Alle porte d'Italia - 03

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d'aver ricevuto l'omaggio solenne de' suoi futuri vassalli, _in logiam
sumiarum_, vicino alla grande torre rotonda del castro di Pinerolo.
Erano quindici anni ch'egli si teneva sicuro di succedere al padre,
quando vide entrare in casa la bella Margherita di Beaujeu, e nascere
un bambino in cui l'indole ambiziosa e imperiosa della madre gli fece
sospettare fin dalle prime un rivale. La signorìa che la bella donna
va pigliando ogni dì più sul marito debole e innamorato, lo afferma a
grado a grado nel suo sospetto. L'animo suo s'inasprisce. Crescendo la
diffidenza, scema il rispetto, e la freddezza del padre risentito fa
peggio. Allora egli parla dei suoi diritti, facendo sonare il passo
irato nelle sale del palazzo non più suo, e guarda con gli occhi
pieni d'odio quella donna astuta e intrigante il cui unico pensiero
è la sua rovina. Egli non ne dubita più oramai. A lui sarà gettata
l'elemosina di quattro case e di quattro campi perchè pieghi la fronte
di vassallo dinanzi al figliuolo dell'amor senile di suo padre. E il
solo che lo potrebbe proteggere, Amedeo di Savoia, lo condanna, e vuole
che sacrifichi tutte le speranze della sua vita alla concordia della
famiglia! Eppure, sì, quando egli è al cospetto del Conte Verde, quel
viso di prode lo soggioga, quella parola nobile e ferma lo persuade:
due volte, commosso da lui, egli rinunzia generosamente ai propri
diritti. Ma quando torna alla casa paterna, quando rivede l'occhio
azzurro e freddo di quella madre egoista, e risente la voce di quel
bimbo, nato per la sua sventura e per la sua vergogna, e ha sentore del
testamento che lo spoglia per sempre dell'aver suo, anche in caso di
morte dell'usurpatore, l'ingiustizia allora gli risolleva l'odio nel
cuore, l'ira gli risale per le arterie in ondate di fuoco e gli mette
la bandiera della rivolta nel pugno. Amedeo è salpato per l'Oriente;
il popolo, sciolto dal timore di lui, i vassalli memori del loro antico
giuramento, si leveranno in favore del diseredato. Ebbene, se tutto gli
fosse andato a seconda, mancandogli così ogni occasione alla violenza
e alla vendetta, la storia avrebbe detto di lui: — Aveva ragione. — Ma
non un braccio si leva dalle sue terre, non una voce risponde al suo
grido fra quella gente cocciuta, in cui la consuetudine dell'ubbidienza
brutale è più forte che il sentimento della giustizia. Esasperato
dal disinganno, egli s'indraca allora contro i sostenitori senza
coscienza, contro i complici paurosi di quella ladra di principati,
che coll'amplesso lascivo ha soffocato nell'anima di suo padre il
sentimento dei primi affetti e il rispetto delle solenni promesse.
Sanguini, urli dunque sotto le spade e in mezzo alle faci incendiarie
dei suoi inglesi e dei suoi alemanni prezzolati, quello stupido
pecorame di popolo, poichè è sordo alla voce del diritto e della
ragione. Da Barge a Chieri, da Costigliole a Torino, egli passa come
un uragano, furioso, accecato, delirante, ma non colpevole di tutte le
violenze della sua turba feroce e forse straziato dentro e atterrito
dell'opera propria. Il suo cuore non è impietrato. Quando Giacomo fugge
a Pavia, una speranza, forse un pentimento lo risospinge verso di lui:
corre a Pavia, chiede perdono, riconduce il padre alla sua città, lo
circonda di affetto e di cure. Ma il padre muore senza esaudirlo. Una
nuova speranza gli brilla al ritorno d'Amedeo da Costantinopoli. Ma
il Conte di Savoia proclama solennemente la successione del fanciullo
e la reggenza della matrigna. Tutto è finito, dunque. Abbandonato dai
Principi a cui ricorre, respinto dai suoi popoli, malsicuro dei suoi
mercenari, a che pro raccoglierebbe il guanto di sfida che gli getta
l'implacabile Amedeo, chiamandolo traditore e bugiardo, perchè giochi
la vita con lui davanti alla Corte dell'Imperatore? Non è il solo
pensiero della vanità della prova, forse, quello che gli trattiene la
spada: è un resto della riverenza antica per il capo della sua stirpe,
è un senso nuovo di ammirazione per l'eroe dell'Oriente, salutato dal
plauso del mondo. La lotta non è più possibile. Stretto in Fossano,
viene a patti. Con un salvacondotto del vincitore cavalleresco, si
reca a Rivoli senza timore. Un Consiglio di giurisperiti deciderà fra
lui e Margherita. Forse tutto non è perduto. Ma che! A Rivoli, dinanzi
al Conte di Savoia, egli si trova in faccia alla matrigna odiata,
che lo accusa delle devastazioni e del sangue. Invano egli invoca
il salvacondotto. Mentre il Consiglio delibera sulla successione, un
altro Consiglio gli forma processo criminale. Egli non può sbugiardare
le accuse, deve pur confessare che s'è ribellato, che ha incendiato,
che ha fatto sangue.... Allora, nello sguardo del Conte di Savoia,
nell'accento dei Commissari, nell'atteggiamento de' suoi custodi,
indovina forse una sentenza tremenda; un misto di rimorso e di pietà
di sè stesso gli opprime l'anima, si sente venir meno il coraggio,
invoca la misericordia del suo signore.... Che cosa avvenne di quel
disgraziato? Il giorno 13 ottobre del 1368 fu ancora interrogato una
volta dai suoi giudici nelle prigioni di Avigliana. Poi non se ne seppe
più nulla. Fu ucciso? Ma non c'è indizio d'una condanna di morte che
sia stata pronunciata contro di lui. Si uccise? Ma perchè non si seppe?
Delle due supposizioni, è più ragionevole la prima pur troppo. Ah! ma
è doloroso.... ripugna il mettere una macchia vermiglia sulla gloriosa
assisa verde d'Amedeo!
*
* *
Queste cose, o presso a poco, doveva dire tra sè la signorina, mentre
scendevamo nel giardino, poichè i suoi begli occhi verdi luccicavano
come due smeraldi inumiditi e le sue narici sottili vibravano come
due alette rosate di farfalla. Il giardino lungo e stretto, chiuso
tra quattro muri, è un giardinuccio malinconico di chiostro, fatto
piuttosto per dirvi degli atti di contrizione, che per commettervi
dei peccati. È incredibile che quello fosse tutto il giardino della
Corte: doveva risalire o discendere il colle a scaglioni e a gradinate,
e stendersi molto più in là verso le mura. Non di meno, visto di lì
sotto, il palazzo antico degli Acaja, così alto, nell'ampio azzurro,
coi suoi merli, con le sue finestre arcate, con le sue logge aperte,
con la sua torre rotonda e leggera, doveva offrire un aspetto
gradevole, o, se non altro, curioso. Ed anche nel giardino ci tenne
dietro Filippo, il protagonista della giornata. Non ci fu rimedio.
La poetica signorina si commoveva da capo, pensando ai suoi amori di
fanciullo. Ah! un idillio gentile davvero che raccomando al mio buon
Marenco, per la piccola Cuniberti. Quale argomento più grazioso che
le avventure di due sposi di sett'anni? Filippo forse non li aveva
ancora quando suo padre Giacomo, collo scopo d'amicarsi il Conte di
Ginevra, il quale, come tutore d'Amedeo VI, poteva giovargli presso
la Corte di Savoia, concertò il matrimonio del principino con Maria,
figliuola del Conte, nata da Matilde di Bologna. Sciolto il ragazzo,
col consenso del papa, dai vincoli dell'autorità paterna e proclamato
erede dei dominii di Giacomo, si stipulò il matrimonio in forma
solenne, al cospetto di molti personaggi ecclesiastici e secolari,
fissandosi una dote di quindicimila fiorini d'oro; alla quale parve
che il fidanzato si mostrasse affatto indifferente. Le promesse vennero
fatte nel 1346. L'anno seguente scese in Italia la sposa. Filippo aveva
compito il settennio; la sposa poteva avere otto o dieci anni. Essa
portava con sè uno scrigno pieno di gioielli, che suo padre affidò
all'abate di San Michele della Chiusa, perchè lo rimettesse agli sposi
quando il matrimonio fosse consumato, o lo restituisse alla famiglia
quando il matrimonio andasse a monte. Gli sposini non essendo ancora
in età di consumar altro che dei confetti, furono celebrati intanto
gli sponsali; e la bimba rimase alla Corte degli Acaja ad aspettare
gli anni dell'amore. Come avranno passato quel tempo i due ragazzi?
Senza molta impazienza, si può credere. E nessuno gli avrà vigilati, di
certo. Si saranno rincorsi mille volte per i viali di questo giardino.
Essa avrà parlato del cofanetto miracoloso dell'Abate, egli dei bei
puledri che avrebbero fatto caracollare insieme per le vie di Pinerolo,
tra pochi anni. Sibilla del Balzo, che era ancor giovane, avrà fatto
da mamma alla piccola nuora. Qualche bacio innocente nel collo alla
sua ginevrina, Filippo ce l'avrà stampato, qualche volta, in mezzo ai
roseti. Si saranno posti affetto l'un l'altro? Si saran bisticciati?
Quanti lieti pronostici avran fatto i vassalli striscianti e le dame
adulatrici! Ah poveri pronostici d'amore! Amedeo VI cresceva; nel 1347
usciva di pupillo. A che poteva giovare il Conte di Ginevra, scadendo
dal suo ufficio di tutore? E allora, perchè il matrimonio? Con un
tratto di penna, tutto fu sciolto. La povera sposina fu liberata dalle
promesse. Le fecero un involtino delle sue bricciche, le rimisero in
mano la scatoletta dei suoi gingilli, e la rimandarono al babbo e alla
mamma... com'era venuta. Le cronache non dicono se i due ragazzi abbian
singhiozzato separandosi, e maledetto “l'iniqua ragion di Stato.„ Si
separaron forse con un sorriso. Ma chi sa che molti anni dopo, quando
era sposa di Giovanni di Chalon, signore d'Arlay, udendo la miseranda
fine di Filippo d'Acaja, la giovine signora non abbia pensato con
tenerezza al suo piccolo fidanzato d'un tempo e lasciato cader una
lagrima su quella memoria gentile!
*
* *
Avevamo visto tutto, e stavamo per uscire, quando s'accese una
discussione vivace tra la signorina e l'esattore intorno alla “mitezza„
dei principi d'Acaja. L'esattore peraltro ci metteva una puntina di
malignità, e faceva un po' per chiasso. — Infine, saranno stati miti,
diceva; ma fatto sta che nel registro dei loro conti c'è segnata di
tratto in tratto una somma per l'acquisto d'una corda nuova, _pro magna
corda de nouo_, che non serviva certamente a far all'altalena. Sì,
perdonavano molti delitti.... per denaro. Ma quando i colpevoli erano
spiantati, facevano torturare e impiccare _de bon cuer_, come scrive
il mite Amedeo, con ortografia principesca. Uno aveva l'_auriculam
incisam_, l'altro il naso _deputatum_, un terzo la fronte rabescata
col _ferro calido_, un quarto, gli _oculos decrepatos_; una donna era
_combusta_, nientemeno; un vecchio annegato come un cane; un altro
_rabellatus_, trascinato alla forca per una corda attaccata alla coda
d'un'asina comprata da un'ebrea. E per _parua furta_ si contentavano di
sbrindellare le cuoia a vergate. Le pare che sia mitezza, signorina? E
quell'altra birbonata di tenere sepolti gli ostaggi in una torre, per
anni e anni, dei poveri ragazzi astigiani, che ne uscivan mezzo morti?
Perchè non facevano l'inferno per liberarli, quelle dolci principesse?
— Ebbene, la signorina l'avrebbe fatto l'inferno, ne potevamo andar
sicuri; ma quella di dar carico ai Principi dell'atrocità della
giustizia punitiva, che era mostruosamente atroce da per tutto, in quel
tempo, le faceva alzare le spalle (ammirabili). Conosceva anch'essa
il famoso regesto, e sapeva che la mitezza degli Acaja si poteva
dimostrare con altre prove. Bisognava vedere, per esempio, in qual
maniera punivano le colpe che offendevano soltanto le loro persone.
Un Barnabò non si sarebbe contentato di far pagare una piccola multa
a chi avesse parlato in pubblico _contro il suo onore_; Galeazzo
avrebbe levato qualcosa di più che pochi fiorini ad una donna che
avesse bruciato in chiesa il banco d'una principessa, la vigilia del
suo onomastico; nè altri Principi d'allora pagavano alla povera gente,
come usavano gli Acaja, i danni fatti dai loro cani e dai loro falconi;
no sicuramente. — Andiamo, le concedo questo, — rispose l'esattore;
— ma non potrà negare che quella di far dormire le principesse sulla
paglia era una vera barbarie. — Tutti gli diedero sulla voce: era
un calunniatore. Ma egli addusse la prova, una somma registrata nei
conti _pro precio unius charrate palearum pro lectis faciendis pro
adventu domicelle Bone_; Bona principessina, figliuola d'Amedeo....
— Ci avranno dormito tutti sulla paglia, — osservò la signorina. Che!
Che! — rispose l'altro trionfante, il _dominus_ dormiva sulla lana. C'è
registrato. _Lanam materacii ad opus domini_. Che mi viene a contare!
— E allora tutti risero, e la discussione finì in quella maniera, sul
morbido, come non sogliono finire le discussioni con gli esattori.
*
* *
A forza di ricordare e d'immaginare, insomma, uscimmo tutti dal
palazzo con la gradita illusione d'aver visto mille meraviglie. Gran
bel dono, proprio, quello dell'allucinazione volontaria! Per questo,
io potrei dare dei punti a quel caro signor Joyeuse del _Nabab_, il
quale, andando la mattina all'ufficio, si rappresentava così al vivo
l'atto del direttore che gli dava una gratificazione di mille lire, e
vedeva così nettamente il suo biglietto bianco e i suoi colleghi verdi,
che arrivato alla banca, rimaneva ogni mattina stupito e avvilito
di non ricever la croce d'un quattrino. Io pure, ritornando verso
la villa Accusani, mi raffigurai, e posso dire d'aver visto davvero
una stranissima cosa. Mi trovavo sopra un alto ballatoio del palazzo
degli Acaja, e vidi sorgere tutt'a un tratto accanto a me i quattro
Principi morti, diritti stecchiti nelle loro armature corrose, coi visi
consunti e con gli occhi orribilmente infossati sotto le fronti che
mostravan l'osso nudo. Si fregaron le palpebre cadenti come destandosi
da un altissimo sonno, e s'atteggiarono a un'espressione di stupore
indescrivibile, riconoscendo a poco a poco la pianura immensa e i
luoghi vicini e lontani dove avevan combattuto durante la loro vita
mortale. E si vedevan passare nel loro sguardo lento e girante mille
curiosità e mille inquietudini, come se domandassero affollatamente a
sè stessi: — Che fu del nostro sangue? Dove sono i nostri nemici? Che
cosa avvenne dei Marchesi di Saluzzo e di Monferrato? E le repubbliche
d'Asti e di Chieri? E i re di Sicilia? E i Signori di Milano? —
Principi! — io gridai allora; e i quattro teschi si voltarono. — Non
c'è più Marchesi di Saluzzo, non c'è più Marchesi di Monferrato, non
c'è più repubbliche d'Asti e di Chieri, non c'è più dominii piemontesi
nè di Re di Sicilia nè di Visconti: fin dove arriva il vostro sguardo,
sventola l'insegna della vostra famiglia, splende la croce bianca di
Pietro II, vostro progenitore di Savoia. — I loro occhi cavernosi
mandarono un lampo, dilatandosi, e si fissarono profondamente ne'
miei. — Principi! — ripresi, — quello che appena avreste osato ambire
in segreto, nei più audaci sogni della vostra giovinezza, tutta la
bella riviera di ponente, e le terre dei Gonzaga, e i possedimenti
degli Scaligeri, e i domini degli Estensi, e le quarantadue città
di Gian Galeazzo, son raccolte sotto lo scettro dei vostri nipoti,
e glorificano il nome della vostra stirpe.... Ascoltatemi! — gridai,
frenando col cenno un movimento impetuoso con cui si traevano indietro.
— Ciò che non avete mai sognato un istante, nemmeno nei più febbrili
delirii della vostra ambizione, nei giorni di battaglia e di trionfo,
la città poderosa e superba, che portava il terrore tra i Saraceni, e
che voi salutavate con riverenza salpando pel mar di Liguria a tentar
la conquista del vostro principato di Grecia; e quella più formidabile
e più bella, signora del mar dell'Adria, che avrebbe potuto coprire i
vostri domini con le vele distese dei suoi navigli; e quell'altra piena
d'oro e di gloria che ammiravate di lontano come un immenso chiarore
all'orizzonte, e da cui vi giunsero come echi di un nuovo mondo i
nomi immortali di Giotto e di Dante, sono unite sotto il regno del
vostro sangue, e portano nella stessa bandiera la croce della vostra
Casa!... Ascoltatemi ancora! — gridai con tutte le forze del mio petto,
soffocando un'altissima voce che stava per prorompere dalle quattro
bocche spalancate e convulse. — Immaginate avverato il sogno d'un
pazzo, incominciata l'età dei prodigi, le leggi del mondo sconvolte:
tutte le terre soggette ai vicarii di Cristo, da Radicofani a Ceprano,
l'Emilia, i possedimenti della duchessa Matilde, Spoleto, tutto quanto
è mai stato donato da Re o da popoli a San Pietro e ai suoi successori;
e tutto il vasto paradiso sul quale ondeggiò per tant'anni il vessillo
temuto di Casa d'Angiò; e tutta la terra splendida e favolosa che
sottostette alla spada d'Aragona; tutto, tutto, da un estremo all'altro
della penisola enorme, popolata di mille città e armata d'un milione di
spade, tutto riconosce e inchina un Re solo, un Umberto di Savoia! —
A queste ultime parole i quattro Principi d'Acaja rimasero un momento
immobili e muti, girando intorno i loro grandi occhi insensati;
poi barcollarono come percossi da una mazza ferrata sul cranio, e
stramazzarono riversi tutti insieme nell'oscurità del sepolcro.


IL FORTE DI SANTA BRIGIDA

Pinerolo, agosto 83.
Ho ricevuto una gran visita graditissima, giorni sono, qui sul colle
di San Maurizio, nella villa Accusani. Mi portan su una lettera e un
biglietto di visita, dicendomi: — C'è un signore forestiere. — Guardo
il biglietto. C'era scritto: _Commandant Emile de Beaulieu, 20me
régiment d'artillerie_. — De Beaulieu! dissi tra me. Questo nome non
mi è nuovo. Mi pareva d'averlo inteso o letto pochi giorni avanti; ma
non ricordavo nè dove nè a qual proposito. Sapendo che i parroci delle
chiese antiche di Pinerolo ricevono qualche volta delle lettere di
francesi sconosciuti, i quali li pregano di far ricerche intorno alle
loro famiglie nei registri parrocchiali del tempo della dominazione di
Francia, pensai che quel maggiore de Beaulieu fosse venuto a Pinerolo
con uno scopo simile, e che si presentasse a me con la raccomandazione
d'un amico perchè io lo presentassi al parroco di San Maurizio. E non
la sbagliavo di molto. Ma ero ben lontano dall'immaginare la buona
fortuna che m'annunziava la lettera, d'un mio amico di Parigi. Il
maggiore De Beaulieu era discendente in diretta linea di quel valoroso
De Beaulieu che aveva governato e difeso il forte di Santa Brigida
durante l'assedio famoso di Pinerolo del 1693. Io n'avevo letto e
ammirato le gesta la settimana prima. — Il maggiore, diceva la lettera,
passando di Torino per tornare in Francia, si reca a Pinerolo a
visitare i luoghi dove combattè il suo antenato. —
Figuratevi! ruzzolai le scale. E mi trovai davanti un bell'uomo
sui trentacinque anni, biondissimo, d'una corporatura asciutta di
cavallerizzo, vestito da viaggiatore, con eleganza. La voce me lo
rese immediatamente simpatico. Aveva combattuto a Sédan, luogotenente
d'artiglieria, nel corpo del generale Wimpffen; era stato due anni in
Africa; non parlava, ma capiva l'italiano.
— _Mais, c'est très beau ici!_ — disse dopo le prime parole, accennando
i monti. — Intendo assai bene ora come il conte di Tessé si sia difeso
accanitamente. Doveva rincrescer molto a lui e a tutti i Francesi di
sloggiare di qua. — Aveva già fatto un giro per Pinerolo, col piano
della città forte fra le mani, ed era contento d'aver ritrovato fin dai
primi passi l'edifizio dell'antico arsenale.
— Dunque io vi debbo fare da cicerone? — gli dissi. — Badate che non
sono in grado d'insegnarvi altro che la strada.
Non gli occorreva altro. Aveva letto le relazioni militari del tempo,
specialmente la storia del marchese di Quincy, brigadiere di Luigi XIV;
nessun particolare dell'assedio gli era sconosciuto.
— Ci aiuteremo a vicenda — mi disse; e poco dopo pigliammo la via del
monte di Santa Brigida.
*
* *
Ma prima d'arrivar sul terreno dell'assedio, credetti opportuno di
fargli un'osservazione conciliativa. Bisognava regolare i conti del
nostro orgoglio nazionale. E la cosa, per un caso assai raro, era
mirabilmente facile. Avevamo l'uno e l'altro una parte eguale di
soddisfazione nei ricordi dell'assedio di Pinerolo, perchè è vero
che gli italiani e i loro alleati avevano espugnato il forte di
Santa Brigida; ma non eran riusciti a impadronirsi della città: la
gloria dei conquistatori del forte lasciava intera e netta quella dei
difensori della cittadella. Gli alleati, d'altra parte, non avevan
levato l'assedio per disperazione di vincere, ma perchè minacciati alle
spalle dal Catinat. Le partite eran pari, dunque. Potevamo visitare
il campo col cuore in pace. — _Tapez!_ — egli rispose con un sorriso,
stendendomi la mano.
*
* *
Arrivati ai piedi del colle, dove sorgeva la cittadella, ci soffermammo
a guardar la pianura sottoposta. — Che stupendo scacchiere! — esclamò
il maggiore; — degno veramente della partita che vi giocarono! — Ah
sì! La partita era terribile. Si trattava di strappar di mano al gran
Re la libertà dell'Europa. Ci formicolavano cinque eserciti, su queste
belle colline; piemontesi, inglesi, olandesi, tedeschi dell'impero e
degli elettorati, valdesi e protestanti di Francia, Vittorio Amedeo II
ed Eugenio di Savoia, uno stuolo di generali d'ogni paese, il fiore
della nobiltà francese e savoiarda, trentamila soldati che avevan
visto il fuoco di venti battaglie. E con che animo c'eran venuti!
I francesi, incrudeliti nelle persecuzioni degli ugonotti e nelle
atrocità del Palatinato; i piemontesi, furiosi di vendicare il macello
di Cavour e gli orrori d'una guerra devastatrice fatta ad un tempo
con la spada e con la forca; gli anglo-olandesi infiammati dall'ira
di Guglielmo III; quasi tutti i principi morsi nel cuore dal ricordo
di un'offesa personale del re Luigi; e gli uni eccitati dal pensiero
che qui era il lato vulnerabile della Francia, il solo punto in cui
si potesse assalirla con vantaggio per irrompere nel Delfinato e
nella Provenza; gli altri inanimiti dagli eccitamenti del loro Re,
che teneva a Pinerolo come al proprio sangue, e che giocava sulle sue
mura l'onnipotenza e la gloria della monarchia.... Che meraviglia di
spettacolo, per San Giorgio! degno proprio d'aver a spettatrici le
montagne da cui scese la vendetta di Annibale e irruppe la furia di
Carlomagno.
*
* *
Un po' più innanzi, uscendo di fra i muri di cinta delle ville, il
maggiore si fermò ad ammirare quel monte di Santa Brigida, che protende
con una curva così graziosa il suo largo fianco nella pianura. I
giardini, le pergole, le siepi, i gruppi d'alberi sono così fitti
dalla cima alle falde, e la vegetazione così rigogliosa, che le
case vi paion tuffate dentro come in un bosco; e son sparpagliate
così pittorescamente per tutta la china, fattorie bianche, cascine
rosse, casette svizzere, torri, nidi nascosti da innamorati, villette
raccolte insieme come un crocchio d'amiche, palazzine pensierose nella
solitudine, file di case poste l'una sotto l'altra a scalinata, e
villini variopinti buttati via a caso per il verde come una grembialata
di camelie e di rose, che lo sguardo v'è attirato in mille punti ad un
tempo, e la fantasia assalita da mille capricci di poeta, e il cuore
punto da mille invidie di comunista.
*
* *
Oltrepassata la villa Vagnone, il De Beaulieu cominciò a cercare
il sito dei ridotti in terra, che il conte di Tessé, comandante di
Pinerolo, aveva fatti costruire per legar la cittadella al forte di
Santa Brigida: tre ridotti, scaglionati lungo la china del monte,
a difesa dei quali eran stati posti cinque battaglioni di fanteria
discesi da Roccia Coltello, dove stava a campo il Catinat con gli
avanzi dell'esercito.
— Qui doveva passar la strada sotterranea, mi disse. — Voleva dire la
strada sotterranea, lunga almeno un miglio di Piemonte, che metteva in
comunicazione il forte con la cittadella. — È probabile che seguitasse
i serpeggiamenti della strada scoperta, — soggiunse. Ci doveva parer
l'inferno là sotto, durante i combattimenti, quando vi s'incrociavano
e vi si urtavano, al chiarore delle lanterne, i feriti portati giù
dalla cima del monte, le compagnie di rinforzo che salivano di corsa,
gli aiutanti di campo che recavan gli ordini del governatore, i
cannoni trascinati a salvamento, i difensori dei ridotti soverchiati,
che precipitavan dentro per le buche travolgendo i prigionieri
esterrefatti, mentre le vôlte del sotterraneo tremavano sotto la pesta
degli assalitori e il fischio rabbioso delle granate. D'una cosa non
sapeva rendersi ragione il maggiore, del perchè i francesi non avessero
pensato molto tempo prima a costruire un forte sulla cima di quel monte
che dominava così terribilmente Pinerolo; perchè è certo che del forte
di Santa Brigida non c'era ancora segno nell'aprile del 1692, e che i
lavori non eran nemmeno terminati al cominciar dell'assedio. — Ecco
San Pietro! — esclamò tutt'a un tratto, accennando giù nella valle
del Lemina il bel villaggio mezzo nascosto nella verzura. — Là seguì
il primo combattimento, il 24 di luglio. C'era il capitano Affs, del
reggimento d'Auvergne, quando il duca Amedeo gli piombò addosso dai
colli con due colonne convergenti, dopo aver spazzato gli altri posti
francesi. Se non accorrevano a liberarlo i granatieri della cittadella,
era spacciato. Deve aver passato un brutto quarto d'ora. — E seguitando
a parlar così, con quella familiarità di linguaggio e con quei
particolari e vocaboli tecnici che ravvicinano tanto gli avvenimenti
lontani, mi dava la gradita illusione di visitare quei luoghi pochi
mesi dopo la pace del 30 maggio del 96, in compagnia d'un aiutante di
campo del generale di Tessé.
*
* *
Continuammo a salire in mezzo alle cascine, alle fattorie, alle ville.
Tutte quelle case, durante l'investimento del forte, erano convertite
in altrettanti ridotti, continuamente presi e perduti dagli assedianti
e dagli assediati, rovinati dagli uni, riattati in furia dagli altri.
Di lì bisognava ad ogni costo che gli alleati snidassero i francesi
se volevan tagliare le comunicazioni del forte con la piazza. Colonne
enormi di tedeschi, di spagnuoli, di savoiardi si precipitavano su quei
fortilizi improvvisati, di giorno e di notte, e attaccavano mischie
orrende tra le siepi, sulle aie, nelle stanze, dove combattevan con le
pistole, con le sciabole, con le baionette, coi calci dei moschetti,
urlando come anime dannate in sei lingue diverse, non rendendosi
prigionieri se non crivellati di ferite, e lasciando il terreno sparso
di tronconi d'armi, di brani di giustacuori, di ciocche di capelli,
di chiazze di sangue. I nobili piemontesi, il conte di Massel, i
marchesi di Parella, di Caraglio, di Bernezzo, facevano sfolgorare
le loro lunghe spade tra i primi. Ogni più breve tratto di trincea
che si aprisse, costava decine di vite di guastatori e di soldati.
Ogni più piccolo avanzamento di batteria scatenava una tempesta di
ferro e di fuoco dai bastioni. Le sortite disperate del presidio
portavan tutt'intorno la rovina e l'incendio come le eruzioni d'un
vulcano. Sterratori, ingegneri, giovani volontari ugonotti, brillanti
capitani cresciuti nelle Corti, veterani canuti di dieci guerre,
vecchi gentiluomini luccicanti d'oro e di seta, stramazzavano a capo
riverso nei fossi delle parallele, sfracellati il petto e la fronte.
Tremila uomini si dice che perdessero gli assedianti soltanto nei
primi quindici giorni. E non si stava molto meglio dentro al forte.
Le bombe vi grandinavano da tre parti, qualche volta trecento in una
notte. Il presidio, formato da principio di quattrocento cinquanta
soldati, scelti tra i migliori nei dodici battaglioni di Pinerolo,
con venti sergenti e venti ufficiali eletti, comandati dal colonnello
Sestribe e dal governatore De Beaulieu, doveva essere rinfrescato senza
posa. I bastioni costrutti di recente, e guasti dalle grandi piogge,
oltre che danneggiati dalle stesse artiglierie della cittadella che
li proteggevano, richiedevano un lavoro continuo e precipitoso di
riparazione. E con tutto questo, il forte tenne duro contro quattro
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