Alle porte d'Italia - 12

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roccia. Quel po' di luce che vi scende le dà l'aspetto sinistro d'una
carcere sotterranea di castello, dove i prigionieri ricevano il cibo
dalle fessure della volta. Il pastore ci diceva che alle volte vi si
piglian dei pipistrelli nei vani delle pareti, così, allungando la
mano. È una luce giallastra, tristissima, più ingrata delle tenebre,
che dà ai visi delle persone una pallidezza di gente spaventata.
L'angolo opposto all'entrata era oscurissimo: il signor Bonnet, ritto
là in fondo sopra un macigno, col moccoletto che gli rischiarava il
viso di sotto in su, aveva l'apparenza d'uno spettro. Certo che doveva
destare una commozione profonda il pastore dalla lunga barba bianca
che da quel pulpito di roccia, al chiarore d'una fiaccola, predicava
con voce sommessa alla folla, pigiata in quella specie di cripta
selvaggia, in cui ciascuno poteva temere di essere entrato per non
uscirne mai più. Mentre il pastore predicava o i fedeli cantavano i
salmi a mezza voce, dei giovani valdesi stavano alla vedetta sulle
alture vicine. Al lontano apparir delle avanguardie nemiche, davan
l'avviso, e allora, giù nella grotta, si faceva un silenzio di tomba,
e si stringevan gli uni agli altri, tremando e pregando col pensiero,
fin che i nemici fosser passati, inoltrandosi nella valle. Ma così non
seguiva sempre. Qualche volta le spie, qualche volta i cani, addestrati
alla caccia dell'uomo, guidavano i soldati per il giusto sentiero;
e allora le vedette accorrevano col viso esterrefatto a portar
l'annunzio tremendo: le madri si stringevano i bimbi sul cuore, i padri
benedicevan le famiglie, gli amici si scambiavano l'ultimo saluto,
e poi, immobili, muti, col respiro sospeso, tendevan l'orecchio,
raccomandando l'anima a Dio.... Ah! quel suono delle alabarde picchiate
nelle rocce dell'apertura! Quelle voci tonanti che gettavan per gli
spiragli il comando di uscire! Quel rumore delle legna e delle foglie
secche ammucchiate davanti alla buca, e i primi nuvoli di fumo che
entravano, accompagnati da uno scoppio di bestemmie e di risate di
scherno! Pensando a questo, par che quella piccola fessura per cui si è
entrati a fatica, si debba chiudere di momento in momento, e si prova
un senso d'affanno, come in quei brutti sogni, nei quali aggirandoci
per i meandri d'un sotterraneo, vediamo spegnersi tutte le fiaccole
e udiamo sbarrar le porte da ogni lato. Tant'è vero, che nonostante
l'invito del pastore, non ci volemmo ficcare in altre due tane, ultimo
rifugio dei disperati, le quali sono come due ripostigli della caverna
grande, difficili molto a scoprirsi; e salvarono forse la vita a più
di un infelice. Già che non c'erano i soldati del conte della Trinità!
E poi splendeva un così bel sole di fuori! Ci tornammo ad allungare
in terra.... Ma questa volta fui meno fortunato della prima, e diedi
una capata che mi mise sottosopra centocinquanta pagine delle _Porte
d'Italia_. — Badi alla testa! — gridò il Bonnet, che era già fuori. —
Grazie! È già fatto! — risposi. — E mi parve che sorridesse della mia
risposta. Ma sorrideva forse con un altro pensiero, vedendoci strisciar
tutti e tre a quella maniera, come tre schiavi sotto il bastone. —
Ci avete fatto passar di lì tante volte voialtri, — avrà pensato; — è
giusto che vi ci facciamo passare un poco anche noi, cani di papisti. —
Ma il suo viso dolce non rivelava punto la compiacenza della vendetta.
Aspettò che avessimo rimesso a posto i panni e le ossa, e poi riprese
la direzione della marcia, saltando di macigno in macigno, con la
sicurezza di un pastore antico, esercitato alle battaglie dei monti.
*
* *
Ripigliammo la via della valle, udendo per un buon tratto la voce del
felice angrognino che cantava l'_abbietta zingara_ del _Trovatore,_ e
passammo sopra a un torrente, chiamato Vengíe, quasi nascosto dalla
vegetazione, che riempie il suo vallone ripidissimo; il quale forma
una prima linea di difesa di val d'Angrogna contro l'assalitore che
venga da val di Luserna. Da una parte del torrente s'alza una enorme
roccia diritta, simile al piedestallo d'un monumento titanico, alla
quale si lega una leggenda graziosa. Una volta all'anno, dicono i
valligiani, tra la mezzanotte e il tocco, una vecchia sta sulla cima di
quella roccia a filare, lasciando spenzolar giù il fuso, che dondola,
girando, nelle tenebre. Il giovane che passa di là, è chiamato, perchè
cerchi d'afferrare il fuso, alla cieca: se l'agguanta, la sua felicità
è assicurata; canterà anche lui per tutta la vita, come quel tale
fortunato. Ma non è la sola cosa notevole del luogo, quella roccia.
Il torrente Vengíe divide in due parti il territorio della parrocchia
d'Angrogna; e questo è curioso, che di qua e di là, a pochi passi di
distanza, si parlano due dialetti notevolmente diversi; l'uno, quello
della parte bassa, più simile al dialetto del Piemonte, l'altro con
molto maggior fondo francese. _Scrivou cista dua grissa per fa vou
conoisce lou langage d'Angreugna, che a smiglia ren dar tout a noste
parlà_. Più strano è che, anche da Valdesi a Valdesi, c'è una certa
rivalità, per non dire inimicizia, fra gli abitanti delle due rive. I
giovani di qua dal torrente che vanno a far all'amore con le ragazze
dell'altra parte, corrono il rischio molto spesso di essere conditi
a sugo di bosco. Così pure negli affari comunali: ciascuna parte
fa l'impossibile perchè riesca un sindaco suo. Ma è rarissimo che
seguano risse. I carabinieri di Torre Pellice non arrivan fin là che
a urli di lupo, come il medico, il quale dice che ci va soltanto per
i parti e per le morti; chi non partorisce e non muore, sta sempre a
maraviglia. Ci faceva specie sentir parlare di abitanti e di costumi,
e non veder mai nessuno. Eppure la popolazione della valle conta circa
mille settecento Valdesi e settecento cattolici, con tre templi, due
chiese cattoliche e sedici scuole. Ma a quell'ora eran quasi tutti
al lavoro, o giù in fondo, lungo l'Angrogna, o sull'alto dei monti,
dentro e di là da quei boschi che ci pendevan sul capo. Quasi tutti
sono piccoli proprietarii: le terre sono divise molto minutamente,
anche tra i cattolici, dei quali un grande numero sono trovatelli,
perchè da molti anni, a Pinerolo, è uso di mandare i trovatelli, i
_venturini,_ come si dice graziosamente in quelle campagne, nella
valle d'Angrogna; dove crescono, lavorano e si maritano, lontani dal
mondo che li ha rinnegati. Domandai al signor Bonnet se nascessero mai
litigi tra cattolici e valdesi. — Mai, — mi rispose. Il pastore e i
preti cattolici si salutano cortesemente, senza stringere amicizia, e
i contadini vivono di buonissimo accordo. Qualche volta degli operai
dell'una e dell'altra religione, lavorando insieme nella stessa casa
o nello stesso campo, entrano in discussioni religiose, di dommatica,
pigliano anche un po' di caldana; ma non vanno mai più in là. Quando un
Valdese muore, i cattolici vanno ad accompagnarlo al camposanto; quando
muore un cattolico, lo accompagnano i Valdesi. Non c'è più ombra nè
d'odio nè di antipatia.
*
* *
Andavamo avanti, sempre in mezzo ai castagni, all'ombra, dentro a un
verde vivissimo, sparso di piccole macchie di sole, simili a strisce
e a mucchi di scudi d'oro, che ci rammentavano i bei boschetti freschi
del Calderini. Di tanto in tanto vedevamo spuntare fra gli alberi una
casetta rustica, con due finestre e una porticina; erano le scuole,
che si aprono nell'inverno. Il pastore ci indicò, in un luogo ombroso,
amenissimo, che pareva un angolo di parco, un piccolo spazio rotondo di
terra battuta, alquanto rialzato sul piano erboso, con un grosso tronco
piantato nel mezzo. Era la sala da ballo della “balda gioventù del
loco.„ In certi giorni di festa, la sera, vi si radunano i giovani e
le ragazze; i suonatori siedono sulle pietre e sull'erba; due lanterne
appese al tronco rischiarano le coppie, e al servizio di rinfreschi ci
pensa il ruscelletto vicino. Il pastore brontola, naturalmente; non
vede di buon occhio quel saltellìo di tentazioni e di peccatucci. Ma
anche la gioventù valdese non rinuncia così facilmente ai suoi gusti.
I costumi, nondimeno, non si può dire che siano liberi, quantunque
i giovani e le ragazze non siano tenuti a catena. Gli innamorati son
lasciati star soli insieme fino a tardi, al lume della luna, e credo
anche quando non c'è luna, purchè non sia proprio un buio da tagliarsi
a fette. Una graziosa canzonetta, che traduco in prosa, lo dice:
Alle Serre, l'altra sera,
Ero a letto, e m'addormentavo,
Quando sentii venire il mio amante,
E mi tornai a vestire.
— Benchè sia giovinetta,
Sedetevi qui, sulla panca;
Discorriamo dell'amore
Fin che la rondanina canti.
O rondanina bella,
Sei una traditora;
Ti sei messa a cantare
Che non era ancor l'ora.
N'avessimo vista almeno una di queste belle della panca! Ma da nessuna
parte si vedeva un'effigie umana. Solo dopo un bel pezzo di cammino,
incontrammo un contadino sui trent'anni, una bella figura, un tipo
di antico valdese guerriero, alto, coi capelli lunghi e biondi come
l'oro, con gli occhi celesti chiarissimi, con un gran cappello nero,
di cupola emisferica e di ampia tesa, simile ai cappelli pastorali
dei vescovi; una forma molto usata nella valle. Poi passarono alcune
vecchie, curve sotto dei gran carichi di fascinotti, facendo la
calza. E tutti, passando, salutarono il pastore con una certa dolcezza
d'accento: _Bonjour, monsieur Bonnet_. Ed egli rispose a tutti colla
stessa intonazione di benevolenza amichevole, chiamandoli per nome,
poichè di quasi tutti i suoi parrocchiani sa il nome. Una volta gli
avrebbero detto: — Buon giorno, barba, — che significa zio, e ch'era
il titolo dei pastori antichi; da cui nacque il nome di barbetti dato
ai Valdesi. Ora quel nome è caduto in disuso. Osservammo che tutte le
vecchie ch'eran passate avevan la cuffietta bianca. La cuffia bianca la
portano tutte le donne, ma dopo la pubertà solamente; le bimbe portano
la cuffietta nera. Ma si va perdendo anche quell'uso, a poco a poco. —
Una volta, — diceva il pastore, non senza un po' di rammarico, — non ci
vedevo che delle cuffie nella chiesa, bianche e nere, semplicissime,
tutte valdesi genuine. Ora le ragazze che sono state a servire a
Torino, a Nizza o a Marsiglia, tornan con le cuffie infronzolite,
con cappellini coperti di fiori e di nastri.... È tutt'altra cosa! —
Ah! caro il mio pastore, — avrei voluto dirgli; — bisognerà che lei
si prepari a vedere anche le gonnelle a sgonfi e le vite alla Sara
Bernardt. — Per ora, nondimeno, dal mento in giù, vestono ancora quasi
tutte semplicissimamente, di colori oscuri, con le vite liscie; e
quando portano anche quella cuffia bianca e nuda, hanno qualche cosa
di monacale all'aspetto, un'apparenza di gravità ascetica e di rigida
pudicizia, da farvi trattenere sulle labbra una parola galante, per
timore di essere rimbeccati con un versetto della Bibbia.
*
* *
La via proseguiva a giravolte, sempre alla stessa altezza, passando
di tratto in tratto sopra un ponticello, che accavalciava un rigagnolo
precipitoso. Alle volte ci trovavamo chiusi d'ogni parte dagli alberi,
come smarriti in un bosco oscuro, da cui non si vedeva più la valle.
In altri punti gli alberi si diradavano, e dalla proda della via
vedevamo cader giù la china lunghissima, per la quale, a lasciarsi
andare, saremmo rotolati come botticelli per una mezz'ora; e giù, a
una grande profondità, fra i tronchi fitti degli alberi bassi, dei
pezzi del letto della valle, verdi e lisci, come tappeti di bigliardo,
segnati di tante sottili _esse_ d'argento, dall'Angrogna. In tutti
quei luoghi, all'ombra del loro “albero nazionale,„ il castagno, si
radunavano i valdesi, prima della fondazione dei templi, per udir la
parola dei loro pastori; ed era uso, per annunziar l'arrivo del barba,
— uso che dura ancora su certi monti, — di stendere un lenzuolo bianco
per terra, nel punto dove il barba avrebbe pronunciato il suo sermone.
In un luogo dove passammo, tutto coperto da un castagneto, e chiamato
Cianforan, forse da un gruppo di case che c'era anticamente, fu tenuta
l'adunanza famosa del 1532, detta il Sinodo d'Angrogna, al quale, oltre
i pastori delle valli, intervennero dei barba dell'altra parte delle
Alpi, e molto seguito di fedeli delle colonie provenzale e calabrese,
per trattare insieme dell'adesione dei Valdesi alla riforma; e là fu
redatta quella dichiarazione di fede, in diciassette articoli, che
rimase poi, con quella primissima del secolo duodecimo, il fondamento
scritto del valdismo. E là pure, non molto lontano da Cianforan, dopo
lo spietato editto di Vittorio Amedeo II, ebbe luogo quella tragica
assemblea, iniziata con una preghiera solenne di Enrico Arnaud,
il futuro capitano della “rientrata gloriosa„, presenziata dagli
ambasciatori dei sei cantoni protestanti di Svizzera, e interrotta
da scoppi di pianto e da grida di angoscia; nella quale si discusse
intorno a quei due soli partiti disperati che si potevano prendere:
o rassegnarsi a perder la patria, o difendersi, senza speranza, fino
all'ultimo sangue. Ed altre riunioni memorabili, nei momenti di grande
pericolo, e in ispecie al tempo della peste e della carestia terribile
del secolo diciassettesimo, tennero i pastori sui monti d'Angrogna,
doppiamente consacrati dalla vittoria e dalla sventura. — Quasi tutta
la nostra storia è scritta qui, — ci diceva il Bonnet, accennando le
alture d'intorno; — di tutto il nostro paese, questo è il luogo in cui
s'è più pregato, più combattuto e più pianto. — E quelle solennità
religiose dei primi Valdesi, ch'egli ci descriveva, l'immagine di
quelle folle inginocchiate e preganti all'ombra degli alberi, ci
facevan pensare agli antichi riti druidici delle foreste, e ci parevano
anche più poetiche e più solenni per effetto della solitudine e del
silenzio da cui eravamo circondati. Veramente, quel non vedere e non
sentir nessuno, nè vicino nè lontano, ci cominciava a parere molto
strano; ed eravamo tentati di domandar sul serio al pastore se quei
duemila quattrocento abitanti fossero una bugia vanitosa dei registri
o una cosa vera. Ci sembrava di camminare in una di quelle valli
maravigliose e sconosciute dei racconti arabi, delle quali è padrone
il primo che capita, e vi fonda un regno e una dinastia. Oh il bel
romitorio fatto apposta per venirci a scrivere una storia universale!
Eppure c'è un giorno dell'anno, ci diceva il Bonnet, che anche la
valle d'Angrogna fa del rumore: l'anniversario del giorno in cui Carlo
Alberto firmò l'atto d'emancipazione dei Valdesi. Quello è un caro
giorno per tutti, festeggiato veramente con affetto, fin dai contadini
più poveri. I valligiani accorrono da ogni parte alla sede della
parrocchia; i ragazzi, divisi in sedici drappelli, convengono là dalle
sedici scuole, a suon di tamburo, con la bandiera nazionale, guidati
dai maestri e seguiti dalle famiglie; si raccolgono nella chiesa, dove
il pastore fa un discorso d'occasione, cantano, declamano poesie; poi
ciascuno riceve in regalo un pezzo di pane bianco, che è una festa, e
un arancio, che è un tesoro; i maestri e tutte le autorità del comune
desinano insieme; la sera si fanno dei fuochi di gioia sui monti; e
i ragazzi se ne ritornano cantando, per i sentieri dove i loro padri
combatterono e morirono, tutti contenti, con un opuscoletto in mano,
donato anche quello, un episodio, per lo più, della storia valdese,
scritto e stampato apposta; che essi leggeranno poi cento volte, nelle
lunghe serate d'inverno, dentro alle loro piccole case, mezzo sepolte
nella neve.
*
* *
Arrivammo a un gruppo di case, chiamato le Serre, posto sopra una bella
altura, accanto a un tempio fondato nel 1555, e ricostrutto pochi anni
sono; piccolo, tutto bianco, fiancheggiato da un campaniletto, con la
candela emblematica dipinta sopra la porta. Dal piazzale del tempio,
come da un belvedere, si domina tutta la parte bassa della valle,
fino a Torre Pellice, che biancheggia laggiù alla sua imboccatura,
come l'accampamento d'un esercito, preparato ad assalirla. I generali
cattolici si debbono essere messi molte volte in quel punto per veder
sfilare le colonne che andavano a tentar la presa di Pra del Torno. Di
là si vedono i monti dell'altro lato della valle, vicinissimi, erti
come muraglie, tutti vestiti di tigli, di faggi, di piccole quercie,
di nocciuoli e di pruni, e rocciosi sulle cime: specialmente la Costa
Roussina, sulla quale furono aspramente malmenati i soldati di Emanuele
Filiberto, tutta scoperta e nuda, in maniera che vi si vedrebbero,
anche dalle Serre, le vicende d'un combattimento di due pattuglie.
Là pure c'era una pace profonda, e avremmo creduto di essere in un
luogo disabitato, se non avessimo sentito i colpi di piccozzo di tre
muratori che lavoravano a fabbricare una casetta. Il signor Bonnet,
nondimeno, compì il miracolo di farci trovar da colezione. Ci condusse
in casa di un contadino, il quale ci apparecchiò la tavola sopra un
terrazzino di legno, e ci servì, per trattarci da signori, tre dozzine
d'uova al guscio, domandandoci se doveva metterne al fuoco dell'altre.
Questo grandioso imbanditore era un ex-sindaco d'Angrogna; una figura
singolare, con due grandi occhi oscuri vivacissimi e un sorriso pieno
d'arguzia: senza baffi, la barba nel collo, un Valdese pretto, di
quegli angrognini, di cui ci parlò il Bonnet, frequenti nella parte
alta, rari nella parte bassa della valle, i quali danno alle volte
sui sermoni dei pastori dei giudizi critici d'un'acutezza e d'una
precisione di parola, da far rimanere. Era vestito rozzamente; ma
pareva piuttosto un banchiere o un impresario di strade ferrate andato
a male, che un contadino. Con la sua famiglia parlava il dialetto, col
pastore il francese, e con noi, alla meglio, l'italiano, scherzando, ma
con garbo. Vedendoci impicciati a mangiar l'ova senza ovarolo, tagliò
una grossa fetta d'uno di quei pani neri, durissimi, che fanno una
volta al mese, ci aprì dentro un buco della forma d'un ovo, e la mise
davanti a un di noi, dicendo lentamente, col tuono di chi sa di dire
una cosa che farà effetto: — Il bi-so-gno fa na-sce-re l'in-du-stria.
— Tutti i suoi figliuoli avevan quegli stessi occhioni pieni d'ingegno;
uno principalmente, un bel ragazzetto che ci porgeva da bere con molta
grazia, poco più che decenne; dell'età appunto in cui li cercavano
le patrizie torinesi dopo che quell'anima pia della marchesa di
Pianezza aveva messo alla moda di portar dietro alla carrozza un lacchè
barbetto, a modo di trofeo vivente strappato all'esercito dell'eresia.
Di là, guardando dalla parte opposta a Torre Pellice, al disopra
degli alberi dell'orto, rossi di mele e di lazzerole, godevamo d'una
veduta ammirabile: l'alto della valle, chiuso da tutti quei monti, che
par che s'incastrino gli uni fra gli altri, e cerchino di coprirsi
a vicenda; dietro al contrafforte che si spicca dal Vandalino, le
Rocciaglie che si staccano dal monte Servin, e dietro alle Rocciaglie
un altro monte, e di là da quello il monte Roux, il re delle valli, in
berretta bianca; simili, così di lontano, a una successione d'immense
muraglie verticali, tagliate obliquamente, e così strette fra loro, da
lasciare appena il passo ad un uomo. Si capisce come quello spettacolo
dovesse destare una viva inquietudine nei soldati cattolici non esperti
della montagna, la prima volta che vi si trovavan davanti. A chi non
sapesse nulla, parrebbe infatti di non poter fare due miglia innanzi
senza andar a battere il capo in una gigantesca parete di granito. Non
sembra più che debba continuare la valle dietro al primo contrafforte;
ma serpeggiare non so che orribile corridoio, in cui manchi l'aria
e la luce, una formidabile trappola da eserciti, dove una colonna
assalitrice abbia da rimaner presa e schiacciata come una processione
di formiche in mezzo alle pietre d'una macina, o arrestarsi appena
entrata, stupefatta, inchiodata alle rocce da un terrore misterioso.
Chi mai ci potrà esser là dentro, pensavo, fuorchè dei lupi e degli
orsi, o una specie di popolo d'Oga Magoga, separato dal mondo?
*
* *
Dall'altura delle Serre la strada comincia a scendere, ma sempre
in mezzo ai castagni, ai noci, a ogni sorta di alberi montani, che
gettano le loro grandi ombre sopra dei vasti tappeti di velluto
verde, stelleggiati di freddoline. Via via che scendevamo, la voce
del torrente ingrossava, come la voce d'una folla irritata che salisse
verso di noi. Ci andavamo avvicinando al punto più stretto della valle,
a quel luogo tremendo e memorabile, che si può chiamare le “Termopili
dei Valdesi.„ Probabilmente la strada che percorrevamo era la medesima
che avevano percorso quelle colonne degli eserciti cattolici, le quali
tentavano di penetrare in Pra del Torno lungo il torrente, mentre
le altre cercavano di calarvi dalle montagne; quella stessa strada,
per la quale retrocedevano poi, disordinatamente, turbe di soldati
senz'armi, aiutanti di campo bianchi di terrore, e generali che si
mordevan le mani, vermigli dall'ira e dalla vergogna, bestemmiando
tutte le più sacre cose in nome di cui erano andati a combattere.
Poichè, per circa duecent'anni, quel maledetto Pra del Torno fu
veramente la cittadella del diavolo per gli eserciti papisti. Sulla
fine del secolo decimoquinto lo assale l'arcidiacono di Cremona, il
famoso De Capitaneis, coi suoi famosi crociati; e n'esce rotto, pesto
e sbaragliato, giurando di non riporvi più i piedi. Lo investe nel
1561, con un esercito, il conte della Trinità; e vi è sconfitto nel
mese di febbraio, schiacciato nel mese di marzo, tagliato a pezzi nel
mese d'aprile, ributtato e incalzato fino al piano, dove s'ammala di
dolore e di rabbia. Tenta d'impadronirsene il marchese di Pianezza, e
vi è sgominato; vi slancia le sue colonne il marchese di Fleury, e v'è
disfatto. È tempo e sangue buttato via. Pra del Torno rimarrà inviolato
per due secoli, dal 1488 al 1686, come una rocca inaccessibile, difesa
da una forza più che umana. E cadrà nel 1686, per la prima volta; ma
bisognerà che l'assalgano insieme, dopo lunghi apparecchi, la Francia e
la Savoia riunite; un grande principe e un grande generale; l'esercito
di Luigi XIV, movendo da Pramollo, e salendo sul colle della Vachère;
l'esercito di Vittorio Amedeo, gettandosi sui monti d'Angrogna da
Bricherasio, da Bibiana, da Garzigliana, da Torre Pellice; il generale
Catinat coi battaglioni del Delfinato, coi presidii di Pinerolo e di
Casale, con le artiglierie, coi dragoni famosi; Gabriele di Savoia,
coi reggimenti di Nizza, di Savoia, di Monferrato, della Croce
Bianca, con le guardie del corpo, con la cavalleria, coi gendarmi, coi
volontari di Mondovì, di Barge, di Bagnolo; eccitati tutti dai capi
come ad una grande impresa, carichi di munizioni, di sacchi, d'ascie
e di pale come per l'assalto d'una città forte; tutta quest'ira di
Dio bisognerà che si rovesci sulla valle d'Angrogna per aver ragione
d'un pugno d'uomini spossati e senza speranze, che pure romperanno
ancora una volta, prima di cedere, l'onda irruente dei battaglioni. E
quella sarà festeggiata come una grande vittoria, tanto parrà strano
a tutti, e quasi maraviglioso, di esser riusciti a ferir quel nemico
nel “cuore;„ una grande vittoria.... simile a quella del marchese di
Pianezza, quando mosse con ottomila soldati e duemila contadini contro
i diciassette Valdesi di Rorà. Ma non era mica il pastore Bonnet che
diceva queste cose, strada facendo: eravamo noi. Egli non vantò mai i
suoi padri valdesi durante la passeggiata. Non faceva che dipingerci
lo spettacolo solenne e lugubre che doveva presentare quella valle,
quando, all'avvicinarsi d'un esercito, tutti gli abitanti dei luoghi
vicini correvano a rifugiarsi a Pra del Torno; e per quella strada, e
sulle cime dei monti, e giù lungo il torrente passavano famiglie dietro
a famiglie, portando le loro robe e i loro malati, e da tutte le parti
si sentivan cantar salmi e cantici, come da gente che andasse alla
morte. E ci facevan tanto più effetto quelle cose per la maniera con
cui le diceva, senz'ombra di retorica predicatoria, aggiustandosi ogni
tanto il cappelletto di paglia gialla e il soprabito che s'era buttato
sulle spalle, come un buon giovanotto, che ci parlasse amichevolmente
d'un avvenimento doloroso della sua famiglia, non per cercare la nostra
pietà, ma per espander la sua.
*
* *
Intanto eravamo arrivati nel fondo della valle.
Qui, una maraviglia di bellezza. Il torrente vien giù, grosso, rotto
da pietroni enormi, a salti e a sprazzi, come scendendo per una scala
informe di roccia, e occupa quasi tutto il letto della valle. Di qua
e di là si levano quasi a picco i monti altissimi, rocciosi, boscosi,
orridi, quasi neri, dalla parte dell'ombra. Par di essere in fondo a
una grande crepa della terra: bisogna torcere la testa in su per vedere
il cielo. Il luogo è maravigliosamente sonoro. Alle cento voci del
torrente s'unisce il rumorìo vario e assordante d'un'immensa quantità
d'acqua che vien giù dalle montagne. Grossi rigagnoli limpidissimi
corrono lungo la strada con l'impeto di torrentelli contenuti a stento
fra le sponde; dentro ai massi, qua e là, s'aprono delle piccole grotte
nere, dove cadono miriadi di stille, che risonano nei laghetti di
sotto, formando per aria dei brevi arcobaleni e svegliando degli echi
sommessi, da cui par di sentirsi chiamare, passando; da tutte le chine
scendon larghe vene d'acqua, le quali si rompono e si sparpagliano
in ruscelli rumorosi, in cascatelle sonanti e spumeggianti, che
biancheggian tra il verde, su in alto, quasi sul capo di chi passa,
da ogni parte; altri ruscelli più alti, che par che caschin dal
cielo, si slanciano con grida di gioia infantile dalla sommità delle
alture; delle fontanelle solitarie mormorano fra i macigni: le rocce
grondano, sudano, piangono, gemono; mille voci che par che facciano
a soverchiarsi, e a dir ciascuna la sua, mille note gravi, acute,
argentine, trillanti, carezzevoli, lente, precipitose, empiono l'aria;
un canterellìo, un gridìo, un baccano, una baldoria che stordisce,
rallegra l'anima, mette fresco nel sangue e fa fremere i nervi di
piacere. Non ci sentivamo più parlare, quasi. Ridevamo, senza sapere
perchè, come in mezzo a una festa di ragazzi. Tutto quel chiasso
ci aveva colti all'improvviso. Eravamo ben lontani dall'aspettarci
un'accoglienza così gioiosa. L'acqua correva, saltellava in tale
abbondanza e con tanto impeto al di sopra del nostro capo, che in
certi punti c'era da temere di fare un bagno involontario, e non
sarebbe stato inutile aprire gli ombrelli. La musica ci accompagnò per
un pezzo, crescendo. In certi tratti pareva che si chetasse un poco;
le voci dell'acqua si facevan più rare e più basse. Poi, tutt'a un
tratto, alla svoltata d'una roccia, un altro scoppio più rumoroso di
grida, di trilli, di vocioni del torrente, di borbottii di fontane, di
risa di cascatelle, di note profonde e cristalline rapidissime, che
pareva ci volessero dire, raccontare, spiegare, persuadere qualche
cosa, affannosamente; un diluvio di chiacchiere incomprensibili,
da far perdere la pazienza, e gridare: — Ma sì! Ma chetatevi! Ma
abbiamo capito! — E allora, per pochi momenti, si tranquillavano, e
noi tornavamo a poter discorrere, senza bisogno d'urlare. Ma ecco,
improvvisamente, un nuovo fragorìo, un coro altissimo e concitato di
saluti sonori, di chiamate, di esclamazioni, di risatine, di versi
d'uccello e di tintinni di campanelli, come d'una moltitudine nascosta
dietro ai macigni, tra le piante e nelle grotte, come di centinaia
di donne e di bimbi, che da tutte le altezze ci apostrofassero,
motteggiando il conte della Trinità, domandandoci come stava il
marchese di Pianezza, ridendosi degli inquisitori e dei frati. Era
un'armonia, uno spettacolo da metter voglia di batter le mani o di
sventolare il fazzoletto. — Eppure, — ci diceva il Bonnet, — questa non
è la migliore stagione per venir qua: bisogna venirci di maggio, quando
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