Alle porte d'Italia - 10

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— _Mi rincresce soltanto che non mi ricordo più del nome di battesimo
di Delpero_. — Io lo sapevo: Francesco; e anche il soprannome, Nerone:
li avevo visti in sogno più d'una volta, scritti sulla parete, a
caratteri rossi. Fummo maravigliati della sua voce: una voce profonda,
poderosa, un po' tremula, la quale, a' suoi bei tempi, doveva gridare
degli _alto là_ da far accapponare la pelle ai cavalli. Due ore dopo
era seduto a tavola con noi, e ci raccontava la sua vita, modestamente:
figliuolo d'un capellaio d'Alessandria, soldato nella brigata Aosta dal
1835 al 1841, poi carabiniere; promosso vicebrigadiere, non so in qual
anno, dopo un arresto rischioso fatto a Torre Pellice, e servizi resi
durante il colèra, a Villafranca. Al tempo del Delpero, era di stazione
a Vigone. Il bandito era cercato da varii mesi, furiosamente, da tutte
le parti. Da ultimo aveva ancora ucciso a tradimento due carabinieri,
di notte, sulla via di Pollenzo, e cercava di assassinare il delegato
di sicurezza pubblica di Pinerolo, certo Francia, al quale aveva già
dato molti anni prima una stilettata mortale, per cui l'avevan mandato
in galera; donde era fuggito freddando un guardiano. Il Gamalero faceva
continue perlustrazioni, faticose e inutili, nei boschi di Vigone,
dove si credeva che il Delpero s'aggirasse con la sua banda. Una sera
che ritornava stanco morto da una di queste corse, gli dicono che il
brigadiere, uscito poco prima dalla caserma, cerca di lui. Egli va
difilato all'osteria dell'_Orso marino_, dove gli pareva più probabile
di trovarlo. C'era infatti, con un altro carabiniere: li aveva mandati
a chiamare l'ostessa perchè eran capitate all'osteria due “brutte
facce.„ Il Gamalero entra nella stanza grande. A sinistra della porta
d'entrata, all'estremità d'una lunga tavola, c'erano i due avventori
sospetti, seduti l'uno in faccia all'altro, che avevano smesso di
mangiare. Il brigadiere, ritto davanti a loro, col carabiniere accanto,
— un mingherlino, un po' tonto, — li interrogava. Un po' più in là,
a un'altra tavola, stava cenando un altro avventore, un negoziante di
bovi, corpulento, che osservava con curiosità quella scena. — Appena
entrato, disse il Gamalero, appena vidi la faccia di quello seduto di
fronte alla porta, dissi subito tra me: — Quello è Delpero. — Era un
giovine sui ventisei anni, d'alta statura, coi capelli neri e la barba
nera, d'una pallidezza di morto. Il Gamalero s'andò a piantare alle
spalle di lui, vicinissimo, senza fiatare; e il brigadiere gli fece un
cenno col viso: — Occhio alle mani dell'amico. — Intanto continuava a
interrogare. Richiesti delle carte, gli avevan presentato un passaporto
e un certificato patentemente falsi: i connotati non corrispondevano,
le firme eran tutte della stessa mano. L'uno si faceva passare per un
mercante d'agrumi, l'altro per un negoziante di vino. Il brigadiere
incalzava con le interrogazioni, e osservava intanto che una tasca
della giacchetta del più grande presentava un rilievo singolare.
— Datemi di nuovo il passaporto, — gli disse, — e alzatevi, che
riconosca un'altra volta la statura. — To'! — gridò allora il Delpero
cacciando fuori con rapidità fulminea una pistola, e puntandola al
cuore del brigadiere. Ma nel punto stesso il Gamalero gli vibrava un
formidabile pugno nel viso, che lo buttava a terra. Il brigadiere e il
carabiniere s'avventano sul caduto; il Gamalero salta sull'altro, lo
afferra pel collo, e lo porta via di peso, sbatacchiandolo attraverso
alla stanza.... Qui bisognò ridere per forza a sentire come il
Gamalero, interrompendosi, accennò di volo, senza ridere, la sveltezza
prodigiosa, la velocità sovrumana con cui il grosso negoziante di bovi,
al veder la mala parata, non fuggì, ma volò, svanì per la finestra.
La lotta fu tremenda. Il Delpero, armato d'altre due pistole e d'un
coltello, lottava per salvarsi dalla forca; la disperazione gli dava
una forza formidabile, la rabbia l'aveva mutato in una belva, si
scontorceva, ruggiva, picchiava, si rotolava sul pavimento, abbracciato
ai due carabinieri, fra le panche rovesciate e le stoviglie spezzate,
scalciando e addentando, facendo degli sforzi di dannato per afferrare
l'altre armi. Il Gamalero voleva correre in aiuto ai due compagni, ma
non attentandosi ad abbandonare il suo prigioniero, gli andava torcendo
la cravatta, e allentandola a vicenda, quando lo vedeva annerire; gli
dava un po' di fiato, di tanto in tanto, per dirla con le sue parole,
lo stretto necessario per vivere, come si fa con la chiavetta d'un
becco di gas, che non si vuol nè spegnere nè tenere acceso. Il momento
era terribile. C'era da temere che gli altri della banda fossero
appostati là attorno; se accorrevano, tutto era perduto. Una persona
s'affacciò alla porta: fu creduto un bandito; disparve subito; era
un fratello dell'oste, mezzo scemo. Bisognava finirla. Il Gamalero,
con una mano sola, stringendo il laccio più forte, strascinò il suo
impiccato verso gli altri tre, afferrò un braccio all'assassino, gli
fece cascar dal pugno la pistola, lo inchiodò a terra per la gola;
e allora s'arrese, finalmente, e fu ammanettato. Subito accorsero
guardie municipali e guardie nazionali. Il Delpero ansò per molto
tempo. Le sue prime parole furono di rammarico perchè gli fosse mancato
il colpo alla pistola. — Se non mi mancava, — disse con uno sguardo
torvo al brigadiere, — a quest'ora lei sarebbe già in compagnia degli
altri due. — Poi diede in smanie da forsennato, si dibattè, urlò che
voleva morire, tentò di spaccarsi il capo contro il muro. In fine,
si quetò, e fu portato alla caserma dei carabinieri, tra un urlìo
orrendo della folla.... Ma io l'ho sciupato miseramente il racconto
del Gamalero. È difficile farsi un'idea dell'eloquenza, disordinata,
ma calda, gagliarda, scolpita, con la quale egli ci fece veder quella
scena, e sentir quasi gli aneliti, i colpi, lo sgretolìo dei denti, le
grida soffocate dei lottatori. A lui stesso pareva di ritrovarcisi, e
gestiva, raccoltamente, ma con tale vigore, che quando torceva il pugno
noccoluto per render l'atto con cui aveva serrato la strozza al suo
fantoccio, mi pareva di sentirmi il colletto troppo stretto, e me lo
sarei sbottonato con piacere. E tirò innanzi per un pezzo. Ci raccontò
tutti gli altri avvenimenti della sua vita militare, dei quali non fu
mica il più notevole l'arresto del Delpero: combattimenti sanguinosi
con disertori, corpo a corpo, nelle tenebre, dentro a fossi della
campagna; inseguimenti disperati d'assassini per stradoni solitarii,
al lume della luna; lotte contro folle ammutinate, due contro cento,
con la certezza della morte; il salvamento fatto da lui in una città
dell'Emilia, d'un quadro del Guercino, sorprendendo con uno stratagemma
astuto, di notte, i ladri che lo trafugavano; tante avventure e così
strane e drammatiche, da far pensare perchè mai certi matti affamati
di commozioni, che trovan la vita noiosa, non vadano ad arrolarsi
nella “benemerita arma.„ Per la prima mezz'ora, parlò piemontese;
poi, a poco a poco, si mise a parlare italiano, malgrado le nostre
preghiere, quasi forzato da non so che capriccio fonico della memoria;
un italiano stranissimo, tutto intessuto di frasi da _rapporto_ e
di parole vernacole italianate con una desinenza in _i_; ma che non
ci facevan ridere, nè sorridere, perchè eran l'espressione ingenua
e rozza di quello che aveva d'italiano nell'anima, un'eco della gran
voce della patria unita, ch'egli era arrivato in tempo a sentire negli
ultimi anni della sua vita di soldato. E s'accalorava parlando, senza
mai perdere, peraltro, una certa ritenutezza severa d'aspetto e di
modi: ci spiegava certi segreti del suo mestiere, certe prescrizioni
che faceva ai carabinieri novizii, per esempio, per arrivar addosso a
dei malfattori, di notte, per una via di campagna: andar per un pezzo
a passi lunghissimi, tra il passo accelerato e la corsa, in punta di
piedi, nel mezzo della via, dov'è più alta la polvere; poi, a breve
distanza, spiccare una corsa precipitosa, la quale ottien quasi sempre
l'effetto di “far perder la testa„ ai bricconi, che rimangon lì,
intontiti e immobili, senza neanche l'idea della resistenza; e diceva
questo a voce bassa e concitata, fissando nel muro i suoi assassini
immaginarii, con l'occhio scintillante, come se li vedesse davvero. Poi
riferiva gl'interrogatorii imperiosi, che faceva agli arrestati, per
confonderli; con una tale efficacia di espressione li ripeteva, che a
un certo punto del racconto, sentendomi una sua mano sul ginocchio,
e vedendo i suoi grandi occhi fissi nei miei, mentre mi domandava
viso a viso, con quel vocione: — E i mezzi di sussistenza? — rimasi
un momento imbarazzato, e quasi lì lì per rispondergli, timidamente:
— Ma.... non so.... m'ingegno.... — Parlava a cuore aperto, facendo
comprendere, senza esprimerli, tutti i suoi sentimenti più intimi,
vedere tutto il fondo della sua semplice natura: e non si può dire la
rettitudine d'animo, l'abborrimento profondo del delitto, lo sdegno
superbo della viltà, il nobile concetto del proprio ufficio, il forte
e netto sentimento del dovere e dell'onore, che si rivelava dalle
sue parole, dal suo accento, dal suo viso. Non pareva un semplice
carabiniere che parlasse, in certi momenti, ma un giudice, che so
io? uno di quegli austeri monaci antichi, incolti, ai quali la fede
illuminava l'intelletto; tanto il suo parlare era grave, nonostante
la scorrettezza, e sensato, fermo, dettato da una coscienza onesta,
e da un cuore forte, sano e generoso. E non un'ombra di vanteria nel
suo discorso: si sarebbe giurato sulla verità assoluta d'ogni parola;
non un lampo di compiacenza vanitosa nel suo viso, benchè mi vedesse
pigliar delle note mentre parlava. — Signori, comandano altro? —
domandò quand'ebbe finito, come avrebbe detto ai suoi superiori dopo
una relazione di servizio. E dataci una forte stretta di mano, se
n'andò senza cerimonie, serio come sempre, quasi triste, verso la sua
botteguccia.
*
* *
Quando uscimmo, la valle era tutta piena di sole, il paese faceva
la sua _siesta_, mezzo insonnito, dentro al suo grande letto verde,
sotto la vigilanza guerriera del Vandalino, la sentinella gigantesca
delle valli, la quale da qualunque parte ci trovassimo, pareva che ci
s'alzasse sopra il capo. Quello, e tutti gli altri monti circostanti,
così ridenti alle falde, si fanno terribili di forme e di memorie,
innalzandosi. Nei loro fianchi s'aprono caverne spaventevoli, covi
antichi di saraceni, e poi ricetto di valdesi cercati a morte,
convertite in stanze di tortura e in sepolcri. Ma la vegetazione è
così folta, florida, allegra, che le memorie sinistre dei luoghi vi
rimangono sotto soffocate. Per un buon tratto, camminando, non vedemmo
altro che verde e azzurro. Il terreno saliva dolcemente. Quasi senza
avvedercene, ci trovammo sopra un bel poggio, al confluente del Pellice
con l'Angrogna, dove sorgeva la torre famosa, che diede nome al paese,
e un castello disputato per lungo tempo tra Francia e Savoia, e più
volte rovinato e rifatto; con la storia del quale è legata in gran
parte la storia del popolo valdese. Ora non ne rimangon che pochi
ruderi, quasi nascosti dalle piante. Di là si vede, sotto, tutto Torre
Pellice, e i due torrenti, e più lontano, Luserna, e a destra e a
sinistra, monti dietro a monti, e poi la pianura infinita: tutto così
bello e felice quando splende un sole d'oro nel mezzo d'un cielo di
zaffiro, ripulito da una buona arietta di settembre. Eppure quello è
uno dei più sciagurati e dei più sinistri luoghi del mondo; il luogo
dove risedettero, trincierarono i loro reggimenti, ordirono le loro
trame, e diedero i loro ordini terribili quei governatori di nefanda
memoria, quel conte della Trinità, quel Castrocaro, quel marchese
di Pianezza, quel conte di Bagnolo, al suono del cui nome par di
sentire confusa un'eco lontana di grida di raccapriccio e d'angoscia.
L'enorme macchina di tortura che per centinaia d'anni spremette
sangue, oro e disperazione dal popolo valdese, era piantata là, su
quel poggio così gentile. Di là partivano, a grosse colonne, quegli
eserciti feroci, composti in parte di soldati regolari, in parte di
volontari, di campagnuoli fanatici, d'irlandesi banditi dal Cromwell,
di saccheggiatori e di scampaforche, che i governatori sguinzagliavan
nelle valli come branchi di mastini a fare le vendette del Dio
dell'Inquisizione. E là riparavano, ritornando dalle spedizioni contro
Villar, Bobbio, Comba, Taillaret, Rorà, Pra del Torno, cacciandosi
innanzi il loro bottino vivente, famiglie cariche di masserizie,
seguite dal bestiame delle proprie terre, pastori incatenati come
ladroni, giovani colle orecchie strappate a furia di morsi, vecchi
coperti di lividure, donne insanguinate pazze di terrore, che vedevan
già con l'immaginazione le tanaglie e le ruote del Sant'Uffizio, e
si stringevan contro i fianchi le teste dei fanciulli sfiniti dalla
fatica e soffocati dai singhiozzi. Là intorno, sopra le cime di quei
bei monti, seguirono quelle fughe tragiche di popolazioni d'interi
villaggi, avvertite in tempo dell'assalto imminente, erranti per le
nevi, al lume delle stelle, gli uomini coi ragazzi assiderati sopra
le spalle, le donne coi bimbi moribondi nelle culle, striscianti
nell'ombra delle rupi, al fischio delle palle degl'insecutori,
mentre giù nella valle si alzavano le fiamme delle loro case e gli
urli dei loro fratelli sgozzati. Là, per quei sentieri, lungo i due
torrenti, passarono, nelle giornate memorande della grande espulsione,
diretti alla pianura, per esser dispersi pei conventi e per le
galere, per andare a morire a mucchi, pigiati come bestie da macello,
divorati dalla fame e dai pidocchi, nei fossati delle cittadelle e
nelle prigioni immonde, passarono in file sterminate, a centinaia,
a migliaia, i mariti separati dalle mogli, i parenti divisi dai
figliuoli, poveri, signori, vecchi, donne, infermi, feriti, legati a
due a due, e coppia a coppia, con lunghissime corde, fiancheggiati
dai soci della _propaganda fide_ che tentavan di strappare i bimbi
alle madri, spinti innanzi a calci e a nerbate, coperti di scherni,
di maledizioni e di sputi, come una turba di schiavi infami destinati
alle fiere di un circo. E di là, infine, proprio dalla cima di quel
poggio, fu dato il segnale di quelle stragi di Pasqua, di quella
Saint-Barthélemy dei Valdesi, che strappò un grido d'orrore al mondo, e
quei versi terribili al Milton; e dopo la quale degli uffiziali onorati
buttaron la spada con disprezzo ai piedi del loro generale; là in
quel tratto della valle e per tutto lo spazio che s'abbraccia di lassù
con lo sguardo, famiglie intere, snidate dai nascondigli, raggiunte e
accerchiate per le vie e per i campi, furon palleggiate sulle punte
delle spade e delle alabarde; centinaia di sventurati fatti perire
con quei supplizi inauditi, inventati dalle immaginazioni stravolte di
carnefici pazzi e briachi, con quelle agonie eterne, la cui sola idea
ci oscura la ragione; uomini e donne d'ogni età, sotto gli occhi dei
loro più cari, scaraventati giù dai precipizii scannati, scorticati,
sbranati, ridotti lentamente un carname informe che urlava ancora, e i
bambini sfracellati contro le roccie, in cospetto delle madri mutilate,
a cui schizzavan le cervella negli occhi.... Oh! Maledizione! Dolore!
Vergogna eterna! Esecrabili memorie che inferociscono il cuore, che
destano, con l'immaginazione della vendetta, anche nell'anima dei
miti, la sete di sangue che era nell'anima dei carnefici!... Ma un
altro sentimento tien dietro subito all'indignazione: uno scoramento
triste, un disprezzo infinito della bestia umana, che fu capace allora
di commettere quegli orrori in nome della religione, che li commise
più tardi in nome della libertà, che li commetterà forse domani in nome
dell'eguaglianza; che è capace ancora, dopo sei secoli, di ricordarli
senza ribrezzo e senza rossore, di scusarli, di giustificarli,
di gloriarsene. Non ci è che un conforto a quel pensiero, ed è il
considerare che quelle atrocità obbrobriose furono inutili a chi le
commise, e duplicarono la forza di chi le patì. Non foss'anche stato
il sentimento profondo della propria fede, sarebbe bastato l'orrore,
l'odio che dovevan provare contro i macellatori, a mantener i valdesi
eroicamente immobili nella loro ostinazione; la carne, le viscere loro,
oltre che la coscienza, dovevano abborrire anche dalla sola idea d'una
simulata conversione; dovevano nascere con l'istinto della resistenza
disperata nel sangue i nipoti di quei martoriati. Che gigantesco
orgoglio si saran sentiti nell'anima di fronte ai propri nemici! E
come si capisce che dovessero amare disperatamente il loro paese, e
amarsi tra loro, legati com'erano gli uni agli altri da quelle tremende
memorie, dall'odio mostruoso che li circondava, e dall'immensa pietà
delle sventure comuni!
*
* *
Dì lassù, guardando nel paese col canocchiale, vidi a una cantonata
un cartellone di teatro che annunziava la rappresentazione del
_Ventaglio_ del Goldoni. Non potevo trovare migliore pretesto per
rompere il filo delle riflessioni tristi. Ma la prima volta che
si va tra i Valdesi, è difficile sprigionare il pensiero dal loro
maraviglioso passato. Quelle tre date terribili: 1561, 1655, 1686,
che sono come le tre piaghe sanguinanti della loro storia, mi pareva
di vederle scritte nei muri, incise negli alberi, tracciate sulle
vie, segnate per aria, e che avessero quasi il senso d'un rimprovero
e d'un avvertimento: — Raccogliti, ricorda, medita! Non è questo un
luogo dove tu debba far faccia da ridere, figlio dei persecutori! —
Che volete? Qualche cosa sulla coscienza, un minimo che, leggerissimo,
me lo sentivo anch'io; tanto che i saluti e gli sguardi benevoli che
ci rivolgevano i campagnuoli, incontrandoci, mentre scendevamo, mi
sembravano quasi una gentilezza immeritata. Insomma, tutta quella gente
avrebbe bene avuto un po' di diritto di darci quattro tanagliatine tra
la spalla e il gomito, delicatissime, s'intende, per pura formalità
di contraccambio. Tutti i putti che vedevo seduti davanti agli usci
delle case, mi ricordavano quei cinquanta poveri bimbi dei Valdesi
fuggiaschi da Pragelato, trovati morti gelati nella neve, gli uni
nelle loro cune, gli altri fra le braccia delle madri irrigidite,
lassù, sui monti della valle di San Martino, nella quaresima del
1440. Una ragazza bionda e graziosa, sui quattordici anni, che entrava
in casa con un gran pane sotto il braccio, mi fece pensare a quella
piccola eroina, che sorpresa dai soldati del conte della Trinità in
una caverna, dove s'era rifugiata con l'avolo centenario, e visto
trucidare il suo vecchio, spiccò un salto per scampare alle braccia
degli uccisori, e rotolò morta sformata in fondo a un burrone. Una
coppia matrimoniale, un po' più in là, un ometto sulla cinquantina,
un po' curvo, che dava il braccio a una signora malata, di aspetto
risoluto insieme e amorevole, mi richiamò alla mente quell'infelice
Mathurin, e quella sua brava e buona Giovanna che volle morire con
lui, nel 1560, legata alla stessa trave, sulla medesima catasta di
legna, in faccia all'inquisitore generale e al prevosto generale di
giustizia, nella piazza maggiore di Carignano. Quella stessa campagna
così fiorente, la vedevo nuda in qualche momento, devastata, sparsa
di rovine affumicate e di vestigia turpi d'accampamenti, come doveva
offrirsi allo sguardo quando vi seguivano i casi maravigliosi che la
resero celebre. Casi meravigliosi, infatti, anche per la mescolanza
incredibile che presentavano di solenne, di bizzarro, di tragico, e a
volte di ridicolo dall'una parte e dall'altra. Che strana cosa, quei
brillanti aiutanti di campo che entravan di carriera nei villaggi, a
intimare: — _O alla messa fra ventiquattr'ore, o la morte!_ — e che
riportavano al generale quelle risposte: — _Meglio mille volte la morte
che la messa!_ — E quei legati delle due parti che, nelle interruzioni
dei combattimenti, si radunavano, ancora neri di polvere e stravolti,
a disputare sul sacramento del battesimo, sulla supremazia del Papa
e sulla transustanziazione! Strani, degni del pennello di un grande
umorista, quegli sgomberi forzati dei conventi, quei monaci portati
via sulle spalle dalle donne in mezzo alle grida festose del popolo:
io li vedevo, per quelle strade, beccheggiare al di sopra delle teste
della folla, come barconi sopra un'acqua agitata, e mi pareva che
non fossero mica spaventati, alcuni di quei fratoni, di sentirsi di
sotto le spalle rotonde di due robuste eretiche di venticinque anni,
e che nell'appoggiar le mani sulle teste per non cadere, andassero
palpando le grosse trecce con un'aria sorniona, sorridendo tra le
palpebre semichiuse. E quelle sfide clamorose a disputare sul culto
delle immagini e sulla presenza di Gesù Cristo nell'ostia, che si
slanciavano da un paese all'altro, per lettera, monaci, gesuiti e
pastori, chiamandosi a vicenda ignoranti, bestemmiatori, donnaioli e
dannati; quelle scene tumultuose, quando i due avversari convenivan
nelle chiese, l'uno seguito dai suoi Valdesi, l'altro da un codazzo di
gentiluomini, di frati, di sagrestani e di bifolchi, in presenza d'un
governator militare cattolico, che avrebbe dato fuoco a tutt'e due;
e lì fiumi di chiacchiere, e grida, e gesticolamenti d'energumeni,
e chi sa che birberie di cavilli, che scambietti d'arzigogoli da
bastonate, e quante volte il santo randello sarà accorso in aiuto
delle cattive ragioni! — Ma l'immagine che mi vidi più viva dinanzi
per tutto quel giorno, che mi pesava quasi sull'animo come il ricordo
d'un sogno spaventoso, come l'espressione di tutti i terrori e di
tutti gli orrori della storia valdese, son quei convogli che passarono
molte volte per quelle strade, nei secoli scorsi, quelle commissioni
che venivan da Torino per estirpar l'eresia, in qualunque modo,
con la persuasione, con le minacce e con la morte. Ah! no, studiate
pure: voi non riuscirete a rappresentarvi alla mente un quadro più
lugubre e più tremendo.... Il presidente del parlamento di Torino, dei
consiglieri, dei membri del tribunale dell'inquisizione, una frotta
di domenicani, di gesuiti, di arcieri di giustizia, e un seguito di
contadini infanatichiti, armati di coltelli, e di predatori vagabondi
raccattati per viaggio, e i frati cappuccini, e i birri, e il boia....
Raffigurateveli per una via di villaggio, di notte, che passano
lentamente, fra le case mute, al chiarore delle torcie resinose che
gettan per le finestre nelle stanze un riflesso delle fiamme del
rogo; immaginate quel miscuglio di cappucci, di caschi, di pugnali,
di crocifissi, di corde, quel rumore di catene e di tonache, quelle
faccie barbute, quelle braccia in croce, quel mormorìo di preghiere,
quelle fiamme fumose e quell'ombre sui muri.... Ah! l'orribile cosa!
In pieno giorno, in mezzo a quel bel verde e sotto quel bel cielo, la
scellerata visione mi strappava un grido muto dall'anima: — Via, larve
nefande, spauracchi abbominevoli del passato!.... — e svanivano; ma per
riassalirmi ad un altro svolto di strada, come uno stormo di upupe, che
uscissero improvvisamente da un cimitero.
*
* *
I miei due compagni mi condussero a fare una visita a un loro amico
valdese, un signore sulla sessantina, dotto e amabile, padre d'una
famiglia numerosa e studiosa, sparpagliata per l'Europa. In quei
giorni, ce n'era a casa una buona parte; signorine e giovanetti,
d'aspetto serio e simpatico. La casa mi parve che ritraesse qualche
cosa del carattere della religione: una grande semplicità, le pareti
bianche, una pulizia olandese, un ordine rigoroso: l'apparenza d'una
casa in cui tutti dovessero levarsi prestissimo, e studiare, pregare e
ricrearsi a quelle date ore, a regola d'orologio, come in un collegio.
Parlavano tutti francese. I Valdesi colti parlan quasi sempre quella
lingua fra loro. La introdussero nel paese, dicono, i pastori che
vennero chiamati dalla Francia e da Ginevra dopo che la peste del 1630
ebbe portati via quasi tutti i pastori nativi delle valli; e aiutarono
anche a diffonderla i giovani mandati a studiare di là dalle Alpi,
e i libri religiosi, scritti in francese. Ora, peraltro, in quella
predilezione del francese c'entra anche un po' di compiacenza, l'idea
di parlare una lingua che tutti gli altri italiani vicini vorrebbero
conoscere, e che essi conoscon meglio di tutti, e che è quindi, per
loro, come un segno e un argomento di maggiore cultura. Ma si vanno
italianando, lentamente, da parecchi anni. E intendo dire di lingua,
perchè di cuore sono italianissimi, e non hanno punta simpatia, se così
può dirsi, storica per la Francia; alla quale danno la parte maggiore
di colpa nelle persecuzioni che ebbero a patire; non ostante che gli
scrittori d'oltralpi s'ingegnino di persuaderli che i loro più funesti
persecutori furono in ogni tempo gl'italiani. Certo, la quistione non
è facile a risolvere. Ma questo è incontestabile, almeno: che la più
terribile delle persecuzioni, quella per cui tutto il popolo valdese
venne strappato dalle sue valli e disperso pel mondo, fu opera di
Luigi XIV, e che gli orrori commessi in quell'anno dall'esercito del
gran re nella valle di San Martino, stanno poco al di sotto delle
famose stragi di Pasqua. Ma essi parlano di tutti quegli avvenimenti
senz'ira, e quasi senza rancore, da vincitori che han perdonato; e
perfino nei loro scritti storici, se qualche volta si lasciano sfuggire
una parola violenta, non è quasi mai che una parola; alla quale
segue subito l'espressione d'un sentimento di pietà e di benevolenza.
Deriva anche questa moderazione dalla cultura, dalla conoscenza della
storia, particolarmente, che è assai diffusa fra loro; per il che non
cadono nell'errore di spinger troppo oltre le giuste recriminazioni,
giudicando il passato con le idee del presente. Non c'è alcuno di essi
che, nel giudicare le guerre atroci di cui furon vittime i loro padri
nel sedicesimo secolo, non mostri d'aver chiaro in mente il concetto
dello stato di quella Europa, divisa in due campi dalla religione,
agitata furiosamente dal Papato, che andava riacquistando le antiche
forze, insanguinata con egual furore da protestanti e da cattolici:
il concetto, dico, della confusione di errori e di passioni di quel
periodo di tempo, nel quale avevan color religioso tutte le guerre,
e la teologia guidava la politica, ed era massima inconcussa in ogni
Stato la necessità dell'unità religiosa, e che fosse fuor della legge
chi era fuor della Chiesa, e che non si dovesse usare in materia
di religione nè pietà nè misericordia. Perciò non si rifiutano di
riconoscere, nemmeno nei più implacabili nemici di quegli anni, certe
ragioni che valgono a scemare alquanto l'odiosità delle persecuzioni,
o a spiegare almeno come le abbiano potute compiere, pure non essendo
mostri di ferocia. Riguardo alla casa di Savoia, in particolar modo,
mostrano una grande mitezza; la quale, per esser giusta, non è men
generosa: pare che non ne ricordino che i benefizi. Rispetto ai primi
duchi, lamentano l'ignoranza in cui eran tenuti, le favole calunniose
con le quali venivano eccitati contro i Valdesi, dipinti a loro come
gente depravata, selvaggia, impaziente d'ogni legge. Rispetto agli
altri, sanno come fossero istigati, forzati alla violenza da Francia,
da Spagna, da Roma; come anche i più severi di essi fossero rampognati,
accusati di mollezza colpevole, specialmente dai Papi; come lo stesso
Emanuele Filiberto, sotto il quale infuriò quel famigerato conte della
Trinità, ripugnasse dalla guerra che il legato pontificio gli predicava
necessaria con minacce e con rimproveri amari, e come manifestasse poi,
con fiere parole, alla Corte di Roma la sua disapprovazione per il
modo di procedere del Sant'Uffizio che “invece di punire, disperava„
e che era più atto “a distruggere, che a edificare.„ Ricordano con
gratitudine l'ammirazione e la pietà di Filippo di Savoia. Non ignorano
infine, che Vittorio Amedeo II resistette quanto potè alle istigazioni
di Luigi XIV prima di rompere quella deplorabile guerra del 1686;
che lo irritò con cento ripulse e con ogni sorta di scappatoie; che
non cedette se non minacciato; che dovette cedere perchè il Re lo
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