Alle porte d'Italia - 20

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che condussero per il passo della Reit la colonna dello Zambelli a
sorprender la compagnia austriaca nel fortissimo sito dei Bagni vecchi.
C'è dei giovani della gola del _Ponte del diavolo_ che hanno visto
da fanciulli fuggir gli austriaci sotto le fucilate delle guardie
nazionali del Guicciardi. — E voi non v'entusiasmate? — domandai
all'agronomo. Questi rispose che non conosceva i vini della valle. Ma
ammirava l'aspetto guerresco dei soldati: carnagioni più sanguigne,
occhi e capelli più chiari di quelli del battaglione della valle bassa,
visi ossuti e gravi, su cui pareva improntata l'austerità selvaggia
dei loro luoghi nativi. Erano vigorosi montanari del bel bacino di
Sondrio e delle valli solinghe del Livrio e di Venina, giovani nati
nella spaurevole bellezza di Val Malenco e alle falde del monte delle
Disgrazie; figli della turrita Bormio, triste della sua gloria caduta;
cresciuti in quel labirinto di valli, di balze, di gole, d'abissi,
gioia e disperazione degli alpinisti, che si stende e s'inalza intorno
a Bormio fino al gruppo dei giganti dal capo eternamente candido, a cui
impera l'Ortler titano. — _Ludri!_ — gridava Rogelli pien d'entusiasmo;
— ragazzi con le gambe d'acciaio e col fegato di bronzo, che cimentan
la vita per andar a strappar gli ultimi fili d'erba sull'ultime
roccie che pendon sui loro villaggi; lestofanti che, dopo una marcia
da ammazzare i muli, domandano un permesso di dodici ore per andarne
a passare una e mezza a casa loro, e partiti a piedi a mezzanotte,
ritornano al campo a mezzogiorno, a restituire la penna d'aquila che si
son fatti imprestare dal compagno per far colpo sull'amorosa. Questo
particolare fece sventolare il fazzoletto alla signora Penrith, che
s'attirò uno sguardo riconoscente d'un caporale della terza compagnia.
Molte persone si levarono in piedi, le grida raddoppiarono. Alcuni
gridavano a caso dei nomi sconosciuti di paesetti rimpiattati fra le
rupi, — nidi di fabbricatori invernali di sedie e di culle, nei quali
il parroco è maestro, medico, oste e scrivano; — e qualche soldato,
al suon di quei nomi, voltava il viso, con una vaga espressione
di curiosità e di compiacenza; e allora molte voci e molte mani lo
salutavano. E così passò l'ultima compagnia assordata dagli evviva,
ricacciando a destra e a sinistra, coi suoi plotoni inflessibili, le
onde irrompenti della folla.

Seguirono alcuni momenti di silenzio e poi scoppiò una di quelle
tempeste di voci umane, di cui si porta l'eco nell'anima per la vita.
Erano i figli della _lionessa d'Italia,_ era il battaglione della
valorosa Val Camonica, che s'avvicinava, bello, serrato, superbo;
svariato di tipi singolarissimi, dai giovani tarchiati, di viso
largo e diritto, di naso ricurvo e d'occhi neri, rivelanti l'antica
immigrazione umbra ed etrusca in Val dell'Oglio; alle alte figure
bionde, dal viso rotondo e dagli occhi celesti, che tradiscono
gl'innesti slavi, longobardi e alemanni; un mirabile battaglione
davvero, un torrente di sangue caldo e generoso, di gioventù audace
e possente, altera del nome bresciano, pronta in pari modo alle
violenze dell'ira e alle ispirazioni d'ogni affetto più nobile; dal
cui linguaggio tronco e vibrato traspare la bontà risoluta e sincera.
Nell'altissimo grido: — Viva Brescia! — che alzò la moltitudine, v'era
un saluto agli eroi della grande difesa del 49: — i soldati capirono; —
e tutti quegli occhi corruscarono come carboni accesi. Erano abitatori
degli aspri monti forati come madrepore dalle cave di ferro; figlioli
del solitario Bagolino, discendenti dei _bellicosissimi hominum,_
rispettati da Bruto; ardimentosi cacciatori d'orso di Monte Vaccio;
e aitanti mandriani di Mù e di Saviore; eran lavoratori di metallo
di Val Gobbia, lavoratori di marmo di Rezzato, tagliatori di pietra
di Cortenèdolo, e carbonai di Pezzo, cresciuti sotto la selva sacra
degli abeti e dei larici giganteschi, da cui scende a valle di notte
il prete favoloso che cresce di statura a ogni passo. E ci balenava
alla fantasia il romantico lago d'Iseo, mentre passavano, e l'Idro alto
e triste, e la faccia tetra del Lago nero, e i riflessi argentei del
Lago bianco; e la piccola Salò, madre gentile di figliuoli forti; e
tutti quei poggi e tutte quelle valli, già rosseggianti di divise e di
sangue garibaldino, i cui nomi ci avevan fatto tanto battere il cuore
nel 66; e sentivamo tra gli squilli delle trombe sibilare al vento le
fitte selve di quel piccolo Eden alpestre di Val di Scalve, e ruggire
precipitando l'Ario furioso, coronato di mille arcobaleni. Chi sa che
non ci fosse un soldato di quell'indimenticabile villaggio di Cimbergo,
appiccicato alle altissime rupi come un nido d'aquila? o l'ufficiale
che battezzò il _passo della tredicesima_ ai piedi del Monte Adamello?
Il Rogelli conosceva tutti, chiamava dei sergenti per nome, salutò con
espansione il comandante della fortunata compagnia che si gode l'estate
all'ombra dei colossali castagni d'Edolo, nell'antico luogo di passo
dei pellegrini diretti a Roma e a Terra Santa; e non sentiva la voce
insistente dell'agronomo che gli chiedeva notizie del vin di Volpino;
mentre la folla gridava freneticamente, agitando fazzoletti e cappelli:
— viva Val Camonica! viva Brescia! viva gli eroi del 49! e gli ultimi
due plotoni passavano, con l'anima e gli occhi rivolti al Re, lasciando
come un ribollimente di procella in tutto quel sangue italiano.
Altre trombe squillarono, un nome sonò, e mille nuove immagini, come
un getto di scintille di mille colori, ci luccicarono alla mente:
colli verdi, antiche torri, un gran fiume, e Giulietta, e l'Arena, e
le tombe, e Dante esule, e Catullo, e i grandi quadri del Veronese:
quanta Italia! S'avanzavano le compagnie dei _Monti Lessini_, dei
giovani alti, di forme fatticce e svelte, e d'occhio vivo: nati in
buona parte su quei benedetti colli che sentirono tuonare il cannone
della speranza nel 48, nel 59 e nel 66, e tre volte videro la speranza
svanire all'orizzonte col fumo delle ultime cannonate. La folla li
accolse con una musica strepitosa di battimani e d'evviva, dominata
dal bel nome di Verona. — Son facce simpatiche, — disse la signora; —
ci son già dei tipi veneziani. — Ci son dei nativi di Valpolicella,
— osservò l'agronomo, scotendo il capo, come per dire: — fortunati
mortali! — Il Rogelli inneggiò alle bellezze dei Monti Lessini, vestiti
d'un verde di smeraldo, picchiolati di centinaia di fattorie, dove
si beve un latte da principini ereditari, di cui gli alpini si fanno
delle spanciate da vitelli. Egli era stato l'anno innanzi con una
compagnia alpina nella valle di Bertoldo, dove l'illustre Bertoldo
è nato, ed era andato ad affacciarsi al grande baratro del vallon di
Campegno, a quello spaventevole pozzo, dove si conserva il ghiaccio
eterno; — e aveva tirato indietro per i capelli, appena in tempo, uno
di quegli scervellati ragazzi, che faceva la marionetta sull'orlo.
Aveva praticato tutt'e quattro le compagnie. V'erano giovani di tutte
le parti del Veronese; di quelli degli ultimi gioghi del regno, nati
alle porte sospirate del Trentino; coltivatori dei campi di battaglia
di Pastrengo e di Rivoli; e colligiani cresciuti sulle ariose alture da
cui minacciano ancor la campagna i castelli diroccati degli Scaligeri.
— O bel paese! — esclamò. — O Caprino! O Bardolino! O San Pietro
Incariano! — Ah sì, gli si poteva far eco. O bel monte della Rocca
di Garda, dai burroni fasciati d'ulivi e di mirti, che si dipingon
sull'acque! O bell'orto d'Italia, monte Baldo glorioso, dalle smisurate
radici, che vedi da una parte ai tuoi piedi la calata maestosa
dell'Adige, aspettato all'amplesso dalla sua metropoli armata, e
dall'altra quella bellezza infinita d'isole e di penisole, di castella
e di porti, e d'inaccessibili rupi e di fosche selve, e i battelli
scorrenti sull'acque limpidissime del Benaco, o i cavalloni furibondi
che sollevano sino al tuo capo il muggito della tempesta! Bella e cara
terra, amata d'un amor sacro e triste da chi ti vide per la prima volta
dalle alture insanguinate di Monte Croce! — _Bei e cari fioi pieni de
cor e buon umor!_ — esclamò il Rogelli. Marcerebbero tutto il giorno
per poter ballare tutta la notte! E raccontò che mentre egli arrivava
morto alla tappa, essi facevano sbucare le montanine non si sa donde, e
ballavano a suon di tromba e a lume di luna per tre ore gonfiate, e poi
andavano ancora a implorar dal capitano un'ultima polka, con l'aria di
chi chiede la grazia della vita. — Viva gli Alpini, _ost...!_ — gridò.
— E mille voci ripeterono: — Viva gli Alpini! Viva i Monti Lessini!
Viva Verona! — E un visibilio di fiori cadde sui talloni delle ultime
file, che disparvero nel polverio della piazza, insieme alla visione
del Lago di Garda.

E s'avvicinò il battaglione Val di Schio. A noi parve d'udire uno
strepito diffuso d'opifici, e di veder sorgere alle falde dei bei monti
vicentini centinaia di case d'operai, fiancheggiate d'orti: una piccola
città americana, piena di scuole e d'istituti benefici, formicolante
d'operai lanaioli, con la gazzetta spiegata fra le mani; e davanti
tutte le alture, la forma graziosa di Monte Summano, colorito di
fiori. La folla si cacciò innanzi dalle due parti, curiosa, gridando
viva Vicenza, viva Schio, viva Thiene. Eran soldati vivaci, facce
espressive, fisonomie di montanari sagaci e ragionatori. Il Rogelli
si vantava di distinguere una valle dall'altra, di riconoscere i
valdagnesi d'origine nordica, scesi dai monti dirupati di Recoaro, da
quelli dell'angusta valle dell'Astico, nati all'ombra del _Capel del
Dose_. Ma era pura millanteria. Il battaglione, peraltro, presentava
una varietà notevole di volti, e tutte le sfumature immaginabili
del biondo dei capelli e del rosso delle carni. Erano bei fusti di
giovanotti, degni rampolli di quegl'indefessi contadini del Canale
di Brenta che lavorano da tre secoli a convertire in campi fecondi le
nude rocce; figli della antica lega dei Sette Comuni, gloriosa dei suoi
cinquecento anni di governo autonomo, e della sua fedeltà cavalleresca
a San Marco; ingagliarditi alle aure “pregne di vita„ dei boschi e dei
pascoli sull'ubertoso altipiano che si leva tra la provincia di Vicenza
e Valsugana. Chi sa! Ve n'eran forse parecchi nati in quei villaggi
fuori di mano, dove si parla ancora il dialetto cimbro; v'era certo
qualcuno di quegli ossuti ed agili montanari che tiran giù le slitte al
fondo della valle dal bel villaggio d'Enego; e non pochi, senza dubbio,
che avevan già fabbricate molte migliaia di quei milioni di scatole e
di secchie che portano sin di là dall'Oceano il modesto nome del loro
paese. Vaghi paesi, leggiadre borgate dai tetti aguzzi, dove suona il
canto melanconico delle bionde intrecciatrici di paglia, solitudini
predilette dalle fate bianche che regalano le matasse miracolose, o
infestate dai nani rossi, che scarmigliano i capelli alle ragazze;
riposte valli dalle leggende eroiche e dalle tradizioni misteriose,
piene di poesia e di bellezza, troppo ignorate da noi, vagabondi
cercatori d'ispirazioni straniere! E tu pure ci avevi in quelle file il
tuo sangue, o bella madre di pittori, vecchia Bassano dai verdi poggi,
donde
scende la Brenta al mar tacita e bruna,
e tu Marostica industre, che tendi al cielo, come un braccio titanico,
il nero torrione di Can Grande; e tu, tomba famosa dell'insuperabile
cantor maccheronico, o Campese; e tu, Asiago ridente, che spandi per
monti e per valli gli accordi armoniosi delle tue campane, vibranti
ancora nell'anima dei tuoi figli lontani come la dolce voce dei
parenti! — Viva Bassano! — gridò la folla. — Viva Recoaro! — Viva
Valdagno! — Il Rogelli urlò: — Viva i Sette Comuni! — Ma la signora
l'interruppe per domandargli se sapeva delle parole cimbre. Ed egli
disse rapidamente: — _Kersa, pluma, langez, sbalbala, taupa, veuer,
stearn, sela, engel, Got_. — E siccome l'entusiasmo lo metteva in vena
di galanteria, tradusse con un crescendo appassionato: — ciliegia,
fiore, primavera, rondine, colomba, foco, stella, anima, sole, angelo,
Dio. — E matto, come si dice? — domandò mistress Penrith. — _Narre!_
egli rispose, esaltandosi. Ebbene? Sì, oggi son matto, e dico che
un vecchio italiano che non diventa un po' matto, al veder passar
tutti insieme per la prima volta i figliuoli armati delle Alpi, ha
meno cervello in capo di quelli che lo perdono! Ah! poveri patriotti
morti, poveri nostri vecchi sepolti, che non li potete vedere! — Ed
eccitato com'era, si sarebbe lasciato soverchiar dalla commozione, se
gli applausi fragorosi che salutavano Val di Schio, non fossero stati
interrotti improvvisamente da uno squarciato grido: — Val Brenta! — che
annunziò un nuovo battaglione.

— Val Brenta! — rigridò la folla voltando le diecimila teste verso
il battaglione che s'avvicinava. Fu come un soffio d'aria di Venezia
che ci venne in viso. — L'agronomo fece l'atto della deglutizione,
socchiudendo gli occhi, e sclamò: — Ah! l'eccellente _Verdiso!_ — Ecco
gli Alpini di
là dove il Sile a Cagnan s'accompagna.
Era Treviso che veniva innanzi, la prediletta amica di Venezia, la
giovanile e arguta Treviso, felice della divina ricchezza d'acqua,
d'aria e di verde che le dà salute e fragranza. Eran soldati d'aspetto
geniale, d'occhi sfavillanti, d'andatura viva e sciolta; figure di
montanari, molti, ma come ingentiliti anche di fuori dallo spettacolo
d'una bella natura, illeggiadrita dall'arte; molti visi che facevano
supporre una vena di bizzarria piacevole, estri di capi originali,
fantasie vivide e mobili come fiammelle agitate. — Questi son di buon
umore! — esclamò il Rogelli. — Non c'è caso che lascin languire la
conversazione al bivacco o morire il canto per via. E una destrezza a
menar le forbici! Ma da ragazzi di garbo, senza forare la pelle. Hanno
il folletto in corpo. È uno spasso. — La folla li assordava d'evviva,
essi sorridevano. Si pronunziavano da ogni parte, come nomi d'amici,
i nomi dei loro paesi, così noti e simpatici a tutti; e la prode
Conegliano passò, con le sue torri e i suoi cipressi, bella come un
sogno di pittore, e quel beato angolo di terra di Valdobbiadene, quasi
diviso dal mondo, e i colli di Montebelluna, sparsi di ville, vestiti
di pampini, irti di frutteti, e l'adolescente Vittorio, chiusa fra le
braccia dell'Alpi. — Ah signori, Asolo! — esclamò la signora Penrith,
appuntando il dito bianco sulla tabella di reclutamento. — Pensare che
ci saranno dei soldati di Asolo! Cugino, indicatemi i soldati d'Asolo!
— Questo superava la percezione e la presunzione anche del Rogelli.
Ma la signora non insistette, chè già l'aveva portata l'immaginazione
all'Asolo del cinquecento, davanti alla pomposa Regina di Cipro, seduta
all'ombra dei baldacchini di broccato d'oro, in mezzo a una corona di
letterati e di principi; e udiva le grida delle cacce e delle giostre,
e come la musica, lontana di quel breve regno gentile. — Viva Treviso!
— gridò la folla. — Viva Conegliano! — Viva _l'amorosa marca!_ — gridò
il Rogelli. — Signori, vent'anni sono, in questo medesimo giorno,
entrava in Treviso il primo drappello dell'esercito italiano! — Queste
per Asolo! — disse la signora, gettando una pugnata di viole ciocche. E
tutta la moltitudine, come obbedendo al cenno d'un solo, gridò in coro
anche una volta: — Viva Val Brenta! — E gli ultimi soldati passarono,
poderosi ed alteri come le quercie della loro “magna selva Fetontea„
girando sugli spettatori le pupille chiare e potenti, come quando
nei dì sereni si voltano dalle loro alture a guardare all'orizzonte
Venezia, somigliante a un'isoletta azzurra perduta tra i vapori
dell'Adriatico.

E altri squilli di tromba echeggiarono, e un altro battaglione
s'avanzò, d'un aspetto nuovo.... Salve, Belluno antica, cinta di monti
superbi che affondan le fronti bianche nel cielo; salve, o piccola
Pieve immortale, sfolgorante della gloria del tuo Tiziano; orrida
gola del Cordévole, tagliata a picco nelle alte rupi dolomiche, dalle
forme mostruose; salve, o conca paradisiaca d'Agordo, cerchiata di
montagne splendide, simili a sterminate piramidi di candido marmo,
o maravigliosa muraglia di Monte Civita, o gigante Antelào, o
inespugnabile nodo di gioghi e di boschi, Scozia d'Italia, popolata
di villaggi di legno, su cui brillano le chiesuole nivee, e s'alzano
come lance i campanili snelli ed acuti, gloria a voi, poetiche valli
dal sorriso triste, così belle allo sguardo, così dure alla vita; e ai
figli vostri, e ai figli dei lottatori impavidi del 48, ai Cadorini dal
saldo petto, così pronti sempre a invermigliare di sangue le loro rocce
per ricacciar gl'invasori. La folla li salutò con uno slancio d'affetto
caldissimo, gridando parole che scotevan tutte le fibre, ed essi
passavano composti, con una cert'aria di curiosità riflessiva, come
di gente venuta da lontano. — Viva Auronzo! si gridava da ogni parte.
Viva Pieve di Cadore! — Viva Perarolo! — Viva Lorenzago! — E a quei
nomi alzavan la faccia, e guardavan qua e là, come se dovessero veder
qualche cosa dei loro paesi; ed eran facce che dicevano una vita di
sacrifizi e di ardimenti: facce di cavatori di rame dei monti d'Agordo,
di conduttori di zattere del Piave, di boschieri, abituati a parlarsi
a cenni nello strepito assordante delle cascate d'acque e dei venti, e
a giocar la vita ogni giorno fra i torrenti e le rupi; facce d'antichi
_scottoni,_ che da fanciulli avevan portato il cibo ai boscaiuoli, a
prezzo di pericoli mortali e di stenti terribili, visi dai lineamenti
risentiti e gravi, che nella loro freschezza giovanile raccontavan già
la storia di molte emigrazioni oltre l'Alpi, di fatiche, di privazioni
di molti anni accumulate in pochi mesi, per metter da parte e riportare
a casa qualche scudo; visi d'una bellezza loro propria, irradiata
dall'anima indomita, che faceva correr la mano al saluto reverente
prima che all'applauso festoso. Era il penultimo battaglione, eran
del Cadore; la folla li costrinse due volte a fermarsi; una tempesta
di fiori cadde su quelle larghe spalle e su quelle braccia di ferro;
le acclamazioni copersero il suon delle trombe. La signora Penrith,
consapevole della particolare simpatia dei concittadini pel Cadore, si
credette obbligata a mostrare una commozione insolita, ricordando con
rotte parole la sua gita a Pieve, alla casa del Tiziano, convertita
in beccheria. Il Rogelli gettava ai soldati delle frasi cadorine: _Fra
nos, nos bos, nos vacis, faron nos fatis;_ ma morivan a mezz'aria negli
applausi. Il comandante dell'ultima compagnia lo riconobbe, passando,
e gli fece un cenno. — Ah! capitano, — gli gridò dietro il Rogelli,
esaltato da un ricordo improvviso, — la nostra gita a Caprile con gli
alpinisti! L'abbraccio alla vecchia colonna col leone di San Marco!
La colezione davanti alle due bandiere della Serenissima! Ah! il mio
Cadore adorato! — Ma gli portò via la parola il doppio acutissimo grido
della moltitudine, che mandava l'ultimo addio a _Val Cadore_ e il primo
evviva a _Val Tagliamento_.

Ed ecco il Friuli, finalmente; il Piemonte orientale d'Italia, gli
ultimi figli delle Alpi carniche, i lavoratori invitti e pazienti,
ponderati e accorti, forti come tori, e mansueti, quando il vino non
c'entra, e buoni, quando il cuore li muove, come i canti affettuosi e
mestissimi delle loro montagne; e quando calano il pugno, tremendi;
alti della persona, e di viso onesto; belli agli occhi nostri della
poesia dei lontani, e della fierezza pensosa di avanguardie della
patria. Al primo scoppio di grida, succedette nella moltitudine un
mormorio lungo e quasi carezzevole, come d'un mare che bacia le sponde;
e in mezzo a quella musica sommessa di saluti, più eloquente e più
cara d'ogni plauso, s'avanzarono a passi pesanti, coi visi alti e
seri, atteggiati a una certa espressione di stupore di gente ignara
del mondo, i bravi figliuoli di Cividale, di Gemona, di Tolmezzo, i
nati ai piedi delle Alpi Giulie, in faccia alle sentinelle avanzate
dell'Austria, i campagnuoli delle terre di Venzone, che restituiscono
intatte dai secoli le salme umane, i pastori cresciuti fra gli urli
selvaggi del Tagliamento, e nel triste canale del Ferro, ai confini
delle nevi eterne, frammisti ai biondi Slavi di San Pietro al Natisone
e agli Slavi solitari dell'altopiano di Resia. Salute! Salute a voi,
fratelli austeri e fedeli! Salute ai vostri operosi padri emigranti
alla valle del Danubio! Salute alle vostre donne fortissime e dolci,
che la fatica atterra e l'amore risolleva! Salute, Friuli bello e
onorato! Tutto questo sentiva ed esprimeva confusamente la folla con le
grida potenti che le usciron dal profondo dell'anima quando passaron
le ultime file. E allora l'entusiasmo divampò come un incendio al
soffio d'un aquilone, e in mezzo a quel delirio di tutti, nessuno
s'accorse del buon Rogelli, che scaraventò il cilindro in mezzo alla
piazza. Non era più il popolo d'una provincia, era l'Italia intera che
salutava i suoi nuovi battaglioni, che battezzava il suo nuovo corpo
di difensori, che consacrava il principio della sua storia; era la
grande patria, che gli affidava solennemente i varchi della sua sacra
frontiera, e gli diceva: — Confido in te, e sii benedetto! — Tutte
le fronti si scoprirono, gli spettatori dei palchi sorsero in piedi,
la moltitudine innumerevole agitò le braccia convulse, sprigionando
un ultimo formidabile grido. E poi, come per incanto, tutto tacque.
Tutti rimasero muti ed intenti a guardare quella fiumana d'armati che
si perdeva lampeggiando nel polverìo dello stradon di Torino, — tutti
immobili, e come stupefatti ancora d'un sogno prodigioso, come se
dietro a quei venti battaglioni avesse girato rapidamente intorno a
loro, dal colle di Cadibona al Picco dei due signori, sonando le glorie
di tutti i suoi popoli con le campane di tutte le sue valli, la giogaia
sublime che ci divide dal mondo.


LA SCUOLA DI CAVALLERIA

Bella signorina che, a quanto pare, finirà con legarsi per la vita e
per il vitino a un ufficiale di cavalleria, e sarà punta a suo tempo,
come molt'altre, dal sottilissimo acúleo della gelosia retrospettiva,
non si dimentichi, quando vorrà strappar le confessioni a suo marito,
di domandargli conto dei suoi amori o del suo amore di Pinerolo,
perchè uno almeno ci dev'essere stato, come è certo che splende il
sole. E s'egli negherà, ed ella insista, assalendolo risoluta, come
se fosse sicura del fatto suo. Ma non avrà bisogno di ricordarsi
dei miei consigli maligni, poichè sarà condotta al sospetto da
altre voci e per altre vie. E già mi par di vederla e d'udirla,
accesa nel viso, sfoderar la sua requisitoria coniugale con quella
esagerazione amenissima, che rende così cara, anche a chi ne è vittima,
l'eloquenza d'una donnina sdegnata. — Se si può negare! Ma se siete
stati innamorati tutti, in quell'anno, chè è una regola, un articolo
sottinteso del regolamento. No? Non sarà stato a Pinerolo, sarà stato a
Torino; ma Pinerolo era la base d'operazione, in ogni modo. Dunque....
è vero. Un amor doppio, forse.... o senza forse. Uno che _mosse il
màntaco ai sospiri,_ ed uno.... od altri.... d'altra natura. Bisogna
che per quelle quindici miglia di strada ferrata si vedano passar
cappelli e penne di tutti i colori: una vera esposizione ornitologica
ambulante ha da essere, con biglietto d'andata e ritorno. E la chiamano
“scuola di perfezionamento.„ Oh! il passato della cavalleria. E dire
quante ragazze del mezzogiorno d'Italia penseranno all'amico o al
cugino lontano con questo conforto, che è lontano, sì, ma fuor d'ogni
tentazione e d'ogni pericolo, in quella piccola città severa, quasi
perduta fra le montagne, con le nevi eterne a due passi, e sei mesi
d'inverno polare. Povere grulle! Eh! taci. È inutile. T'odio.
Chi sa quante belle bocche avranno detto qualche cosa di simile,
dal quarantanove in qua! Poichè fin dal quarantanove v'è la Scuola
di cavalleria a Pinerolo, fin dall'anno in cui fu sciolta la Scuola
d'equitazione della Venaria reale, di già antica memoria. Questa era
stata aperta nel 1823, era vissuta sempre sotto le cure dirette dei
Sovrani, e non si può dire che facesse mala prova, grazie, in parte,
al famoso Vagner, che vi fu capo cavallerizzo molti anni, e vi fondò
un metodo eccellente d'insegnamento, non sapendo d'italiano che due
parole: _no_ e _bestia,_ che gli bastavano; a quel Vagner che, partito
di qua capitano, andò poi a offrire il suo frustino a Pio IX, il quale
gli diè il comando d'un reggimento di dragoni, da cui uscì generale.
Lo scopo di quella Scuola era il medesimo di quella d'ora; ma gli usi
conformi ai tempi, che è quanto dire molto diversi. Gli ufficiali
andavano a Corte al baciamano in calzoni bianchi, il professore
di lingua francese e italiana aveva trenta lire di gratificazione
ogni due mesi, e i cavalli invalidi erano dati ai frati, che ne
facevano regolare richiesta a Sua Maestà. Ma non tutti gli usi eran
diversi, poichè fin d'allora Sua Maestà voleva impedire le _troppo
frequenti corse degli ufficiali a Torino_, dove par che smontassero
in piazza Emanuele Filiberto, all'albergo della _Rosa bianca_, che fu
celebre; e le brillanti scapestrerie non eran rare, benchè fossero
scarsi gli allievi. Da questa piccola Scuola piemontese, durata un
quarto di secolo, nacque più grande, arricchita di altri studi, e
italiana, la Scuola di Pinerolo, a traverso alla quale, più volte
ampliata, trasformata e ricorretta, passarono tutti gli ufficiali
di cavalleria del nuovo esercito, dal più vecchio generale al più
giovane sottotenente, tutti quelli venuti dall'esercito meridionale,
o dall'austriaco, o da quello dell'Emilia. Nove comandanti, dei quali
son raccolti i ritratti, come quei dei dogi di Venezia, in una sala
del club, ancora minaccianti arresti e fortezze, si succedettero
finora nella direzione di questa grande fabbrica d'ufficiali, che
da trentasette anni lavora senza riposo. Ed ebbe anni di produzione
copiosa e affannosa, nei quali i cavalleggeri, i lanceri, le guide, gli
usseri uscivano rapidamente di sotto alle sue ruote, abbozzati appena,
ma scintillanti d'entusiasmo, gettando il loro grido di guerra in tutti
i dialetti d'Italia; ed ebbe i suoi anni pacati, come questi, in cui
lavora lenta e in silenzio, fortificando e ripulendo con cura l'opera
sua, per dare all'esercito cavalieri perfetti “elegantemente saldi e
spensieratamente arditi.„
Trentasette anni sono trascorsi, un esercito d'uffiziali è passato; di
mille vite avventurose e strane, splendide e tristi, qui balenarono i
presagi e tempestarono le prime passioni. Quando di sul colle di San
Maurizio si fissa lo sguardo giù sopra i tetti di quel vasto edifizio,
risuonante di nitriti e di squilli di tromba, la fantasia vede
confusamente ufficiali di cavalleria lanciati alla carriera per vaste
pianure verdi, rigate di bianco dalle divise tedesche; e sale da ballo
dorate, dove altri ufficiali trionfano, in mezzo a una flora volante di
donne belle; e boscaglie illuminate dalla luna, fumanti ancora di una
mischia solitaria d'esploratori dove dei cavalli mutilati si dibattono
nell'agonia; e poi sciabole incrociate e visi accesi di duellanti,
in giardini su cui spunta l'aurora; ed altri visi immoti e pallidi,
intorno a tavolini da gioco; e dietro tutti questi, più lontani e più
confusi, altri cavalieri, altri balli, altri duelli, altre sale da
gioco, altri cavalli che agonizzano in mezzo a boscaglie solitarie, su
cui la luna risplende. Ma pure la luna di Pinerolo ha da averne visto
la parte sua, di scene tragiche no, ma di lepide e ardite follie, al
tempo in cui la gioventù militare era più scapigliata e più allegra.
E sarebbe ameno d'andare a chiedere a un vecchio generale severo:
Si ricorda ancora di quando scendeva a cavallo da Santa Brigida, di
notte, vestito all'Ernani, rischiando la vita in una corsa disperata, e
svegliando la città a colpi di pistola? O a un altro generale canuto e
venerabile: Se la sentirebbe ancora, generale, d'arrampicarsi in cima
a un albero d'una piazza, una notte di pioggia, per vedere a traverso
ai vetri d'una finestra su che fianco s'addormenta una signorina? O
a un vecchio colonnello, pien di gravità e di dolori: — Non le pare
che le farebbe bene, colonnello, di rituffarsi nudo nel Chisone in
una bella notte di gennaio, com'ella faceva nel buon tempo antico?
Molti di quegli ufficiali giovanissimi, che Pinerolo vide brillare
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