seconda metà del
quindicesimo secolo, rappresentando uno di essi Amedeo IX di Savoia,
che tiene in mano una cartella, sulla quale è scritto un suo motto
diventato celebre. Ora, essendosi estinta la famiglia degli Acaja nel
1418, tocca agli eruditi a dirci se i Duchi di Savoia hanno abitato
per qualche tempo, da Amedeo IX in poi, il palazzo dei Principi, e
sotto quale Duca quei dipinti sono stati fatti. Son curiosi saggi
dell'infanzia dell'arte, e si direbbe dell'artista, quelli vicini
all'uscio, particolarmente: un cavaliere testardo che vuol entrare a
tutti i costi, ritto sotto a un baldacchino di trionfo, dentro a una
porta di città per cui non potrebbe passar che carponi; drappelli di
guerrieri, con facce da tiranni delle marionette, piantati sulla cima
di certi colli a pan di zucchero, come spilloni confitti a caso in un
cuscinetto, accanto a pini o cipressi tascabili, che arieggiano gli
spazzolini da lumi a petrolio; e un ballottìo di case da presepio,
d'una prospettiva miracolosa, che dan l'idea d'un villaggio colto colla
fotografia istantanea nell'atto d'un terremoto che non lascerà pietra
su pietra. Altri dipinti rappresentano Conti o Duchi di Savoia, di
pessimo umore. Questa sala è convertita ora in dormitorio dei piccoli
catecumeni, i quali riposano così placidamente in mezzo alle immagini
minacciose dei persecutori dei loro padri. Null'altro rimane d'antico
nell'interno del palazzo. Nulla; nemmeno tre piccoli scalini, a cui
si possa domandare, come il Musset alle famose _marches de marbre
rose_, di quale delle belle donne che li premettero avesse il piede più
piccolo e il passo più leggero. Nulla. Le povere Principesse ginevrine,
viennesi, siciliane, savoiarde, francesi, scomparvero senza lasciare
un ricordo, un'immagine neanche contestata delle loro sembianze.
Ah! se i cronachisti d'allora avessero descritto le donne con quella
minuziosità delicata da mercanti di schiave con cui le mostrano in
piazza i romanzieri moderni, quanti preziosi ritratti non avremmo al
presente! Come dovevano esser belle e superbe, coi loro alti cappelli
conici e con le loro pellegrine d'ermellino, quando si slanciavano
a braccia aperte giù per le scale, e schiacciavano rudemente il loro
seno bianco contro le maglie polverose dei vincitori di Monasterolo,
di Sommariva e di Tegerone! Non avendo altro appiglio, la fantasia
s'aiuta col suono dei nomi, il quale dà delle immagini. Non è vero che
quel largo nome sonoro di Beatrice di Ferrara, prima sposa di Giacomo,
fa vedere dei grandi occhi neri e una grande bocca purpurea, e udire
una di quelle voci profonde e calde che rimescolan l'anima? Che arcana
cosa son queste simpatie vive per un fantasma del passato a cui abbiamo
dato forma noi stessi! Io la vedevo, discorrendo col buon canonico
(mi perdoni); inseguivo il lungo strascico della sua veste azzurra
che spariva in fondo ai corridoi, e mentre stavo per raggiungerla nel
cortile, essa appariva sur una loggia del terzo piano, e quando ero
arrivato ansando sulla loggia, la vedevo passare lentamente giù nel
giardino. Povera buona Beatrice, uscita dal palazzo dentro la bara, coi
fiori ancor freschi delle nozze, morta senza bambini, così giovane, e
dimenticata così presto da tutti; Avrà molto sofferto? In che stanza
sarà morta? Aveva una amica, almeno, in questa Corte? E Caterina di
Vienna, la suocera, l'avrà amata? E come avrà parlato? Il suo dialetto
ferrarese? Come doveva esser dolce e triste la sua voce, quando
invocava sua madre lontana, stringendosi il crocifisso sul cuore!
*
* *
Il mio buon amico F^i, esattore, gastronomo e antiquario, s'ostinava
a cercar la cucina, e voleva a tutti i costi che il canonico gliene
dicesse qualche cosa. Egli aveva trovato nel Regesto degli Acaja, edito
dal bravo conte Saraceno, che la cucina era attigua al parlatorio,
_camera parlatorii_, del Principe: il che dà un'idea della strana
maniera in cui doveva essere scompartito il palazzo. E ci divertiva
molto, trattenendoci a tutti gli usci, per darci dei ragguagli
culinari ricavati dal latino spaventevole dei conti di tesoreria. Nei
loro giri per il Piemonte, ch'eran frequenti, i Principi ricevevan
regali da abati, da nobili, ed anche da gente del popolo, e da poveri
diavoli: cinquanta staia di avena, un moggio di vino, dodici montoni,
un bove, quattro porci: non sdegnavano nulla. Tornavano pure a casa
con _caponibus pinguibus et grossis_, e qualche volta con un cesto
di tartufi, _triffolarum_, dei migliori, probabilmente, di quei
bianchi, delle terre di Monferrato. Pare che avessero una predilezione
per i pesci, perchè tenevano assai ai molti laghi pescosi, che eran
loro proprietà esclusiva; e di questi laghi, e dei regali di pesci
che ricevevano, in specie dai marchesi di Saluzzo, è fatto cenno
frequentemente nel Regesto. Andavano spesso a desinare fuor di casa,
con tutta la famiglia, da prelati e da signori; e qualche volta dai
frati minori di San Francesco, pagando loro tutto il pranzo, eccettuati
i porri e l'insalata, che i frati mettevan di proprio, si crede anche
col condimento. Soventissimo pure invitavano al palazzo capitani,
nobili, preti, ambasciatori di piccoli stati, cittadini ragguardevoli.
Trattavano i loro sudditi, si capisce, molto familiarmente; conoscevano
tutti; davano udienza al primo venuto; vivevano con semplicità
casalinga, senza misteri. Non pare che facessero grandi spese di
lusso. Non si trovan registrate che pochissime spese per lavori di
pittura che si facevan fare su pergamene, bibbie e salterii, e nelle
stanze dove ricevevano. Erano anche di facile contentatura in fatto
di medici: si facevan curare sovente dai veterinari, qualche volta di
malattie cutanee poco pulite, e salassare, _flebotomare_, come dice
elegantemente il chierico registratore, da _quibusdam barbitonsoribus_.
Non profondevano quattrini che in giocolieri e menestrelli. Questo era
il loro debole. È interminabile la lista dei regali e delle mance date
a giullari, a cantastorie, a strimpellatori di chitarra, a tiratori di
scherma, ad ammaestratori di cani, ad acrobati che facevano il _saltum
periculosum_, qualche volta in pubblico, ma spesso anche nelle sale
del palazzo. Ospitavano essi pure dei Goliardi. Tenevano in casa delle
scimmie. Ci ebbero per un tempo un leopardo, col collarino d'argento,
e col relativo _magistro_: oggetto, a quel che pare, di tenerissime
cure. Del resto, si trovavano di frequente nelle strettezze, costretti
a vendere gli ori e le gioie che avevan ricevuto in dono dai principi.
Ricchissimi non potevano essere certamente, a malgrado di tutti i
tributi che ricevevano e di tutti i loro diritti su pascoli e su acque,
poichè nè la terra nè il popolo, desolati da una ladronaia di soldati
che facevan della guerra un brigantaggio, potevano dar loro gran cosa;
nè essi medesimi calcavano troppo la mano. — S'ingegnavano, peraltro,
diceva l'esattore, con un sorriso d'uomo esperto della materia. Il
principe, per esempio, non prestava mica gratis il suo ufficio di
giudice supremo: il vincitore della lite gli faceva spontaneamente,
per meglio dire, con spontaneità obbligatoria, un regalo in contanti,
e, si sottintende, salato. E poi, anche la giustizia criminale era
una vera fontana di bezzi. I capi scarichi e i birbaccioni formavano
una rendita per la Corte. Chi era preso a passeggiar per Pinarolium,
o Pignerolium, o Pineyrolum, senza lume, dopo il suono dell'ultima
campana; chi giocava a giochi proibiti, _ad taxillos_, per esempio;
chi portava coltelli non di misura; chi faceva cader la gragnuola sulla
città _per arte di negromanzia_; chi aveva o tentava di _habere rem cum
quadam filia_ di età troppo verde, e chi disertava le bandiere, e anche
chi ammazzava il prossimo, scampavano facilmente alla prigione, e al
boia, vuotando la borsa, se l'avevano, nelle tasche dell'amato sovrano.
E in questi casi, naturalmente, chi più n'aveva, peggio stava. Un
infelice canonico di San Donato, più danaroso che continente, per aver
tentato appunto di _habere rem_ con una parrocchianetta troppo acerba,
solamente tentato, era ridotto addirittura sul lastrico; e per contro,
un falegname che aveva spacciato un cristiano, se la cavava rifacendo
il tetto a spese proprie a una torre del castello di Moncalieri. —
Costava caro, come vedete, concludeva l'esattore, abbassando la voce,
era un affar serio _habere rem_.... sotto i principi d'Acaja.
*
* *
Eravamo rimasti al secondo piano, mi pare.... Al terzo non c'è da
vedere che la stanzina di studio del direttore, il quale, senz'avere
una grande biblioteca, possiede senza dubbio molti più libri di quanti
n'abbiano mai letto tutti insieme in cento e vent'anni i quattro
Principi della casa d'Acaja. Tutt'in giro a quest'ultimo piano pare
che ricorresse una loggia, sulla quale forse si drizzava una merlatura
simile a quella degli altri muri. Le Principesse, probabilmente,
stavano qui la sera a godere l'aria dei monti, con le figliuole; e
qui forse trapunsero le prime ciarpe da torneamenti, fantasticando
sul proprio avvenire, Margheritina, la piccola greca, figliola
d'Isabella, e la bimba Eleonora, e Alasia ricciuta, e Melchide sposa
futura dell'Elettor di Baviera. Da questa grande altezza, quasi librate
nell'azzurro, vedevan lì sotto, a pochi passi, la bella chiesa di San
Francesco, dove riposavano i loro padri e i loro fratelli, e di cui non
esiste più traccia; e tutt'intorno, Pinerolo con le sue mura merlate e
coi suoi ponti a levatoio, e il viavai delle sentinelle sugli spaldi
delle torri, rispecchiate dall'acque immobili dei fossi. E con un
solo giro dello sguardo potevano abbracciare quasi intero il Piemonte,
centinaia di borghi e di rocche soggette a loro, od amiche, o nemiche,
o malfide; che videro ventiquattro guerre durante il regno di quattro
Principi; una pianura meravigliosa, nella quale miriadi di miriadi
di alberi salgono in lunghissime file verso i santuari biancheggianti
come cubi di neve sulla cima dei colli, si serrano, come eserciti, in
masse profonde, si schierano in vasti quadrati attorno a campi color
di malachite chiarissimo, convergono in processioni sterminate verso
le città, serpeggiano a mille a mille lungo i fiumi e i torrenti,
precipitano a legioni giù dalle chine, e incrociano le loro fughe
in tutte le direzioni ed empiono gli avvallamenti lontani di vaste
moltitudine confuse, presentando innumerevoli sfumature e contrasti
di verdi fortissimi e dolci, fin dove il colore della vegetazione si
cangia in un azzurro poderoso, e poi digrada in un azzurro gentile,
tagliato da una linea immensa e diritta come l'orizzonte del mare.
*
* *
Discendemmo adagio adagio, come se a furia di ficcare gli occhi per
tutti i buchi si fosse dovuto scoprire almeno qualche annosissimo
servo incartapecorito, dimenticato dalla morte, dal quale si sarebbe
potuto saper qualche cosa. Ciascuno metteva coll'immaginazione i suoi
personaggi prediletti della casa d'Acaja negli angoli del palazzo,
e negli atteggiamenti che gli parevan più propri a dar vita alla sua
larva. Un mio amico, invece, si stillava il cervello per capire dove
avessero potuto “alloggiare„ Ludovica del Villars nel dicembre del
1362, mentre c'era già in casa la terza sposa di Giacomo; gravissimo
quesito per uno storico e per un direttore di albergo. I ragazzi si
seccavano. Uno di essi domandò timidamente: — Ma.... dove sono questi
Principi d'Acaja? — La più eccitata era una signorina, la quale
pensava con un sentimento vivo di tenerezza che il povero Filippo,
il diseredato, doveva aver passeggiato per molte e molte ore sotto
quel portico, col capo basso e le braccia incrociate, nei giorni che
cominciava a presentire le sua disgrazia. Filippo era la sua simpatia.
— È una brutta cosa, diceva con calore, che nessuno storico di Casa
Savoia abbia detto una parola ardita e generosa in sua difesa. —
Andiamo! le rispose l'amico dell'“alloggio,„ ha fatto la guerra da
bandito. — La signorina scattò: — Chi n'aveva fatto un bandito? —
No veramente, non era giusto. Non era soltanto la coscienza del suo
diritto di primogenito che gli rendeva intollerabile di veder destinato
il retaggio del padre Giacomo al figliuolo della matrigna; era pure, e
più forse, il ricordo di essere stato investito a sette anni di tutti
i dominii che gli spettavano, _de omnibus civitatibus et burgis_, e
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