Alle porte d'Italia - 16

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rischiarava l'avvenire a' miei figliuoli, mutava il mondo a' miei
occhi. Il mio Paolo! Il mio figliuolo! Egli fu d'allora il mio idolo,
il pensiero e il conforto mio di tutti i momenti, il sogno luminoso
d'ogni mia notte. Continuamente, senza posa, con un sentimento sempre
nuovo di curiosità amorosa e di tenerezza, riandavo la sua vita fin
dalla culla, i suoi giochi di bimbo, laggiù nei giardini di Cumiana,
la sua allegrezza per il primo cavallo, e poi, con che nobiltà d'animo
aveva sostenuto il nostro cambiamento di fortuna, e la prima volta
che m'era comparso davanti con la divisa di alfiere delle guardie,
sorridendomi con quel suo buon sorriso affettuoso e un po' triste.
Tutto il paese era pieno del suo nome, e lo splendore della sua
gloria giungeva per mille vie fino alla mia solitudine. Il convento
m'era diventato caro, dopo che ci avevo ricevuto la notizia della
sua vittoria, dopo che ce l'avevo visto lui trionfante e felice, con
le braccia aperte verso sua madre! Fu senza dubbio quella gioia che
m'infuse nelle vene come una seconda gioventù, e che mi fece vivere
ancora ventidue anni.... Eppure mi pigliava una grande tristezza,
qualche volta, di non poterlo vedere, di viver sempre così lontana da
lui. Come avrei dato volentieri quasi tutti gli anni che mi restavano
a vivere, per stargli un po' di tempo vicina, per abitare almeno nella
città dov'egli abitava! Mi sarei contentata di vivere a Torino in
una cameretta povera e oscura, di patire il freddo, d'essere sempre
malata, pur di vederlo passare qualche volta a cavallo, alla testa del
suo reggimento, e di sentire il mormorio d'ammirazione della folla,
e delle donne gentili e dei giovanetti dire a bassa voce: È il conte
di San Sebastiano, il figliuolo della marchesa di Spigno. — Questi
desiderii mi soverchiavano il cuore, qualche volta, e mi mettevan
delle malinconie, delle follìe di fanciulla, vecchia com'ero: l'idea di
fuggire a Torino, di andarmi a avviticchiare alle sue ginocchia, come
una disperata, che nessuna forza mi potesse più strappare da lui.... e
piangevo, tutta sola, col viso nelle mani, e desideravo di morire. Ma
poi le tristezze passavano. Una sua lettera, un saluto di lui che mi
arrivasse, mi ridava coraggio, mi rifaceva serena e contenta. E allora
pregavo per lui, di notte, guardando dalla finestra della cella le Alpi
ch'egli aveva difese; e poi guardavo verso Superga, dov'era sepolto il
mio Amedeo, e pensavo ch'egli l'avrebbe amato, che doveva amarlo dal
cielo il mio Paolo, lui, valoroso, che aveva onorato sempre i valorosi;
e che per amor del mio figliuolo avrebbe rivolto un pensiero pietoso
anche a me, alla sua povera compagna di sventura, alla sua fida amica
degli ultimi anni, che pure gli aveva dato qualche dolcezza e qualche
conforto sopra la terra.... E così vissi molti anni, lenti, tranquilli,
uniformi, allietati dalla speranza d'una fine egualmente tranquilla.
Povera speranza! Un nuovo dolore, il più tremendo di quanti n'avessi
sofferti in ottantasette anni, mi stava sospeso sul capo!
— Nel gennaio del 1766, — continuò la superiora, — fece testamento.
Provvide ai suoi figliuoli, legò duemila lire alla sorella Radegonda e
alla nipote Teresa Innocente, e lasciò parecchi ricordi al monastero.
Aggiunse poi al testamento un codicillo, pochi mesi prima di morire,
il quale fu ricevuto da un regio notaio di Pinerolo, Pier Francesco
Raimondi, rammentato nelle carte del monastero; in presenza di due
medici e di due religiosi, frà Maria Lugo minore conventuale e frà
Giusto da Susa Guardiano Cappuccino....
— A poco a poco, — ripigliò la marchesa, con voce tremola, — m'accorsi
che s'andava facendo un cangiamento nel mio figliuolo. Le sue lettere
diventavano tristi. Lasciò il suo reggimento delle guardie, che
amava tanto, e andò colonnello d'un reggimento provinciale; si mise
come in un canto, spontaneamente, senza dire il perchè. Qualche voce
confusa mi arrivò all'orecchio, però: nimicizie di Corte, una guerra
sorda, perchè era il figlio della marchesa di Spigno. Quella notizia
mi passò l'anima! Io dovevo dunque essergli fatale, non c'era pietà,
il mio nome era una maledizione, mi esecravano ancora laggiù, e non
potendo più infierire contro un'ottuagenaria sepolta viva, mi ferivano,
m'uccidevano nel mio figliuolo, in quel figliuolo! Questo mi toccava
ancora di vedere, prima di chiudere gli occhi! Egli tacque per un
pezzo. Poi negò. Non era vero. Non ci dovevo credere. Mi supplicava
di non crederci e di vivere serena. Ma io lo conoscevo. Egli era
buono come un angelo. Sarebbe morto di angoscia, piuttosto che darmi
quella pugnalata al cuore di dire: — Sì! è vero! Io sono odiato e
perseguitato, io sono infelice per cagion tua! — Oh io capivo bene
ogni cosa dal fondo del mio convento. Conoscevo la Corte. Era troppo
duro il dover una grande vittoria e la salvezza del proprio Stato
al figliuolo della reclusa di Ceva, di quella marchesa di Spigno
che s'era fatta strascinar seminuda dai soldati per le stanze del
Castello di Moncalieri, come una ladra di strada. La gloria di quel
colonnello delle guardie era un rimprovero amaro, una vendetta del re
morto e della vedova moribonda, un castigo, un scherno del destino,
che risvegliava dei rimorsi e delle vergogne. Oh! io capii, capii
tutto. Non lo perseguitavano, no; lo torturavano lentamente, facendo
il silenzio intorno alla sua gloria, mostrando di non vederla e
d'ignorarla, dandola ad altri, levandogli l'aria da respirare. Dopo un
po' di tempo non si parlava più di lui. Egli vedeva spegnersi a poco
a poco la luce del suo nome e rifarsi l'oscurità sul suo capo. Povero
Paolo! Era un'anima gentile: l'ingratitudine lo uccideva. Era altiero:
non si ribellava; ma sanguinava di dentro. Per non affliggermi, non
potendo più dissimulare, non mi scriveva più. Io udivo dire che viveva
solitario e malinconico. Poi seppi che la sua salute se n'andava. Caddi
in una profonda tristezza. Passò molto tempo. Avevo ottantasette anni,
non mi reggevo più che a stento. Un giorno che m'aveva dato notizie
migliori di lui, mentre stavo piangendo di consolazione e ringraziando
Iddio, suor Radegonda venne a chiamarmi. Titubava. Capii che c'era
mio figlio. Mi mancaron le ginocchia; mi sostenne. Corsi quasi fino al
parlatorio, appoggiandomi ai muri, trattenendo un grido di gioia.... Lo
vidi, e gettai un grido di dolore! Non era più mio figlio! Incanutito,
consunto, smorto, con quell'impronta che lascian nel viso i grandi
dolori dissimulati; anche la sua voce era mutata, e le sue braccia non
avevano quasi più la forza di stringermi! Solo il suo cuore era sempre
lo stesso. Io diedi in uno scoppio di pianto. — Oh figliuol mio! Paolo
mio! È dunque tutto vero! E per cagion mia! È dunque la tua povera
madre che t'uccide! — Ma egli buono e pietoso negò ancora: non stava
bene, sarebbe guarito, avrebbe lasciato l'esercito, sarebbe venuto
a stare a Pinerolo, per vedermi tutti i giorni. E accomiatandosi, mi
stringeva il capo fra le mani e mi premeva la bocca sulla fronte. E io
quasi tornavo a sperare; ma nel dirmi addio gli sfuggì un singhiozzo.
— Paolo! gridai allora disperatamente, inseguendolo; non ti vedrò
più? Mai più? Senti! Fermati! Perdonami! perdonami! perdonami!... —
Era già lontano. Non mi ricordo più. Mi portaron nelle mie stanze. Da
quel giorno in poi vissi come smemorata. Alla vecchiaia era succeduta
in poche ore la decrepitezza. La notizia della morte di mio figlio,
avvenuta nel dicembre di quell'anno, cadde nella mia cella come in una
tomba. Non piansi più, non mi lagnai più. Il mio cuore era spezzato. La
mia vita era finita.
— Prima di morire, — continuò la superiora, — sofferse una malattia
lunga e dolorosa. Le monache furon chiamate molte volte in furia al
suo letto, che parea che morisse. Ma la sua forza di resistenza al male
era ancora grande. Soffriva con rassegnazione, parlava della morte con
coraggio. Diceva che voleva esser sepolta nel convento in mezzo alle
suore, senza pompa, come una di loro. Nei vaneggiamenti chiamava per
nome i suoi figliuoli, particolarmente il primo, il conte Paolo di San
Sebastiano, e teneva stretto le mani alle monache che l'assistevano,
dicendo parole dolcissime....
— La mia vita era finita, — riprese la marchesa con voce stanca. — I
tre anni che durai ancora dopo quel giorno, non furono che una morte
lenta. Non ho più che una reminiscenza oscura di quel tempo; intorno
a me non si movevan più che delle ombre, e le voci che mi parlavano
mi parevan di gente molto lontana. Era una mattina di primavera....
Sentii che doveva esser l'ultima. Da molto tempo soffrivo atrocemente,
e desideravo di morire. Feci girare il mio piccolo letto verso la
finestra per vedere ancora una volta quelle belle montagne, dove il
mio povero Paolo aveva combattuto. Le monache mi stavano intorno in
ginocchio. Perdonai a tutti, domandai perdono a tutti. Sentii che
piangevano. Bianca di San Germano mi baciò. Resi l'anima a Dio. Così
finì la marchesa di Spigno. Ecco la mia vita. Un peccato d'orgoglio,
pochi giorni d'ebbrezza e quarant'anni d'espiazione, cominciati e
finiti con due tremendi dolori.... Scrivete ora, signore, e siate
giusto e umano. Fate che chi passa sotto queste mura non dica più,
sorridendo: — Qui morì la bella di Vittorio Amedeo, la regina fallita.
— Oh non sorrida, per rispetto al mio figliuolo! Fate che si dica d'ora
innanzi: Qui morì la madre del vincitore dell'Assietta. Non domando
altra indulgenza al mondo, e non la domando per me. Sia benedetto chi
l'avrà. Ne esulterà l'anima del mio Paolo. Addio.
— Morì la mattina dell'undici di aprile, — mormorò la superiora,
terminando; — l'anno 1769, il giorno anniversario della sua nascita,
nel quale compiva novant'anni. Il cadavere fu vestito degli abiti
monacali ed esposto, secondo l'uso, sopra un catafalco, nel mezzo della
nostra chiesa. Poi fu calata nei sotterranei del monastero. Non c'è
pietra che indichi dove sia; il nome non è iscritto da alcuna parte.
Tale fu l'ultima volontà della morente. Ma la sua memoria è sempre nel
nostro pensiero e nel nostro cuore. Sia pace all'anima sua.
Seguì un profondo silenzio. La superiora non aveva più nulla a dire.
La signorina riprese il suo ritratto e lo fece ripassare dall'altra
parte della ruota, dove una mano invisibile lo raccolse. Le due
monache fecero un saluto del capo, e sparirono, come due larve. E noi
uscimmo in silenzio. In quel breve tempo la marchesa di Spigno s'era
interamente trasformata nella mia mente. Fino allora, la prima immagine
che mi aveva sempre destato il suo nome, era quella di una signora
vezzosa e superba, che passava per la sala d'una reggia, in mezzo a due
ali di dame, sfolgorando di gioia. Dopo d'allora non vedo più che una
vecchia novantenne, che attraversa, brancolando, i corridoi tristi d'un
chiostro, fulminata dal dolore. E perchè la stessa trasformazione, che
è l'effetto d'un cambiamento di giudizio storico, s'operi in qualchedun
altro, ho scritto queste pagine.
Le dedico alla nobile, gloriosa, benedetta memoria del tenente-colonnello
delle guardie, conte Paolo Federico di San Sebastiano.


LA ROCCA DI CAVOUR

La campagna era velata da una nebbia leggiera, in cui erravano dei
grandi nuvoli di fumo, sollevati da mucchi accesi di gramigna. Il sole,
appena uscito, pareva che avesse una mezza idea di tornare in casa,
e andava tentando l'aria con dei raggi pallidi, che ritirava subito
indietro, come tentacoli scottati dal freddo. L'aria mordeva in fatti:
i pochi viaggiatori seduti nei carrozzoni del tranvai a vapore avevano
il becco rosso, e i miei due compagni non finivano più di fregarsi
le mani, come se partendo da Pinerolo avessero ricevuto un sacco di
buone notizie. Uno era un grosso proprietario, una specie di borghese
campagnuolo, appassionato per l'agricoltura, per quella pratica,
come diceva lui, non per quella dei professori: una faccia paciona di
cinquant'anni, atteggiata a un perpetuo sorriso canzonatorio; l'altro,
un ex professore ginnasiale, grande amatore di storia patria, e
parlatore compassato e forbito, che s'era offerto gentilmente di farmi
da guida storica. Eran gli ultimi giorni d'ottobre, quando la campagna
piemontese spiega in tutta la loro bellezza i colori pomposi e tristi
dell'autunno. Il treno correva in mezzo a vigneti color di porpora,
a macchie di pioppi e di roveri svariati di giallo e di vermiglio,
a boschi d'oro, a lunghe file di gelsi color di zolfo e di terra di
ocra, macchiate qua e là dalle chiome ancora verdi di qualche albero
ostinato a non invecchiare; e di là dagli alberi, fuggivano dalle due
parti della via i prati vaporosi e i campi lavorati, nei quali spuntava
il grano, come una barbetta rada e fine d'adolescente. La campagna era
solitaria; solo qualche villanella bionda, appoggiata al rastrello,
alzava gli occhi verso il treno con quell'espressione.... con nessuna
espressione. La gente faceva ancora il sonnellino di giunta della
mattina, aspettando a svegliarsi del tutto che il sole desse il buon
esempio, e i villaggi per cui passavamo, cominciavano appena a schiuder
gli occhi e a stirare le braccia. Vedemmo però in un vicolo d'una
borgata, passando, una comitiva nuziale di contadini, che aspettavan
davanti a una porta: una sposa rossa, con grandi nastri bianchi sulla
cuffia, le comari in pompa magna, gli uomini vestiti di nero, tutti
immobili impalati, ma con gli occhi accesi dal dolce pensiero della
scorpacciata e della sbornia. Siano felici senza moltiplicarsi! A tutte
le fermate salivan delle contadine con dei grandi cesti pieni d'ova
e di polli; in poco tempo ci fu tanta roba da sfamare una compagnia
di soldati alpini. Andavan tutti al mercato di Cavour, che è dei più
grossi del circondario; e si capiva dai visi immobili, e dal modo
come si fissavano gli uni con gli altri senza guardarsi, ch'eran tutti
occupati a sommare, a sottrarre e a dividere i quattrini che speravan
di guadagnare: alcuni ragionavan tra sè movendo le labbra, altri
facevano il conto con le dita, senza alzar la mano dal ginocchio, per
non farsi scorgere. Nessuno discorreva. Si sentiva un odore acuto di
cacio pecorino e di tartufi bianchi. Mi pareva di trovarmi in un treno
speciale di Francesco Cirio, mandato sotto la mia alta direzione a
portar le provviste del banchetto a una festa inaugurativa.
*
* *
Scendemmo all'entrata di Cavour, in pieno mercato d'animali neri, o
canarini da ghiande, come si chiamano con gentile metafora in dialetto
piemontese. La borgata, che conta circa ottomila abitanti, è tutta
fabbricata sul piano, ai piedi della rocca famosa, alla quale deve
la sua gloria e le sue sventure. Come tutti i piccini a cui manca
l'occasione di paragonarsi, quella rocca ha l'aria di credersi una
gran cosa; e in fatti, vista di là sotto, benchè non sia alta più
di due volte il campanile di Giotto, e se ne possa fare il giro in
mezz'ora, presenta l'apparenza d'una montagna, certe forme larghe e
maestose di gigantessa alpina; e pare anche più grande all'occhio per
effetto del mantello denso di vegetazione che le avvolge le spalle
e i fianchi rocciosi. A primo aspetto, fa colpo, non c'è che dire.
Chi capitasse là senza sapere, la crederebbe un monte artificiale,
innalzato dal capriccio mostruoso d'un tiranno antico; una specie di
colossale osservatorio guerresco, fabbricato per tener d'occhio tutti
i feudatarii della pianura, dalle rive del Po alle rive del Sangone.
Si capisce come sia stata sempre oggetto di meraviglia, cominciando da
Plinio, che scrisse di non aver mai visto _montem a montibus separatum
nisi montem Caburri,_ e venendo fino a Carlo Denina, il quale la
credette un masso precipitato dalle Alpi, e ad altri che la ritennero
uscita tutta sola fuor dalle viscere della terra, quasi all'improvviso,
come la testa d'un titano sepolto, curioso di vedere coi suoi occhi
come andassero le faccende di Casa Savoia. La sua origine, con tutto
questo, non ha nulla di meraviglioso: è l'estrema punta, o come
suol dirsi, l'ultimo sperone del contrafforte alpino il quale scende
dal monte Granero a dividere la valle del Po da quella del Pellice;
sperone il quale si innalza in modo notevole rispetto alla giogaia di
cui è termine (il che si vede di frequente), con questo di singolare
peraltro: che appare isolato perchè la catena di rocce che lo riunisce
al contrafforte delle Alpi è tutta coperta e perfettamente nascosta dai
materiali d'alluvione che vi si sono accumulati in tempi antichi. Non
è dunque un'avanguardia solitaria, una sentinella perduta dell'immenso
esercito alpino; ma la testa d'una colonna non interrotta che fa la
sua strada sotto terra. È un peccato. Sarebbe certamente più poetica
se fosse ruzzolata giù dal Monviso come il masso della similitudine
manzoniana, tanto più che i Cavorresi potrebbero vivere sicuri di non
vederla mai riportare in alto da una _virtude amica_. Ma pure senza
la origine meravigliosa, questo enorme blocco di gneiss (celebre fra
i naturalisti per i bellissimi cristalli di quarzo affumicato che si
ritrovarono nelle crepe delle sue rocce) è una fortuna per il paese:
è il suo monumento storico e la sua bellezza, gli fa ombra e fresco
d'estate, e lo ripara dai venti australi, e serve di rifugio agli
innamorati e di belvedere agli artisti, e frutta di tanto in tanto
il desinare d'un mineralista o d'un geologo al _Persico reale_ o alla
_Posta_. (Domandare il fritto di trote.)
*
* *
La borgata somiglia a tutte le altre borgate del Piemonte: pulita,
di colori allegri, nessun monumento, molte osterie. Percorrendo la
strada principale riuscimmo nella piazza del mercato. C'era pieno
zeppo di gente: delle file di contadine venute da tutti i dintorni, e
una doppia processione di uomini e di donne della campagna, pigiati
come all'uscita d'una chiesa: per tutto ceste d'ova e di polli,
panierone colme di burro, mazzi di capponi alla mano, gabbioni pieni
di galline, d'oche, di tacchini, di conigli: una profusione di roba
grassa, cicciuta, soda, fresca e sana, ch'era un gusto a vedere. La
prima cosa che mi diede nell'occhio furon le polpe colossali di certi
preti che passavan tra la folla: delle colonne, Dio li benedica, da
disgradarne il Biancone di piazza della Signoria. Poi i cappelli delle
contadine, curiosissimi: dei cappelli di paglia gialla, di tesa molto
larga, foderati di stoffa di sotto, fasciati di sopra di larghi nastri
di seta o di velluto ricascanti fin sulla schiena, coperti d'un velo
di tulle nero, frangiati di conterie, ornati di penne, di rose, di
mazzi di fiori finti, di catenelle d'ottone, di fermagli della forma
di chiavi o di spade: dei veri botteghini da merciaio, con le più
bizzarre stonature di colori che si possano immaginare. Molte avevan
delle collane dorate a varii giri, dei grossi orecchini da madonna,
e dei fazzoletti da collo gialli o scarlatti. C'eran dei bei pezzi
di donne e dei bei fusti di ragazze, con dei colori di mela appiola,
coi capelli d'un biondo di spiga, serrati sulle forti nuche come nodi
di corda; larghe di spalle e di fianchi, tutt'altro che piallate,
piantate diritte e salde in terra come pilastri, e così strette le une
alle altre, che per passare bisognava strofinarsi alle gonnelle e ai
grembiali e si sentivan da tutte le parti delle rotondità resistenti e
dei fiati caldi. Era davvero un mercato di contadini piemontesi. Fuor
che gli strilli dei merciaiuoli dei baracconi, non si udiva una voce
più alta dell'altra: nessun dialogo concitato, nessun gesto impetuoso,
nessun viso acceso; una placidità di aspetti straordinaria, le mani
quasi immobili, dei sorrisi quieti, un girar lento del capo e degli
occhi, un contrattare a parole riposate e sommesse. Mi pareva che
tutte quelle donne non fossero mai state agitate da una passione e che
dovessero dar l'amore come davan le ova. Eppure.... Ci trattenemmo
un poco ad ammirare le bellezze più vistose; ma i nostri sguardi
ammirativi, interpretati prosaicamente, non avevano altro effetto
che di far alzare le galline verso di noi, in atto d'offerta. Provai
però un vero piacere a girare, a sguazzare dentro a quell'abbondanza
di tutto, a sentir tutti quei soffi di salute, quell'odor di stoffe
da sedici soldi il metro, di capelli lisciati con l'acqua, di latte,
di paglia, di piccionaia, di conigliera: mi pareva di purificarmi per
un mese di tutti i profumi da parrucchiere, di tutti gli odori acri
e misti di cattive salse, di botteghe umide e di teatri sudici, e
di libri odiosi e di prove di stampa più odiose, che ero costretto a
respirare in città. E non fu così facile levarci di là dentro. Alla
uscita della piazza ci trovammo chiusi in mezzo a un gruppo di poderose
venditrici di cacio, e ci bisognò fare alle gomitate; poi la cesta di
una bella pollaiola mi separò dai compagni; infine non ebbi più che da
dividere due maschiotte marmoree che chiudevan la via, e mi ritrovai
all'aperto con gli altri, tutto fragrante di latticini e di galliname.
*
* *
Eravamo in un'altra piazza; entrammo un momento nella chiesa maggiore,
grande e vuota, dove la voce del prete che diceva la messa era coperta
da un cinguettìo sonoro d'uccelli che svolazzavano per le navate; e
poi ci avviammo per salire sulla rocca. In quella stessa piazza, dov'è
ora una bella fontana di pietra, si crede, da certe iscrizioni antiche
state scoperte nel paese, che ci fosse un bagno e una piscina, fatti
costrurre in un podere proprio, e poi donati ai suoi concittadini,
_municipiis suis,_ da una Seconda Asprilla, sacerdotessa d'un tempio
consacrato a Drusilla, sorella di Caio Caligola. — Non solo — mi diceva
forbitamente il professore; — ma è tra i cultori di studi archeologici
fondata opinione che l'antico bagno traesse alimento dalla sorgente
medesima, che fornisce l'acqua alla odierna fontana. — Ma qui fu un
vero divertimento, perchè il buon proprietario agricolo professava una
tale pietà per tutte quelle _bale_ di erudizione antica, e deplorava
così sinceramente che persone di buon senso ci sciupassero il loro
tempo invece di consacrarsi all'agricoltura “vero fondamento degli
Stati„ che gli pigliava mal di stomaco solamente a sentirne discorrere;
e guardava il mio professore con una faccia così provocante, fra la
finta maraviglia e la corbellatura, che quello ci s'inverdiva dalla
stizza, benchè mostrasse di non badarci. Già, mentre stavamo per
entrare in chiesa, a sentir dire che Annibale aveva accampato vicino a
Cavour l'ala sinistra del suo esercito (il qual fatto, oltre a potersi
dimostrare probabile con certi passi di Tito Livio, veniva provato
dai molti denti d'elefante che avevan ritrovati in quelle terre),
si era soffermato in mezzo alla piazza, guardando fisso l'amico,
come si guarda un matto da legare. Ma quando poi sentì aggiungere
quella del regalo del bagno, e d'Asprilla, e di Drusilla, non si
potè più contenere. — Non creda, sa, — mi disse; — son tutte cose che
combinano fra loro i dottoroni. Già Cavour non è mai stato paese di
forestieri. — Il professore fece un sorriso di infinito disprezzo, e
ripigliò il suo discorso. La cosa era fuor di dubbio. Cavour era stato
una colonia romana, e doveva aver avuto una fortezza e un presidio;
negli scavi fatti in vari tempi, s'eran trovati cippi, capitelli con
l'effigie di Romolo e di Remo, avanzi di acquedotti, statuette di
metallo, lumicini, lacrimatoi, monete, medaglie; fra le quali essendo
in maggior numero quelle del tempo di Nerone e degli Antonini, c'era
luogo di credere che fosse stato sotto questi imperatori il periodo di
maggior floridezza dell'antica Caburrum. In seguito le eran toccate
le avventure comuni a quasi tutte le città e alle borgate di quella
parte del Piemonte: distrutta dai barbari, ridistrutta dai Saraceni,
soggetta al contado di Torino al tempo dei Franchi, castellania sotto i
marchesi di Susa; poi posseduta dai Conti di Savoia, conquistata dagli
Astigiani, caduta in potere dei principi d'Acaja, ceduta ai signori
di Racconigi, tornata daccapo alla Casa di Savoia. E mentre ascoltavo
questa litania di trattati, di assedi, d'incendi e di miserie, salivamo
su per una viottola petrosa, in mezzo a un bosco di piccoli castagni,
di querciuole e di marruche, colorite di tutte le sfumature del giallo,
dal cadmio allo zafferano, e ancora verdi qua e là, e come brizzolate
da una polvere dorata, che un soffio di vento dovesse portar via. Non
c'eran case, non s'incontrava nessuno. Non si sentiva che il verso
d'una ghiandaia, su in alto.
*
* *
In mezz'ora arrivammo sulla cima. Sono tre punte, distanti un cento
di passi l'una dall'altra: quella di sinistra, chiamata la punta dei
cani; quella di destra, del castello; quella di mezzo, del torrione.
La prima non è notevole che per un precipizio spaventoso che le s'apre
sotto, una specie di Salto di Tiberio, il quale misura tutta l'altezza
della rocca, diritta, da quella parte, e terribile, come la muraglia
d'una fortezza ciclopéa che minacci gli sbocchi delle valli alpine.
Sulla punta di mezzo, non rimane più dell'antico torrione di Bramafame
che un pezzo di muro rotondo, alto quanto il parapetto d'un pozzo, con
due cannoniere, circondato di rose selvatiche e d'erbacce. La punta
che serba maggiori avanzi è quella del castello. Ed è anche la più
ardita e selvaggia: un gran masso, una specie di gobbo enorme della
rocca, inaccessibile da ogni parte, fuorchè per una scaletta informe,
cavata nella roccia viva, e tutta incisa di nomi e di date cubitali;
salendo per la quale si riesce con un giro sopra il piccolo spianato
dove sorgeva il castello. Qui, per una rete di piccoli sentieri che
salgono e scendono tra i pruni, le ortiche e le vitalbe, si gira in un
labirinto di rovine, in mezzo a buche di cisterne e di sotterranei, a
frammenti di muri forati da feritoie, a traccie malcerte di porte, di
scale e di segrete, da cui è quasi impossibile raccapezzare la forma
del castello; il quale doveva essere angusto, peraltro, e intricato,
e lugubre: uno spauracchio di castellaccio da streghe e da corvi, non
meno triste per chi ci stava dentro a difenderlo, che tremendo per chi
l'aveva da assalire. Eretto su quella cima, proteggeva mirabilmente la
borgata sottoposta, che era tutta chiusa in una cinta rettangolare di
muraglie turrite, le quali si prolungavano salendo su per la rocca,
fino a congiungersi col castello e col torrione; legati anche questi
fra loro da un parapetto, o da altra opera di difesa, intagliata nel
sasso, al di sopra dei passi più scoscesi. Tale era la fortezza di
Cavour sul finire del secolo decimosesto quando se la disputarono il
generale Lesdiguières e Carlo Emanuele I, i due sovrani giostratori di
quella guerra avventurosa e memorabile, con la quale il duca di Savoia
iniziò la grande politica dell'altalena fra la Spagna e la Francia:
ben combinati davvero, e fatti proprio a misurarsi, per temerità di
capitani, e per coraggio di soldati, e per prudenza, e per astuzia,
e per generosità usata a tempo, e per magniloquenza spiegata sempre.
Il castello, si capisce, non poteva esser preso che per blocco. Non
riuscì a conquistarlo per assalto il Lesdiguières, neppure dopo essersi
impadronito del torrione, e averci fatto tirar su a forza di braccia
e d'argani due pezzi d'artiglieria, coi quali fulminava le mura a
cento passi, e ogni colpo era uno sdrucio: i quattrocento difensori,
comandati dal conte Emanuele di Luserna, non si arresero che per fame.
E neanche lo potè pigliare di viva forza Carlo Emanuele, malgrado la
gran voglia che ne aveva, e il grosso esercito vittorioso che teneva in
pugno: dovette costruire nel piano cinque fortini, e aspettare che al
presidio non rimanesse più nè acqua nè pane. E l'una e l'altra volta i
difensori uscirono con l'onore delle armi. Poveri cadaveri ambulanti!
Doveva essere uno strazio d'inferno l'idea di morir digiuni lassù,
pigiati in quella tetra bicocca, frecciati a traverso alle feritoie da
quell'aria viva dei monti che mette nel corpo dell'uomo la voracità
della fiera, e sentirsi torcere le viscere dalla fame e dalla sete
vedendo giù nel piano fumar le cucine dei vivandieri, passare i carri
carichi di pane, e correre i rigagnoli argentini in mezzo ai campi!
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