Alle porte d'Italia - 05

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a romitori d'anacoreti, e di piccoli quadrati di neve, rimasugli
bianchi di valanghe, che paion tovaglie dimenticate di colazioni
d'alpinisti. Siamo finalmente nella montagna “vera„ come dice il
Giacosa, che mi rimprovera sempre di non aver mai visto che montagne
“false.„ L'aria gagliarda, la sonorità dell'acqua, i fiori di color
vivissimo, i profumi della _lavandula spica_ e della _nepeta nepetella_
ce lo annunziano. Fiancheggiamo ancora Mentoulles, a cui domandiamo,
passando, se ha dormito bene Francesco I, e vediamo di là dal torrente
la selva di Chambon, la più bella delle Alpi Cozie, vasta, fittissima e
bruna, come una moltitudine innumerata di giganti, affollati sui colli
e pei fianchi delle montagne, che aspettino un comando misterioso per
scendere, e inondare la valle e irrompere nel Piemonte.
*
* *
Ma già di lontano avevamo visto uno dei più straordinari edifizi
che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una
sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a
scaglioni, che dalla cima d'un monte alto quasi duemila metri vien
giù fin nella valle, presentando il contorno d'uno di quei bizzarri
colossi architettonici che vedeva Gustavo Doré coi suoi grandi occhi
di mago: l'immagine di un vastissimo chiostro medievale, d'un tempio
smisurato di Cheope, d'una immane reggia babilonese; che so io? un
ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offre non so che
aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o
una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o
per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande,
bella davvero. Era la fortezza di Fenestrelle.
E fu anche più gradevole l'impressione quando arrivammo ai piedi
del monte, e ci trovammo davanti al forte di Carlo Alberto, piantato
là sul Chisone, a traverso alla strada, come un castello antico che
intercetti il cammino, con la sua poderosa saracinesca sospesa sul
ponte levatoio, tutto bucato di feritoie, da ciascuna delle quali
pare che debba uscire una voce minacciosa per domandare “le carte.„
Il Giacosa si sentì risonar dentro tutti gli echi armoniosi del
suo medioevo. Si direbbe che l'ha disegnato e messo là un poeta,
quel forte; non un colonnello del genio: il soldato di fanteria che
faceva sentinella al portone, stonava tra quei muri come una frase di
regolamento in mezzo a una ottava dell'Ariosto. La carrozza passò sul
ponte, che brontolò cupamente, come risentito d'un'offesa, e tirò via
verso Fenestrelle. E per un buon tratto di strada, voltandoci indietro,
vedemmo tutta la vasta fortezza che si alzava maestosamente sopra di
noi, un disordine grandioso di edifizi nudi e foschi, sorgenti l'uno
sul capo dell'altro, tortuosamente, come se rampicassero su per la
montagna, dandosi di spalla a vicenda; alti muri rivolti in cento
direzioni, dei quali non si capisce a primo aspetto lo scopo; tetti
sormontati da tetti, imprigionati fra i bastioni, rocce che sporgono
al di sopra degli spalti, fortini che alzan la testa al di sopra delle
rocce, irti di parafulmini, forati di cannoniere, fiancheggiati di
scale, congiunti come dalle ramificazioni d'un labirinto di pietra,
tutto angoli acuti e saliscendi e rigiri; una fortezza non mai veduta,
infine, che sembra composta di tante fortezze sovrapposte e legate a
caso, costrutte tumultuariamente, nella furia del pericolo, in mille
occasioni diverse, o intricate a quel modo, senza legge, di deliberato
proposito, per confonder la testa agli assalitori. Una veduta, creda
chi non c'è stato, da far nascer la voglia di comporre un ballo storico
fenestrelliano, unicamente per metterci in fondo quella scena, che
farebbe la fortuna di un impresario.
*
* *
Pregustando con l'immaginazione il piacere di penetrare dentro a
quei misteri terribili, arrivammo alla piccola e giovane città di
Fenestrelle. Ero curioso molto di vederla, quella cittadina solitaria,
dopo averla intesa rammentare tante volte da impiegati e da ufficiali
freddolosi, che lamentavano con voce lugubre i suoi inverni di nove
mesi, e la descrivevano come un villaggio perduto della Groenlandia.
Ebbene, rimasi tutto meravigliato percorrendo quell'unica via stretta
e tortuosa, lungo la quale si schierano le sue piccole case. Ha l'aria
di un villaggio olandese, tanto è dipinta gaiamente da ogni parte. Da
ogni davanzale sporgon dei fiori, e muri, terrazzi, imposte, contorni
di finestre, battenti di porte, tutto è tinto di colori vistosi e
freschi, come se là pure, come in Olanda, cercassero di consolarsi
della tristezza del clima con le allegrie del pennello. Perchè la
somiglianza ci apparisse meglio, scendemmo in un curiosissimo albergo
della _Rosa rossa_, che ha daccanto all'entrata una specie di loggetta,
o teatro di burattini, tappezzata di mille colori e ornata di mille
gingilli, e sotto il portone un quissimile di lanterna chinese, e nel
cortile, tutto intorno ai quattro muri, i ritratti dei grandi italiani,
e teste d'angelo sotto i terrazzi, e vasi decorativi sopra le porte,
e pitture intorno alle finestre, e automi messi in moto dalle fontane,
e ogni sorta d'ornamenti da baracca carnovalesca, d'un gusto perverso
e amenissimo, che paiono immaginati da un ragazzo o da un matto; e
per giunta due gatti bianchi come la neve, con due paia d'occhi d'un
azzurro così meraviglioso, da far sospettare che abbiano in corpo gli
spiriti cabalistici di due streghine delle Alpi Cozie. Del resto, ci
si trova delle trote da monsignori, un sugo di pergola squisito, e
un liquore dei _fiori del prato di Catinat_, che farebbe digerire una
bomba lessa. Tutta la città è curiosa a quel modo; variopinta e gaia a
primo aspetto; ma come ristretta in sè, per tenersi calda, e aduggita,
impaurita quasi dai monti altissimi che la dominano d'ogni lato. A
ogni passo ci s'incontrano soldati in vestito di tela, visi abbronzati
d'alpinisti, facce rosate di montanari; e i due soliti carabinieri che
vi ficcan negli occhi uno sguardo insolitamente profondo, uno sguardo
da _servizio di frontiera_.
*
* *
Spacciate le trote, salimmo verso il forte di San Carlo, per il quale
s'entra nel recinto della fortezza. Passammo sopra un altro ponte
levatoio, in mezzo a muri enormi, a bastioni petrosi: tutto grigio,
freddo, arcigno, spaurevole. — Si vede che nulla di tutto questo,
diceva il Giacosa, è stato costrutto con un'intenzione benevola.
— Entrati, vedemmo di sfuggita il quartiere degli ufficiali, la
cappella, l'ospedale, le prigioni, la casa del Governatore, un gruppo
di edifizi di malumore, che ci guardarono poco benignamente a traverso
alle palpebre socchiuse delle loro finestre; e ci disponemmo a far
l'ascensione della formidabile scala di quattromila scalini, intagliata
nella roccia, e coperta da una vòlta a prova di bomba, che va su dal
forte di San Carlo fino alla cima del monte. Un simpatico sergente
d'artiglieria, che l'ottimo Comandante ci diede per scorta, mosso a
pietà delle nostre gravi persone, ci domandò cortesemente se volevamo
salire per la scala coperta, o per la via esterna, che è meno faticosa.
Ma noi rispondemmo con l'incauta baldanza di chi s'è levato allora da
tavola: — Per la scala coperta. — Sta bene, rispose il sergente, con
un certo risolino che voleva dire: — Se n'accorgeranno a suo tempo; —
e infilò un androne oscuro, facendoci cenno di tenergli dietro.
*
* *
Salimmo una prima scala di pietra, col passo allegro di chi va su a
un terzo piano, a fare una visita galante. — Arriveremo in cima senza
avvedercene, dicevamo. — Ma quando a quella prima scala succedette
la seconda, e a questa la terza, e alla terza la quarta, di cento
scalini ciascuna, allora si cominciò a tirare un poco indietro le corna
dell'orgoglio, _come face la lumacia_. — O dio, si disse, nessuno
ci fa fretta, possiamo salire con comodo: intanto si discorre. — In
quel momento appunto ci si presentava davanti una scala lunghissima,
di più di cento e cinquanta scalini, grigi, rigidi, affilati, che
pareva dicessero: — Ci assaggerete. — Si spronò le scarpe, e su, di
buon animo. Le barzellette ci aiutavano. Ci divertivamo a inventare
dei supplizi atroci per certi critici, amici nostri; uno dei quali fu
condannato a guadagnarsi la vita facendo da cameriere in un albergo
immaginario che aveva la cucina nel forte di Carlo Alberto, e le
sale da mangiare sulla vetta, affollate d'avventori impazienti. Ma la
conversazione a getto continuo durò ben poco. Le scale sono uggiose,
sempre eguali, rischiarate scarsamente, a intervalli, dalle feritoie
altissime e strettissime; scale di convento o di carcere, per le
quali uno s'aspetta ogni momento di incontrare dei frati stecchiti,
o dei prigionieri di Stato in catene. Passando accanto alle feritoie,
vedevamo di sfuggita il forte sottoposto, altre feritoie, altri muri
grigi, dei cortili tristi, e di là i monti vicinissimi, neri di pini,
che coprivano il cielo. Qualche gocciola birbona, che cominciava a
filarci giù dalle tempie, ci preannunziava una camiciata memoranda.
Il Giacosa, per distrarsi, prese a contar gli scalini; ma dopo averne
contati meno di trecento, sconsolato dal pensiero che ne rimanevano
ancora più di tremila, si mise a cercare un altro divertimento. —
Andiamo, andiamo, ci dicevamo a vicenda, tutto ha una fine, su questa
terra. — E giusto allora, a uno svolto, ci si allungava davanti
un'altra così formidabile scala erta e sinistra, che ci guardammo
l'un l'altro con quella particolare espressione del viso, che si
potrebbe chiamare: il sorriso del terrore. Ma il sergente che ci
andava dinanzi snello, salendo gli scalini a due, a tre alla volta,
come una creatura indipendente dalla legge di gravità, asciutto in
viso che pareva arrivato allora con la funicolare, ci tirava su per
il gancio dell'amor proprio. Certi tratti di scala eran più chiari,
e ci si saliva con piacere; altri, oscuri come gallerie di strada
ferrata, pareva che entrassero nelle viscere della montagna, e ci
obbligavano a tastare il muro con le mani. L'aspetto singolare del
luogo ci attirava: la luce fioca, il colore delle pareti e delle vòlte,
la solitudine, la tristezza, mi richiamavano alla mente l'Escuriale.
A ogni pianerottolo, soffermandoci a pigliar respiro, vedevamo da una
parte una scala interminabile che ci si sprofondava sotto i piedi,
perdendosi nel buio, e dalla parte opposta un'altra scala senza fine
di cui la vòlta nascondeva la sommità, alla quale pareva che non
si potesse arrivar che strisciando. E sali, e sali. Agli scalini
rettangolari succedono gli scalini inclinati, alle branche a scala, le
branche piane, poi ricominciano gli scalini, poi tornano da capo gli
anditi lisci che salgono dolcemente, con gli scalini appena segnati da
liste di pietre. In uno di questi tratti ci soffermammo, assaliti da un
orrendo sospetto. — Contano nei quattromila, domandammo al sergente,
questi scalini senza rilievo? — Oh no, signori! — rispose con uno
spietato sorriso il bravo giovanotto. — Ma allora non li facciamo! —
noi gridammo. — Siamo truffati! Non eran nei patti questi altri! — Ma
un'umile rassegnazione succedette subito a quell'impeto vano di sdegno
e ci rimettemmo la inesorabile scala tra i piedi. Trasudavamo come due
girasoli e soffiavamo come due mantici. Dalle feritoie ci venivano
nelle costole dei soffi d'aria gelata, che ci facevan correre dei
brividi maledetti sotto la pelle. Di tanto in tanto ci sentivamo sonar
sotto i piedi il tavolato d'un ponte levatoio, messo là per tagliar
la via agli assalitori nel caso di una difesa disperata all'interno.
Sul nostro capo, lungo la vòlta, correva il filo del telefono che
trasmette gli ordini del comandante ai presidii dei forti superiori. A
destra e a sinistra, c'eran degli enormi anelli di ferro, confitti nei
muri giganteschi, per farci passar le corde con le quali si tirano su
i cannoni, anche i più grossi, rapidamente. Ma noi non badavamo gran
fatto a tutto questo, occupati come eravamo a regolare sapientemente
la nostra non soave respirazione. Avevamo una palla da cannone da
dodici attaccata ai piedi, e le ginocchia ci ballavano sotto, con dei
movimenti curiosissimi da cerniera di schiaccianoci, nei quali non
aveva la ben che minima parte la nostra facoltà volitiva. In molti
punti la scala era disfatta per lunghi tratti e il suolo tutto ingombro
di calcinacci e di sassi, e ripido da doverci posare i piedi ben pari,
per non fare uno sdrucciolone che ci avrebbe levato la penna di mano
per un trimestre. Qua e là pareva che la scala s'impietosisse, gli
scalini si schiacciavano, si saliva per qualche minuto cristianamente;
ma poi, a una giravolta, ricominciava una scalinata da patibolo,
che ci rompeva le articolazioni delle cosce. Ci eran delle branche
di scala che sarebbero arrivate in linea retta dal pian terreno ai
tetti di uno dei più alti casoni di Napoli, e delle branche corte,
ma disagevoli in compenso, rotte, buie, maligne, che riuscivan più
lunghe delle altre. E com'era tutto ingegnosamente combinato per
far dell'ascensione un supplizio! Avremmo voluto riposarci un poco,
di tempo in tempo; ma le feritoie eran così fitte, che in qualunque
punto ci soffermassimo, subito ci veniva addosso uno spiffero, una
frecciata di vento autunnale, che ci mormorava all'orecchio: Che cosa
desidera? Una flussione ai denti? Un reuma alle reni? Una polmonite?
Un accidente? e ci spingeva su, come un aguzzino. E noi su, e avanti,
stronfiando, con le gambe di piombo, con cento rivoletti deliziosi che
ci s'incrociavano sulla schiena e sul petto, e con la testa ciondoloni,
come dei malati d'amore. Mi ripassava pel capo quel brutto sogno del
padre Dombey nel celebre romanzo del Dickens, quando sale le scale di
casa sua, per ore e per ore, e si trova sempre nel medesimo punto, e
una certa acqua forte, del Goya, se non sbaglio, dov'è rappresentato un
giovanetto, un puntino nero, che sale su per una montagna prodigiosa,
in vetta alla quale non arriverà che invecchiato. Che scala con l'effe,
corpaccio d'un cane! bisognava ripetere a ogni gomito. — L'unica
consolazione, diceva quel capo ameno del sergente, è di pensar che è
sicura. — Salivamo adagio adagio, tacendo per lunghi tratti, con tutte
le apparenze d'una profonda venerazione per il luogo, come se salissimo
per le scale d'una reggia, in cima alla quale ci aspettasse un monarca
d'Oriente, col nostro destino nel pugno. Per un pezzo c'eravamo
confortati con dei versi, e bastandoci ancora la lena, avevamo
cominciato a dire degli esametri; ma poi via via che s'accorciava il
respiro, eravamo venuti stringendo i metri, fino a non recitar più che
il famoso sonetto francese
Frêle,
Belle,
Elle
Dort!
e infine ci parvero troppo lunghi anche questi. Gli stessi _calembours_
cadevano a terra spossati appena sfuggiti dalla bocca. Per le feritoie
vedevamo giù dei pezzetti verdi di valle, dei tratti bianchi di strada
su cui si movevano delle figure umane minuscole; e a pochi metri da
noi, per aria, delle fortunate secchie di muratori, che andavano e
venivano in tre quarti d'ora dalla sommità della fortezza al fondo
della valle, sospese a due fili di ferro, mossi da un congegno a
pulegge. A quando a quando, sentivamo parlare degli operai genovesi e
lombardi, che lavoravano di fuori, invisibili a noi. Due o tre volte,
ci raggiunsero per le scale e ci passarono accanto dei soldati che
portavan dei sacchi e dei cesti, e li seguitammo fin che sparvero in
alto, con uno sguardo pieno d'invidia per la loro leggerezza ventenne.
Poi tutto ricadeva nel silenzio, e alle scale succedevano le scale
vuote, mute, tetre, interminate. Il sergente, per alleggerirci il
supplizio, ci raccontava la storia d'un asino maraviglioso, morto da
poco, cieco, poveretto, il quale faceva più volte al giorno quella
salita, portando provvigioni ai forti alti, di dove ridiscendeva
per quelle medesime scale, sempre solo, senza romper nulla, e senza
sbagliar mai il cammino. Il racconto era commovente; ma noi invidiavamo
troppo quell'asino. E continuavamo a salire, ansanti e sgocciolanti,
raffigurandoci lo spettacolo di quella strada segreta nei momenti
d'una difesa suprema, colorata di fuoco dalle torce a vento, fracassata
dalle bombe, scossa dagli scoppi dei magazzini, intronata dagli urli
delle mischie, e corsa da rigagnoli caldi di sangue, cadenti giù nelle
tenebre, di scalino in scalino, a intepidir le guance dei moribondi....
Ma anche l'immaginazione sfiatava. Per riposarci qualche momento, senza
sfigurare in faccia al sergente, ci soffermavamo come per ammirare la
valle. Che bellezza! O meglio, quante bellezze! Avevamo una grande
passione per il paesaggio. Ma un suo sorriso rapidissimo ci mise un
amaro sospetto, che ci impedì anche quei brevi riposi. — Signori!
esclamò il sergente a un certo punto, non ce n'è più che ottocento! —
Poh! rispose il Giacosa, è una miseria. — È niente per noi, soggiunsi,
con un anelito. — Ma poi scoppiammo in esclamazioni, in imprecazioni
violente, tirando giù tutti i personaggi del Calendario, passandoci
intorno al collo il fazzoletto inzuppato, furibondi contro Carlo
Emanuele III e tutti i suoi ingegneri. Espressi però al Giacosa la
mia meraviglia di vederlo uscir dai gangheri anche lui, appassionato
alpinista. — Ma che storie! — rispose, — chi sale, sagra; ho sempre
visto così. — Oramai le piante dei piedi s'inchiodavano nella pietra,
le gambe ci rientravano in corpo, e le braccia ci spenzolavano come
due cenci: chi ci avesse visti dal basso, ci avrebbe presi per due
malati di spina che si trascinassero ad un santuario di montagna a
domandare la grazia. L'aria soffiava sempre più viva, e portava delle
buone fragranze di piante resinose; il paese che si vedeva dalle
feritoie, doveva essere stupendo; ma noi non badavamo più a nulla.
Eravamo pervenuti a quel periodo stupido della fatica, nel quale, anche
a sentirsi mettere sulle spalle tutto il vocabolario della Crusca, non
si avrebbe più fiato in corpo da protestare. E andavamo su, per forza
d'inerzia, col mento sul petto, con la lentezza funebre degli incappati
di Dante, quando il sergente, che era d'un lungo tratto più avanti
di noi, ci gridò: — Ancora un quarto d'ora. — Io capii tre quarti, e
voltandomi verso il Giacosa che era molto più in giù, gli domandai con
voce lamentevole: — Ha detto tre quarti? — E il Giacosa mi rispose con
voce tonante:
_Uno_ ei gridò, e d'un angelo
Mi parve la sua voce!
Ricominciammo a salire, rincorati, a salire.... a salire.... Ma
caspita! Era un quarto d'ora ardito, o gonfio, come dicono i toscani.
Non si finiva più. Era troppo oramai. Era un prodigio quella scala. Si
sarebbe saliti per tutta la vita, dunque. E appunto mentre si diceva
questo, una nuova branca infinita ci si drizzava davanti, di centinaia
di scalini, soffocata da una vòlta bassa e lugubre che s'immergeva
in una oscurità lontana di spelonca.... Abbiamo da continuare, ci
domandammo con voce fioca, seguitando a salire, dobbiamo crepare
onoratamente per via, o affrontar l'infamia di una seduta? — Ci siamo,
finalmente! — gridò in quel momento il nostro duca, da una porta
altissima, segnata da una riga luminosa. E allora lo raggiungemmo in
pochi minuti, ed uscimmo all'aria aperta, sopra uno spianato battuto
dal sole, in faccia alle montagne; e alzando gli occhi per cercar la
cima del forte, ci vedemmo dinanzi un'altra serie sterminata di scale,
che si perdevano in mezzo alle rocce.
*
* *
Per qualche momento tutto quel bianco delle pietre battute dal sole
ci levò il lume degli occhi. Poi ripigliammo la salita per la scala
chiamata _reale_, costrutta sopra la vòlta della strada coperta;
una bella scala di pietra da taglio, per la quale salivano i re di
Sardegna, andando a visitare i forti della cima. Neanche quella salita
era dolce; ma per la varietà degli spettacoli, piacevolissima. Si
passò in mezzo a un gruppo di case, simile a un villaggio, con la sua
chiesetta imbiancata, per vicoli tortuosi fiancheggiati d'alti muri,
per anditi umidi e bui, per piazzette allegre, piene di luce, sempre
salendo; e poi si attraversò un luogo stranissimo, cento volte più
strano e più bello delle più bizzarre immaginazioni dei romanzieri
medievali. Da un passaggio oscuro, aperto dentro a una roccia isolata,
si riesce sopra un ponte levatoio, da cui si vedono precipitare a
destra e a sinistra, sotto gli archi di due _capponiere_ aeree, i
fianchi ripidissimi del monte giù fino a una profondità dove non arriva
lo sguardo; e passato il ponte, s'entra in un altro passaggio oscuro,
scavato in un'altra roccia isolata e murata come un castello, dalla
quale si sbocca sopra un altro ponte levatoio, disteso come il primo
tra due abissi, in mezzo ad altre due _capponiere_ sospese nel vuoto;
e poi da capo un'altra roccia, e poi di nuovo un altro ponte: tre
bicocche solitarie di tre feudatari fratelli, alleati, ma diffidenti.
Del rimanente non si raccapezza nulla. I magazzini, le casematte, le
batterie, le scale oblique, i passaggi, gli sbocchi, presentano una
tale apparenza di confusione, che neanche un ingegnere militare, in
una rapida visita, credo ne caverebbe molto costrutto. Si sale, si
sale sempre: questo lo ricordo assai bene. Per le porte semiaperte
si vedono i magazzini pieni riboccanti di granate cilindriche, di
granate sferiche, di scatole di mitraglia, di _shrapnel_, di bombe,
che han l'aria d'aspettare, annoiandosi, il giorno di far del chiasso.
Qua e là, dai loro stanzini aperti verso l'interno, della forma di
tempietti, i cannoni enormi allungano il loro collo orribile fuori
delle finestrelle quadrate, come guardando curiosamente nella valle,
se c'è dei mal capitati da rimandare a casa. Dei robusti soldati
d'artiglieria andavano e venivano tra le batterie e i magazzini,
sbrigando le faccende domestiche di quella strana casa che riceve così
male i suoi visitatori quando si presentano in troppi; scopavano le
scalette, tingevano in nero delle vecchie granate, ammucchiavano dei
ciottoli da tiro, battevan la mano sui cannoni, passando; parevano
affezionati alla loro fortezza, come i marinai al naviglio, e contenti
di lavorar lassù, in quell'alta solitudine, nella freschezza odorosa
del vento. Passo passo, eravamo saliti dal forte di San Carlo al forte
dei Tredenti, dai Tredenti alla ridotta di Santa Barbara, da questa a
quella di Sant'Antonio, e poi al forte di Sant'Elmo; e finalmente, dopo
un'altra buona pettata, toccammo il Forte delle valli, il quale non ha
più sul capo che il cielo.
*
* *
E là fummo ricompensati ad usura dei nostri.... non nobili sudori.
La valle profonda che vaneggia sotto, come una voragine, e per cui lo
sguardo va diritto, e come imprigionato fra le vette, fino alla pianura
lontanissima, dove si vedono le macchie bianchicce delle città bagnate
dal Po; quelle montagne superbe che sorgon di faccia, l'Albergian
fra le quali, vestite di foltissimi boschi neri, coronate di nuvole
bianche, e come squarciate da valloni scoscesi e selvaggi, per cui
dirocciano le acque simili a rigagnoli d'argento fuso; e più lontano
gli altri monti altissimi e brulli, sfumati di mille tinte cinerine; e
tutto in giro, alle falde dei monti, e pei colli, quegli innumerevoli
piccoli scacchi delle coltivazioni, tutti eguali di grandezza, ma
svariati di cento colori giallastri, verdi, rossicci, dorati, che
paion parati di velluto e di seta distesi per una festa misteriosa
da un popolo sconosciuto; ecco uno spettacolo grande, severo, strano,
triste e bellissimo, che leva l'animo in alto come un inno di guerra
accompagnato da una musica sacra. Tutta quella varietà di grandi linee
ripide, e come violentemente spezzate, quegli angoli enormi, quelle
verticali temerarie, quei contorni grandiosamente disordinati come
d'un ammasso formidabile di macigni precipitanti, dànno l'immagine
d'un linguaggio muto che dica cose solenni e tremende, le quali
si sentano confusamente, senza comprenderle, ma che, comprese, ci
farebbero tremare le ossa, come la rivelazione d'un mistero sovrumano.
Giù, vicino alla città, si vedon sopra un'altura le rovine sparse
del forte di Mutino, eretto da Luigi XIV. Dalla parte opposta, alle
spalle della fortezza, al livello quasi del forte delle valli, di là
da un altissimo ponte levatoio, si stende con un dolce declivio verso
Fenestrelle la vasta prateria che il Catinat rese famosa, svernandovi
con diecimila soldati nel 1692; una bella distesa di verzura, che
par fatta per la parata d'un esercito, e che nel mese di giugno si
smalta tutta di fiori meravigliosi, che le dan l'aspetto d'un immenso
tappeto turco, spiegato per un ballo di regine. Dalle due parti della
fortezza, i fianchi del monte van giù quasi a picco, irti di pini e
di abeti, che s'arrampicano su fino ai piedi delle cortine, come per
dar la scalata. Si vedono i villaggi in fondo alla valle grandi come
la palma della mano, e popolati di formiche; e il Chisone e la strada,
come un nastrino argentato e un nastrino bianco, che serpeggiano un
tratto l'uno accanto all'altro, e poi si nascondono fra i monti. Il
grande silenzio del luogo era appena turbato dal brontolìo fioco del
torrente, quasi vergognoso della sua misera vena d'acqua in mezzo a
quelle maestose immagini di grandezza e di forza. Le montagne erano già
velate qua e là di vaste ombre; dei grandi boschi s'andavano immergendo
in una oscurità paurosa; altri, dorati dal sole, trionfavano; e mentre
pei villaggi delle gole faceva notte, delle case romite, a grandi
altezze, brillavano come accese. Il giorno moriva con un sorriso dolce
e malinconico, e in cima a un bel colle a ponente, si disegnava come un
piccolo tratto nero sul cielo, la più bella, la più memoranda, la più
amata cosa di quante ne abbracciavamo con lo sguardo: il monumento ai
morti dell'Assietta.
*
* *
Ma che rimbombi dell'altro mondo debbono avere là dentro le cannonate!
Ci deve parere il giorno del giudizio, soltanto quando salutano
gentilmente l'anniversario della Regina Margherita. E ne ha sentito
del baccano, in vita sua, quella piccola valle, di cui tanti italiani
non conoscono neppure il nome. Il mio amico ed io ce ne siamo fatti
un'idea appuntando il nostro vecchio cannocchiale di sognatori nel
vano d'una cannoniera, la quale tagliava proprio nel fondo della valle
un piccolo quadrato verde, attraversato da un pezzetto di strada e da
pochi palmi di torrente. Abbiam visto passar prima una moltitudine
confusa, con grandi trombe curvate in cerchio, e con elmi di bronzo
ornati di lunghe penne nere, armata di lance corte, di daghe tozze,
di grossi archi, di larghi coltelli e di fionde, e nel mezzo un'asta
altissima, sormontata da un'aquila romana; e ci parve l'esercito di
re Cozio, alleato dell'Impero, che si spingesse fin là ai confini
del suo Stato, _finis terrae_, ad esplorare i monti minacciati dai
Galli. E poi vedemmo scendere dai monti un'altra fiumana d'armati,
più ferrati e più gravi, balestrieri d'alta statura, cavalieri dalle
barbute lucenti, scudieri dai lunghi giachi, fanti carichi di frecce
a quattro ali e coperti di scudi di cuoio; e dalle grida acutissime
che arrivavano fino a noi, giudicammo che fosse l'esercito del Delfino
di Vienna che irrompeva contro Umberto il Beato di Savoia, seminando
sui suoi passi l'incendio e la morte. E a questa tenne dietro un'altra
moltitudine in tutto diversa: i seguaci di Valdo cacciati di Francia,
un affollarsi di donne, di vecchi, di giovani, di bimbi, carichi di
robe, seguiti da carrette sfasciate e da giumenti sfiniti, una fuga
compassionevole di miserie, d'angosce e di terrori, che si sparse
e si perdè in breve tempo su per le rocce dei monti e nell'oscurità
dei burroni. E poco dopo, un alto frastuono di tamburi e di trombe,
un giovane re baldanzoso, dal gran cappello piumato, caracollante
dinanzi a una folla di gentiluomini, una selva di lance imbandierate,
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