Alle porte d'Italia - 01

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EDMONDO DE AMICIS

ALLE
PORTE D'ITALIA
=3.ª Impressione=
_della nuova edizione del 1888 riveduta dall'Autore,_
=con l'aggiunta di due capitoli.=

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1888.


Questa nuova edizione annulla le precedenti; l'autore avendola
riveduta completamente, ed aggiuntovi due capitoli:
_I difensori delle Alpi_ e _La scuola di cavalleria_.
PROPRIETÀ LETTERARIA
_Riservati i diritti di traduzione._
Tip. Fratelli Treves.


ALLA CITTÀ DI PINEROLO
IN SEGNO DI AFFETTO E DI REVERENZA
OFFRO QUESTE PAGINE
ISPIRATE DALLA BELLEZZA DEI SUOI MONTI
E DALLA NOBILTÀ DELLE SUE MEMORIE.


ALLE PORTE D'ITALIA


PINEROLO SOTTO LUIGI XIV

_Al Signor Carlo Toggia, a Torino._
Pinerolo, 22 luglio 1675.
Ti ringrazio della bella lettera, la quale, dopo tanti mesi di
silenzio, m'è stata cagione di vivissimo piacere. Ti porgerà questa
mia il signor Pietro Osasco, procuratore di S. A. R. il duca di Savoia;
il solo pinerolese al quale io possa confidare una lettera pericolosa
con la speranza che i vostri riveriti padroni non gli ficchino le mani
nelle tasche. Grazie delle affettuose domande intorno alla famiglia.
I fratelli, le sorelle, tutti son sani come pesche. Io pure, grazie
a quest'aria purissima che vien dai monti, e nonostante le molte noie
della mia professione, se non schiatto dalla salute, almeno posso dire
che i medici non hanno mai visto il colore del mio letto. Se anche non
mi tenessero qua i miei affari, ci starei forse egualmente, perchè ci
ho messo le radici, e mi pare che non potrei più trapiantarmi senza
pericolo. La città mi piace infinitamente. Vista dall'alto, posta
com'è all'imboccatura di due bellissime valli, ai piedi delle Alpi
Cozie, davanti a una pianura vastissima, seminata di centinaia di
villaggi, che paiono isole bianche in un mare verde e immobile, è la
città più bella del Piemonte. Il mio povero padre soleva dire che qui,
per imparar la storia di Casa Savoia, basta leggerla una volta sul
tetto: guardando intorno, si possono seguire le mosse degli eserciti
e le vicende delle guerre come sopra una carta geografica sterminata.
Ma questo è più strano: che vi si può studiare con eguale vantaggio
il Nuovo Testamento, poichè v'ha una rassomiglianza singolarissima
di giacitura e di dintorni tra Pinerolo e Gerusalemme. Come la
città santa, questa è fabbricata in parte sopra un'altura, e scende
allargandosi al piano: il colle di San Maurizio è il Sion, l'altura
della cittadella è il Golgota, il monte di Santa Brigida, monte Moria;
e, non solo per sito, ma per forma, la valle del Lemina rappresenta
la valle di Giosafat; ed anche Pinerolo ha dalla parte di levante un
monte Oliveto, e il torrente Chisone può raffigurare il Giordano. Che
te ne pare? Avrei ragione di star qui volentieri, non foss'altro che
per studiare la storia patria e la storia sacra.
*
* *
Ma lasciamo gli scherzi. Risponderò alle tue domande, minutamente,
come desideri. Pur troppo, non ho cose molto liete da dirti. Tolto
il piacere di ber l'aria fresca e di ammirare il paese, a Pinerolo si
vive miseramente. Se anche non vi fosse l'ombra di uno straniero, la
città, con questo cerchio che la strozza, di bastioni, di mezzelune
e di controguardie, e con quella enorme cittadella che le rizza
sopra la testa i suoi cinque torrioni di malaugurio, non potrebbe
essere allegra. Mettici ancora un governatore generale, francese, un
luogotenente del re e un comandante del castello, francesi, e uno stato
maggiore che non finisce più, e un nuvolo d'ufficiali e di soldati di
milizia mobile, francesi; e mi saprai dire come ci si campi. Essi ci
detestano e noi li odiamo. Essi ci tengono come vinti e prigionieri,
noi li trattiamo da invasori e da giandarmi. Essi fiutano in ogni
pinerolese una spia del duca di Savoia; noi temiamo in ciascun di
loro un delatore del Saint-Mars. È impossibile farsi un'idea delle
angherie a cui siamo soggetti. Di città non s'esce senza un permesso
del Governatore; di casa non si può uscire che a quell'ore determinate;
per una celia che scappi di bocca all'osteria, si è agguantati e
ingabbiati; in ogni valigia di viaggiatore italiano sospettano veleni
e pugnali; in ogni pezzo di carta, vedono il disegno della fortezza. E
ogni volta che credon di cogliere uno di questi traditori immaginari,
è il finimondo: inchieste, minacce, corrieri a Parigi, ammonizioni a
Torino, scacciati di città gli italiani che non vi hanno dimora fissa,
licenziati dal servizio delle autorità i piemontesi e i savoiardi,
visite e inquisizioni in tutti i canti. Puoi esser certo che non
si troverebbe in tutta Pinerolo nè un moschetto nè una pistola, a
pagarli a peso di rubini. Naturalmente, da parte dei cittadini, sono
lagnanze e richiami continui; e, anche più naturalmente, le autorità
non se ne dànno per intese. Prepotenze aperte e impunite da un lato;
e dall'altro rivolte e vendette, s'intende, ogni volta che si posson
fare copertamente. Duelli, ammazzamenti, furti, ripeschi amorosi che
finiscono con un occhiello nel ventre, son cose d'ogni settimana. Le
_gaîtés du sabre_, come le chiamano, sono oramai la nostra ricreazione
abituale: viviamo sotto il materno regime della Lama. Aggiungi che
i nostri buoni amici credono d'aver diritto sulle nostre donne come
sui loro cavalli. Tu vedi le conseguenze. Non puoi immaginare con che
superbia, con che muffa si sbacchian le spade negli stivali questi
bravacci gallonati del grande Sottaniere di Versailles! È _Lui_,
infatti, quello che dà il tono a tutti quanti. E son grossolani, con
tutto questo, e ignoranti, da disgradarne i montanari del Talucco.
Per dartene un esempio, io ce n'ho uno, alloggiato in casa mia, un
luogotenente De Rivière, un gran perticone del reggimento di Navarra,
che scrive con la sua bella mano inanellata: _Suivant lordre que jai
recu a Pignierolle_.... Ci parliamo, nondimeno, perchè non ci possiamo
scansare. Egli batte sempre sullo stesso chiodo: la slealtà della
politica di Savoia. E io tiro via a ribattergli che sarebbero ameni
assai un orso bianco e un orso nero, i quali, stringendosi addosso
un veltro per divorarlo, tacciassero di sleali le giravolte ch'egli
facesse in mezzo a loro, per tenerli a digiuno tutt'e due.
*
* *
Noi ci troviamo qui in una condizione di cose unica al mondo. Dentro
alla cinta delle fortificazioni ci sono due città. La cittadella,
colle sue prigioni e con la sua compagnia franca, è separata affatto
da Pinerolo. I suoi ponti levatoi, sempre alzati, non si calano che
per far entrare le provvigioni da bocca e i corrieri. Il Saint-Mars
che nella sua qualità di governatore del castello dovrebbe sottostare
al marchese d'Herleville, governatore generale della città, se ne
infischia, e fa le sue sette volontà come un sovrano. Quindi si
guardano in cagnesco, fra loro, e credo anzi che ciascuno tenga una
spia alle costole dell'altro, e che il Louvois, da Parigi, li faccia
spiare tutti e due. Ne segue che la cittadella è un piccolo mondo a
parte, oggetto di preoccupazione continua non meno per la guarnigione
che per i pinerolesi. Gli ufficiali, i viaggiatori, i cittadini
girano intorno a quelle alte muraglie impenetrabili, divorati dalla
curiosità, fantasticando, poichè non posson far altro, sui prigionieri
misteriosi e sugli strani avvenimenti che vi si debbon nascondere;
tanto che finiscono col ragionare delle cose immaginate come di cose
reali. Chi ci sia dentro ora, non si sa con certezza, fatta eccezione
dell'intendente Fouquet, del suo servo, il famoso Eustache Dauger,
del più famoso conte di Lauzun, e di due ufficiali di artiglieria,
francesi, dei quali non s'è ancora riusciti a scoprire nè il delitto
nè il nome. Ma si crede che i prigionieri sian molti. Ogni tanto ne
arriva uno, di notte, scortato da un drappello della compagnia franca,
e lo conducono nella cittadella senza attraversar la città, facendolo
passare per la porta segreta di San Giacomo, a cui si giunge per un
sentiero sinistro che serpeggia tra la lunetta di Santa Brigida e
quella di Sault. Presentemente si fa ancora un gran discorrere intorno
a uno sconosciuto, portato lassù nell'aprile dell'anno scorso, con
grandissima segretezza, una notte di pioggia, in mezzo a uno stuolo
di cavalieri, comandati dal luogotenente Saint-Martin; e rinchiuso,
dicono, nella torre chiamata _torre bassa_, che è quella di mezzo
del castello, e la più tetra delle cinque. Raccontano che fu portato
in lettiga, che veniva da Lione, che aveva sul viso una _maschera
di ferro_. Chi crede che sia il conte di Beaufort, chi vuole che sia
figlio di Cromwell. I soliti almanacchi. Per me, quando penso ai molti
birbaccioni volgari che passaron per grandi personaggi perchè furon
portati quassù, chiusi in gabbie, come tigri ircane, o in bussole,
come principesse rapite, larvati, imbacuccati e tappati come se lo
scoprimento della loro persona dovesse sconvolgere il mondo; mi pare
cosa molto probabile che anche questo nuovo venuto non sia che un
malfattore di dozzina, come chi dicesse il capo d'una delle cento
congiure che si vanno scoprendo di continuo, o un avvelenatore di
Corte, od anco un galantuomo qualsiasi, che ha detto quattro crude
verità in faccia a Sua Maestà il Re di Francia.
*
* *
Comunque sia, tutti gli sguardi e tutti i pensieri son rivolti al
Castello. Su dieci pinerolesi io credo che sette lo sognino tutte le
notti. Chi sia il nuovo confessore concesso dal Re ai prigionieri,
quanto abbia speso il Governo nel mese scorso per la mensa del Fouquet,
che secreti si sia lasciato cascare dalle labbra, nel suo ultimo
viaggio, quel grand'uomo del D'Artagnan, e che cosa sia venuto ad
armeggiare il personaggio sconosciuto che fu visto uscire due giorni
addietro dalla casa del Governatore, sono argomenti di chiacchiere
interminabili, indovinelli meravigliosi, su cui centinaia di persone
si scervellano dalla mattina alla sera, non avendo altro da fare.
La curiosità è così smaniosa che la stessa marchesa d'Herleville s'è
inimicata con la signora Saint-Mars (una delle più belle e delle più
sciocche creature che si sian mai viste con due occhi) per il dispetto
di non aver potuto visitare il Castello come voleva. Il Saint-Mars è
affollato di tante domande indiscrete e supplichevoli intorno ai suoi
ospiti, e in special modo alla _maschera di ferro_, che ha preso il
partito di raccontare a ciascuno una fandonia diversa, la prima e la
più strampalata che gli passa pel capo, con la speranza che, mettendole
poi a confronto e riconoscendosi corbellati, i curiosi si sdiano
dall'interrogare. Questo Saint-Mars, antico moschettiere, soldataccio
di ventura, affamato d'oro come un usurario, che si becca la bagatella
di centocinquantamila lire francesi all'anno, oltre a quello che raspa
nell'amministrazione; piccolo, brutto, con un muso di bertuccia, sempre
rannuvolato come il cattivo tempo, irascibile e bestemmiatore come un
vetturale, tutto carne e pelle col Louvois per via della sorella di sua
moglie; è il tipo nato del ferro di polizia e del carceriere aguzzino,
che Dio gli mandi il malanno. Non si assenta un giorno all'anno dalla
sua bicocca, veglia sulle sentinelle dalla finestra, fruga i panni
dei prigionieri mentre dormono, è capace di passar la notte sopra un
albero per scoprire che cosa fa nella cella un disgraziato che gli
dà sospetto. Questa specie di porco spino, circondato di mistero e di
paura, non è l'ultima delle cagioni per cui a Parigi e alla Corte si
parla come d'un recesso strano e quasi fantastico, di questa fortezza
solitaria, posta all'ultimo confine dello Stato, ai piedi della quale
vengono dalle sale splendide di Versailles i sospiri, i saluti e l'oro
di tante belle, a cercare gli amici o gli amanti. Ma chi può farla al
Saint-Mars? Ai prigionieri più gelosi porta egli stesso il mangiare
una volta al giorno; due sentinelle girano dì e notte intorno alle
torri; nella stanza che sta sopra a ogni cella, dorme con gli occhi
aperti un ufficiale; ai reclusi non è permesso di confessarsi che
una volta l'anno: assistono alla messa da un finestrino obliquo che
li nasconde; e quando si cambia la gente del presidio, il cambio è
regolato per modo che gli ufficiali e i soldati che vengono non possano
barattare una parola con gli ufficiali e coi soldati che se ne vanno.
Che delitto avran commesso la maggior parte di quegli infelici? Un
libello, una canzonetta impertinente, uno scherzo mordace, che fece
ridere furtivamente dieci cortigiani e dieci dame. La collera d'una
amante del Re o di un ministro bastò a farli sprofondare in quel
sepolcro, dove alcuni muoiono in capo a pochi anni; e quando la notizia
della loro morte giunge a Parigi, accade non di rado che chi li ha
fatti seppellire non si ricordi più nè del loro nome nè della loro
colpa. Ah! la giustizia non ha la mano leggera di qua dal confine,
te lo assicuro io. A quando a quando, sulla cima del colle di San
Maurizio, si sentono gli urli dei prigionieri indocili, ai quali “dànno
la disciplina.„ Giorni fa, dalle carceri basse, si son viste uscire
barcollando, soffocate dai singhiozzi, istupidite dal terrore e dalla
vergogna, tre meretrici della città, ancora giovani, alle quali, non so
per che colpa, avevan raso i capelli e lacerato la schiena a sferzate.
Io ricorderò per tutta la vita, rabbrividendo, quegli orribili crani
nudi e quei miseri cenci bagnati di pianto e di sangue.
*
* *
Riguardo al Fouquet, me ne duole, non mi trovo in grado di soddisfare
la tua giusta curiosità: so questo soltanto, che in dieci anni da
che è qui, tutto occupato a far la digestione, un po' laboriosa,
dei trentasei milioni del castello di Vaux, non gli è ancora stato
concesso di riveder la moglie e i figliuoli. Si sa per altro che
può, quando vuole, stare in compagnia del Lauzun e degli ufficiali
della cittadella, e che al Saint-Mars è permesso dal Re d'invitarlo
a pranzo, e di fargli gustare, oltre ai suoi piatti, le scioccherie
della sua signora. Pare che sia rassegnato e tranquillo. Ti posso dire
qualcosa di più del conte di Lauzun, che è confitto qui da quattro
anni, e che ci starà un altro bel pezzo, se Dio m'esaudisce. Dopo
ch'è venuto lui, il Saint-Mars non ha più un'ora di bene. Gli dà più
da fare questo rompicollo di dragone, che tutti gli altri prigionieri
insieme. Superbo, furioso, scontento di tutto, manesco come un
facchino, schiamazzone come un banditore d'incanti, è riuscito a ordire
intrighi amorosi dentro e fuori della cittadella, e a far più chiasso
a Pinerolo di quello che ne facesse a Versailles. Le sue ultime due
amanti, la _Grande demoiselle_ e la bella La Motte, damigella d'onore
della Regina, hanno profuso i denari a palate per fargli prendere il
volo. Di tempo in tempo si vedono per la città delle facce nuove; si
dice: chi sono? chi non sono? Tutt'a un tratto spariscono come spettri.
È un tentativo di fuga andato a male. Già una volta una sentinella e
non so chi altri avevano preso l'imbeccata; una lettera era arrivata
fino al conte; tutto era disposto per la fuga. Ma quel satanasso di
Saint-Mars stava all'erta. Un messo della damigella, scoperto, si
tagliò le vene; parecchi altri furon messi sotto chiave; e il dragone
amato rimase a contare i travicelli. Figurati il chiacchierìo che se ne
fece a Pinerolo. Per molto tempo fu un vero furore di curiosità. Questa
lamaccia di De Lauzun, dopo averne fatte di tutte le tinte, cortigiano
ipocrita, cacciatore di grasse doti, giocatore sospetto, crapulone,
maldicente, invidioso, villano con le donne e insolente col suo Re, è
ancora riuscito a farsi un piccolo paradiso in prigione, dove le sole
spese del suo installamento, a quello che si dice, raggiunsero la somma
di diecimila lire francesi. Ha vitto di principe, stoviglie d'argento,
camicie di trina, letto di piume, due servitori, e grandi dame che lo
adorano a duecento leghe di lontananza. Si chiama nascer fortunati. Si
dice che stia nella medesima torre del Fouquet, che è quella accanto al
quartiere del Saint-Mars. Ma per quanto sia lasciato libero, le belle
signore di Pinerolo, che girano intorno alla cittadella con gli occhi
fuori del capo, non sono ancora riuscite a vedere neanche il contorno
della sua bellissima faccia di ferro fuso.
*
* *
La vita intellettuale di Pinerolo, insomma, consiste in gran parte
nel commentare i fatti e le gesta di quei signori, dei _merles_,
come li chiama benignamente il Governatore; tanto più dopo che è
finito il divertimento di veder lavorare alle fortificazioni, che
furon rifatte con grandi spese in seguito alla visita che ci venne
a fare segretamente il Vauban, anni sono, in compagnia, credo,
dell'onnipotente Louvois. Le famiglie pinerolesi si mescolan poco
con gli ufficiali del presidio. C'è un po' di passeggiata la sera in
piazza San Donato; ma non ci va quasi nessuno, perchè danno ai nervi
quei grandi baffi impertinenti dei soldati della compagnia d'onore,
che fan la guardia al palazzo del Governatorato, e le famiglie dei
commissari e degli altri impiegati francesi che fanno dei nastri per la
piazza col naso per aria, dicendo corna della città (_une tanière_) ad
alta voce. Gli ufficiali della cittadella, alloggiati nel loro vasto
gabbione, non scendon quasi mai; il Saint-Mars se li tiene a portata
della mano per timore che quei di sotto glieli corrompano. E infatti,
non si dà mai il caso che mandino a prendere o ad accompagnar fuori un
prigioniero dai soldati e dai sergenti del presidio, da tanto che se
ne fidano! Non ce n'è uno — è scappato detto allo stesso governatore,
— che mandato fuor delle mura, non pianterebbe il prigioniero in
mezzo ai campi per disertare. Così è fedele l'esercito del gran
Re! Per conseguenza, quando la città non è scossa dall'arrivo d'un
ufficiale dei moschettieri, nelle ore in cui le truppe riposano, dopo
mezzogiorno, Pinerolo ha tutta l'aria di una necropoli. Fra le alte
caserme e i grandi conventi silenziosi, dalla porta di Torino alla
porta di Francia, non si vede passare che qualche cappuccino o qualche
penitente della Concezione, e non si sentono che i rumori cupi della
Fonderia e dell'Arsenale, che lavorano ai nostri danni. Si direbbe che
quel maledetto castellaccio, con quei cinque ricettacoli di dolori,
che si alza come una gigantesca macchina di tortura a contaminare
l'azzurro, e si vede da tutte le parti della città e da tutti gli
angoli dei bastioni, getti per le vie e nelle piazze l'uggia dei suoi
cortili grigi e la tristezza delle sue celle nefande. O piuttosto,
non è il castellaccio. È quella faccia malaugurosa del Saint-Mars che
si vede spuntar a tutte le cantonate e a tutte le finestre. È lui che
empie la città del suo umor nero di birro sospettoso, e che batte
la misura alla vita di Pinerolo con lo stridor cadenzato dei suoi
chiavistelli. Lo stesso governatore d'Herleville ne sente l'influsso
funereo, e scappa a Torino ogni volta che può, con la sua graziosa
marchesa; — un amore; — la sola cosa bella ch'io abbia trovato finora
nella dominazione francese.
*
* *
Oh splendido e caro passato, già tanto lontano! Ci pensi mai, tu,
amico Toggia? Dire che siamo stati la città capitale del Piemonte
per il corso di più d'un secolo, accarezzati, colmati di privilegi;
che qua i nostri principi nascevano e venivan sepolti; che fra noi
si festeggiavano re e imperatrici; che contavamo una popolazione di
grande città, con quattordicimila operai, con una brava milizia nostra,
che le mura turrite si estendevan per varie miglia da monte Oliveto
oltre all'Abbadia, che mandavamo le nostre lane fino in Oriente,
che accoglievamo gli ambasciatori di Napoli, di Milano, di Venezia,
di Ungheria, di Vienna, del Papa, i deputati di tutte le città del
Piemonte, i cortei dei marchesi di Saluzzo e di Monferrato, e le
visite festose dei conti di Savoia, e i ritorni trionfali dei principi
d'Acaja, e che su per queste vie salivano a cavallo le belle spose
bionde vestite di broccato d'oro, sotto i baldacchini di raso bianco,
in mezzo ai baroni vassalli scintillanti di ferro e ai signori del
Consiglio vestiti di mantelline purpuree, sopra un terreno coperto di
mirti e di rose! Ed ora abbiamo il Saint-Mars. Io l'ho col Saint-Mars.
Che rotolone, ingiusto cielo!
*
* *
Se voglio vivere, caro mio, non bisogna ch'io pensi che questo dura
da quarantaquattr'anni. Dall'anno in cui son nato, nè più nè meno;
poichè io venni al mondo qui nell'anno medesimo che quel baccellone
del conte di Scalenghe, dopo due giorni di tremarella, cedeva Pinerolo
al cardinale Richelieu, facendo abbassare le armi a quattrocento
Vallesiani e a trecento uomini di milizia che avrebber potuto salvare
il Piemonte. Ah se risuscitasse Emanuele Filiberto, brava anima sua!
— Il re ha bisogno di tenere un piede di qua dalle Alpi, — bada a
ripetermi questo squassapennacchi del luogotenente Rivière. Ebbene,
ci vorrebbe un duca di Savoia che rispondesse al re, come rispose
quel lestofante: — Son d'accordo, purchè quel piede sia io. — Ma che
possiamo sperare da Carlo Emanuele II, che si lascia pestare i calli
ogni giorno dagli ambasciatori di Francia per il posto al banchetto o
per il palco al teatro? Egli tira ai dominii di Ginevra, del Vaud, di
Friburgo, di Losanna, limosina dei pezzi di terra a tutte le Corti di
Europa, manda dei reggimenti a lasciar le ossa per il Re nelle Fiandre,
attacca lite con Genova per far quella bella figura che sappiamo,
s'intesta di bucare il colle di Tenda; e non pensa a liberar Pinerolo,
che è il morso col quale la Francia terrà sempre Casa Savoia in sua
balìa. Facesse almeno dei bei versi come suo nonno! Oramai noi non
speriamo più che in una specie di diluvio universale, in una vastissima
e terribile guerra che metta sottosopra l'Europa, sconquassando questa
mostruosa baracca dorata della Monarchia francese. Comunque debba
finir la cosa, peraltro, possiamo esser certi che le prime batoste,
ossia le bombe, le mine, le devastazioni e la fame, saranno per noi.
È stato sempre il nostro destino. Abbiamo l'onore di esser la chiave
della valle del Chisone, una delle porte d'Italia; e tu vedi dove ce
l'han confitta, questa chiave. Povera Pinerolo! Dalla seconda guerra
punica in poi, chi abitò da queste parti non ebbe mai dieci anni di
santa pace. Romani e Cartaginesi, Galli e Saraceni, Goti e Ostrogoti,
Longobardi e Svizzeri, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi e Valdesi e
marchesi e anticristi si sono scatenati sui nostri quattro campi e
sui nostri quattro sassi come se questo fosse un circo stato fatto
apposta da domenedio perchè tutti i popoli della terra vi si venissero
a pestar la cappa del cranio. Per tutto dove si scava, vengon fuori
stinchi, caschi rotti e dagacce arrugginite. Che spettacolo, perdio,
se saltassero su vivi per i campi e per i colli tutti i soldati che li
calpestarono in venti secoli, dai numidi di Annibale agli alabardieri
di Francesco I! Sarebbe la benedetta volta che vedremmo il Saint-Mars,
spaventato e senza parrucca, precipitarsi dalla Torre del Diavolo nel
fossato della cittadella.
*
* *
Ciò non ostante, come t'ho già detto, io trovo modo di vivere
serenamente, grazie alle molte faccende e alla molta lettura. La mia
più bella ricreazione è una passeggiata che faccio ogni sera, verso
il tramonto, con le poesie del Chiabrera tra le mani; un esemplare
prezioso, annotato nei margini, che fu regalato dal poeta stesso al
marchese di Caluso, quando fu alla corte del primo Carlo Emanuele.
Me ne parto di vicino alla Polveriera, dove sto di casa, attraverso
la città bassa; risalgo lento lento per i bastioni di Villeroy
e di Richelieu, svolto dal bastione della Corte, e vado a fare,
regolarmente, una piccola visita al castello dei nostri principi. Che
cosa vuoi? Quel povero castello, unico avanzo delle nostre glorie,
imprigionato là fra le casipole, coi suoi merli cadenti e le sue porte
sbarrate, che par compreso dal sentimento della sua miseria, mi mette
pietà e tenerezza insieme! Il suo silenzio triste mi fa ripensare alle
feste e agli amori che lo animarono un tempo, alle ambizioni smisurate
che si spennaron le ali fra le sue mura come aquile prigioniere,
alle belle principesse d'Acaja che vi folleggiarono, vi piansero e vi
morirono. Dopo un quarto d'ora che son là, mi par di sentire i passi
concitati dell'altera Isabella di Villehardouin che ridomanda il suo
principato perduto; vedo Caterina di Vienna, coi suoi grandi occhi
celesti rivolti alle vette bianche dei monti; la sventurata Sibilla
del Balzo, che spira benedicendo il suo povero Filippo, predestinato
al lago d'Avigliana; e quel bel demonio biondo di Margherita di
Beaujeu che susurra all'orecchio di Giacomo le parole che sconvolgono
la ragione, e Caterina di Ginevra con la sua vita sottile di vergine
e il suo adorabile neo sulla guancia, e Bona di Savoia che smorza
sotto alle lunghe palpebre la fiamma de' suoi occhi pieni d'amore.
Oh se s'affacciassero tutte insieme a quelle finestre arcate e
vedessero sventolare sulla cittadella la bandiera di Versailles, come
si farebbero tutte vermiglie di sdegno dalla gorgiera al diadema, e
come spezzerebbero sui davanzali i loro ventagli imperlati! E dopo
essermi beato in questo sogno vado su verso le vecchie caserme, tiro
un'occhiataccia al castello, e per San Maurizio e per il bastione di
Schomberg, chinando il capo sul Chiabrera quando vedo di lontano il
cappello a tre punte d'un tagliacantoni _francesco_, me ne ritorno a
casa placidamente, consolato dal pensiero che un altro giorno della
dominazione straniera è passato. Quel ceffo di mandrillo del Saint-Mars
ha disteso un lenzuolo di piombo su Pinerolo; ma non è ancora riuscito
a oscurarle la bellezza impareggiabile delle sue notti di luna. Per
questo, rientrando in casa mia, salgo quasi sempre all'abbaino per
godere la vista dei dintorni. Le case che biancheggiano sulla collina,
tutte quelle torri nere che s'intagliano nel cielo limpido e profondo,
la città di Saluzzo che appare come una macchia lattea di là dalla
striscia luccicante del Po, e la rocca di Cavour, che s'alza solitaria
nel piano come un frammento colossale d'asteroide precipitato dal
cielo, e le cime delle Alpi inargentate; questo spettacolo immenso
e quieto, in cui si sente la voce sonora del Lemina che parla delle
glorie morte, mi tiene inchiodato un'ora con la bocca aperta. E se
qualche volta mi piglia un senso di tristezza a veder lì a pochi passi
quella gola spalancata della valle di Fenestrelle, che ci ha vomitato
addosso tanto ferro e tante sventure, allora mi rivolgo dalla parte di
Torino, dove brilla la speranza d'un avvenire migliore del passato e
del presente, e il mio cuore si riconforta.
..... È sonata la mezzanotte. Sento che passa la ronda per la strada
e riconosco al chiarore della luna il profilo rodomontesco di quel
lanternone del Rivière. Siccome abbiamo leticato ieri sopra la
quistione di Casale, è capace, vedendo il lume acceso, di venirmi ad
aggranfiare la lettera. Caro mio, non voglio maschere di ferro. Ti
mando un saluto dal cuore e chiudo la lettera in furia.
Il tuo
*
* *


I PRINCIPI D'ACAJA

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