Alle porte d'Italia - 17

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Perchè dovevano veder tutto di lassù, come sulla palma della mano:
le corsie degli accampamenti, l'interno dei padiglioni, i giochi e le
risse dei bivacchi, e Carlo Emanuele che appuntava i cannoni come un
capitano d'artiglieria, e Antonio d'Olivares che discuteva con lui,
per distoglierlo, come fece, dal tentare l'assalto, tagliando l'aria
tutti e due con dei gesti vigorosi, corrispondenti a de' sonori frasoni
spagnuoli, intercalati di _Por Dios_ e di _Por vida mia_ e di _Mal rayo
me parta,_ che facevan rattenere il fiato allo Stato maggiore.
*
* *
Nel mezzo dello spianato del castello c'è una piccola cisterna
rotonda, quasi tutta piena di sassi e di calcinacci, fra cui son
mescolate molte ossa umane. Si dice, e non c'è ragione di non
crederlo, che siano ossa di cavorresi trucidati dalle soldatesche
del Catinat nel 1690. È piantata là vicino, in memoria di quei morti,
una grande croce di legno, che si vede anche dal basso. Quella fu la
più miseranda giornata della storia di Cavour, senza dubbio; degno
principio di quella orribile guerra della lega, in cui i ministri
davan degli ordini da assassini, ed era imposto ai generali l'ufficio
di incendiarli, e ai soldati quello di carnefici e di ladroni. La
tradizione di quel maledetto macello è ancora vivissima tra il popolo
della città e della campagna. Era l'agosto del 1690. Scoppiata appena
la guerra, il generale Catinat mosse l'esercito da Pinerolo verso
Cavour. Se il bravo marchese di Parella, che stava con quattromila
soldati, fra i quali molti valdesi, nelle vicinanze di Luserna,
fosse stato avvisato poche ore prima di quella mossa, avrebbe fatto
ancora in tempo a sopraggiungere; e allora si sarebbe visto un bel
ballo. Sventuratamente, ricevette la notizia troppo tardi. La città
era aperta, il castello diroccato da molti anni; il presidio non si
componeva che d'una compagnia del reggimento di Monferrato e di pochi
drappelli di milizie valdesi. Un'avanguardia comandata dal marchese
di Plessis Belloire venne accolta a fucilate da alcuni contadini, che
furon subito respinti nell'abitato. Il Catinat mandò a intimare la
resa. Il presidio rifiutò. Una colonna francese si slanciò all'assalto
con quattro pezzi d'artiglieria. La difesa fu valorosa, ma inutile. Le
trincee furono superate, tutto l'esercito irruppe. E allora i soldati,
irritati dalle lunghe marcie, infiammati dal sole, e inaspriti dalla
resistenza inattesa, saccheggiarono, incendiarono, uccisero ufficiali
e soldati, donne, vecchi, contadini, bambini, per le strade, nelle
case, nelle chiese, nelle cantine, a calciate di fucili e a colpi di
partigiana e di baionetta, sordi a ogni preghiera e ad ogni pianto,
senza discernimento, senza tregua, senza misericordia. Una parte degli
abitanti e del presidio s'era rifugiata in cima alla rocca: gl'invasori
vi s'arrampicarono come un branco di tigri affamate, e trafissero
e sgozzarono quanti c'erano. Solo ottanta persone, fra le quali il
governatore, alcuni ufficiali, e il resto donne e ragazzi, riuscirono
a salvar la vita rifugiandosi in una casa di Cavour, nella quale era
entrato il Catinat a prendere un rinfresco da uno speziale, di cui
s'è serbato il nome: Marentino. La città presentò per varii giorni
uno spettacolo da agghiacciare le vene e da far rizzare i capelli: le
piazze ingombre degli avanzi del sacco, quasi tutte le case bruciate,
mucchi di cadaveri a ogni passo, rigagnoli di sangue giù per le scale
e per le strade, i muri chiazzati di sangue, i cortili allagati di
sangue, e in quella orribile solitudine grida di moribondi e risate
di pazzi. Nelle memorie del Catinat si danno più di seicento persone
morte, tra uomini, donne e bambini; il marchese di Quincy parla
di ottocento soldati e di trecento cittadini macellati; un priore,
testimonio e narratore del fatto, afferma che di cinquemila abitanti,
quattromila furono uccisi. E questo si fece nel secolo di Luigi XIV,
sotto Luigi XIV, da soldati del tempo del Pascal, del Descartes e
del Corneille, nel paese dov'era passato da mezzo secolo il Galileo.
Eppure tutto è dimenticato e ignorato.... a quattro miglia di distanza
da Cavour. Solo le contadine dei dintorni salgono una volta all'anno,
il giorno dei morti, a fare il giro della cisterna, in lunga fila,
recitando il rosario per le “anime della rocca.„ E sarebbe un ufficio
pietoso e onorevole, se ci andassero soltanto per i morti. Ma ci vanno
anche per raccomandare “alle anime„ il seme dei bachi da seta.
*
* *
Mentre parlavamo di quella orrenda giornata, vedevamo sotto la piccola
città fresca e allegra, una distesa di tetti d'un bel grigio chiaro,
con qualche macchia rossa e verde di muri di case coperti da un tendone
di pannocchie di gran turco o da una cortina di pampini. Vedevamo la
piazza del mercato e la strada maestra nere di gente, e ci arrivavano
all'orecchio, con una sonorità straordinaria, al di sopra del mormorìo
sordo e continuo della folla, grida stentoree di venditori, muggiti di
bovi, canti di galline, rumori di carri, i rintocchi argentini d'una
campana accompagnati dai colpi d'un martello sopra un'incudine, dei
grugniti e dei latrati lontani, una voce acutissima che urlava: Le
mutande a una lira! a una lira! a una lira! — e un vocione di basso
che gridava: L'America! — ossia la cuccagna, la roba per niente; e
di tratto in tratto, a intervalli uguali, un altissimo e lunghissimo
raglio di somaro. Fuori della folla, la pace solita dei piccoli
paesi: delle stradicciuole solitarie con dei bimbi che giocavan
lungo i rigagnoli, un crocchio di signori davanti a una farmacia, dei
terrazzini interni di case dove delle donne stendevan la biancheria ad
asciugare, un prete in maniche di camicia dentro a un orto; si vedeva
ogni cosa da un capo all'altro dell'abitato, e intorno intorno, il
collegio, la piazza d'armi, il camposanto, il passeggio: tutto quello
che basta da per tutto a qualche migliaio di persone per ripararsi dal
freddo, fare gli affari propri, odiarsi e morire. Poveri accampamenti
umani, poveri mucchi di baracche! Che misera cosa son mai, visti
dall'alto, con quel piccolo campo chiuso da quattro muri, dove tutto va
a finire!
*
* *
Alzati gli occhi dalle case, si vede tutto il cerchio delle alpi
dal Monte Viso al Monte Rosa, e tutta la pianura piemontese, così
vasta ed aperta, che quando è un po' velata di nebbia, come quella
mattina, vien fatto di cercarvi all'orizzonte le vele dei bastimenti
e gli spennacchi di fumo dei piroscafi; e par di trovarsi sulla
cima d'un'isola rocciosa, dentro a una grande baia, che si stenda
da Saluzzo a Cumiana, dai colli dove Silvio Pellico scrisse i suoi
più dolci versi, ai campi dove Vittorio Alfieri domò i suoi più
focosi cavalli. Ma a me piaceva di più guardar lì sotto quella bella
campagna, così uniforme e così varia insieme, tagliata in quadrati
verdi e lisci, come panni tesi di scrivanie, in trapezi di terreno
lavorato, d'un colore delicatissimo di caffè e latte, rigati di file
grigie di salici; in losanghe d'un rosso chiaro, spallierate di siepi
nere, contornati di filari d'alberelle d'un giallo cromo; in triangoli
bianchi di calce, terminati a un vertice dal vermiglio acceso della
vite d'un capanno. E al veder tutta quella terra così accuratamente
misurata, spartita e difesa, pensavo di quante riflessioni e di quanti
conti era argomento ciascuna di quelle piccole figure geometriche,
quanta carta bollata avevano fatto imbrattare, quante chiacchiere
di avvocati e di procuratori avevan provocato quelle redole e quei
rigagnoli, e quanti viaggi tristi alla città, e aspettazioni eterne
nelle anticamere dei tribunali, e inimicizie di famiglia, e giuramenti
di vendetta, e crepacuori, e partenze disperate per paesi lontani. E
allora mi parve che tutti quei poligoni coloriti, così tranquilli e
sorridenti poco avanti, si premessero coi lati, e cercassero di ferirsi
con gli angoli acuti, e di spaccarsi a vicenda, e di sovrapporsi gli
uni agli altri, e di travolgersi, come grandi zattere variopinte di
due flotte nemiche e confuse. E pensai ch'era così infatti, e che la
battaglia durava da secoli, e che sarebbe forse finita un giorno con
qualche gran sottosopra, in mezzo agli urli d'innumerevoli naufraghi;
per ricominciar poi più accanita e durare più lungo tempo, appena si
fossero riformati gli equipaggi e riparate le flotte.
*
* *
Il buon agronomo, intanto, seduto in disparte sopra un rudero, con
le braccia incrociate, e gli occhi rivolti alla campagna, pareva
immerso in una profonda meditazione; e il professore ne approfittava
per svolgermi intorno una specie di panorama storico della pianura
di Pinerolo. Io non dovevo mica lasciarmi ingannare da tutti quei
villaggi che si vedevan di là, e che presentavano un aspetto così
gaio, in mezzo al loro bel verde. Avevan l'aria di buoni proprietari
di campagna e di pastori tranquilli; ma eran tutti vecchi soldati
travestiti, coperti di cicatrici e pieni di ricordi terribili. Quel
grosso paese che si vedeva là a poche miglia, con quel chiesone
rosso, che gli dava un'apparenza di beata pace, Vigone, aveva visto
scacciare l'esercito di Carlo Emanuele I dagli ugonotti multicolori
del generale Lesdiguières, e subìto uno dei più orrendi saccheggi del
secolo decimosesto. Ma chi poteva contare i sacchi e le fiammate di
quell'anima persa del Lesdiguières? Era stato l'Attila della pianura
pinerolese, quel cane di vecchio arciere e di ex leguleio. Non c'era
uno di quei poveri paeselli che non fosse stato bollato a fuoco da
lui. Così, rabbioso di non aver potuto strappar Carlo Emanuele da
Cavour, aveva messo a ruba e a sangue Buriasco, un bel villaggio che
io vedevo a destra di Pinerolo, come una piccola macchia rossiccia.
È vero che ci son pure molti tristi ricordi di famiglia da quelle
parti. Di qua da Buriasco, c'è Macello, dove passava il confine tra
Francia e Piemonte, quando Pinerolo era dei francesi: lì, per esempio,
intorno al castello antico, si ammazzarono fraternamente i soldati di
Giacomo d'Acaja e i soldati di Barnabò Visconti. Più in qua di Macello,
c'è Garzigliana, dove rimane un torrione del castello di Montebruno,
vicino al quale toccò una sconfitta dagli Astigiani quel disgraziato
Tommaso II di Savoia, che fu liberato di prigione dai suoi nemici per
esser cacciato in carcere dai propri sudditi. A poche miglia di là,
sulla destra di Vigone, si vedono i tetti di Pancalieri, un grosso
borgo, che Carlo II di Savoia abbandonò al furore delle sue milizie,
per punire Claudio di Racconigi, signor del luogo, dopo aver fatto
impiccare tutti i soldati del marchese di Saluzzo, che l'avevano
aiutato a invadere il Piemonte. Accanto a Pancalieri, Polonghera,
presa d'assalto e malmenata da Ludovico d'Acaja, per dare un ricordo
salutare al feudatario Riccardo Provana, che aveva amoreggiato col
marchese di Saluzzo e coi Visconti. Abbiamo fatto un bel lavoro anche
noi altri in casa nostra, come si vede. Lì appunto, vicinissimo alla
rocca di Cavour, biancheggiano le case di Villafranca, una delle
ventisette Villafranche dei due emisferi, che può dire d'averne visto
una grigia nei tempi andati: il comandante della cavalleria di Leone
X, Prospero Colonna, il quale, dopo essersi vantato d'acchiappare
_come uccelli in gabbia_ quanti francesi fossero calati dalle Alpi,
si lasciò sorprendere dagli uccelli, mentre era a tavola in cimberli,
e far prigioniero con tutti i suoi cacciatori. E pare che ci sia
stato un influsso maligno del bicchiere in questo tratto di paese.
Laggiù sulla via di Pinerolo si vede il campanile di Osasco: c'era di
presidio nel 1705 una compagnia del reggimento di Monferrato, comandata
da un capitano; avevan molto buon vino dei luoghi; presero una necca
madornale; una necca così fatta che, essendo sopraggiunti i francesi,
e avendo intimato la resa con minaccia di ferro e fuoco, nessuno si
trovò in grado nè di resistere nè di negoziare, e ne sarebbe seguìto
l'incendio e la strage, se non trattava coi nemici una governante
savoiarda dei conti di Cacherano, alla quale il paese dovè la sua
salvezza, e il presidio una capitolazione onorata. Insomma, non c'è
che miserie da ricordare da tutta quella parte. Per confortarsi un
poco, bisogna girare a sinistra di Pinerolo: a Bricherasio, dove c'è
l'assedio vittorioso di Carlo Emanuele I; a Bibiana, sulla cima del
colle di San Bernardo, dove Vittorio Amedeo fece il voto della basilica
di Superga, coronato un mese dopo con la splendida vittoria di Torino;
a Luserna, dove il marchese di Parella investì, ruppe, fugò, sterminò
i tremila soldati del Feuquières, nella guerra del 1690. Ma.... ohimè!
da Luserna in avanti, ricominciano le dolenti note. Bagnolo, preso,
ripreso e rovinato da francesi, da savoiardi e da spagnuoli. Barge,
dove il Denina insegnò la grammatichetta, tartassato pure a venti
riprese da imperiali e da francesi nelle guerre del decimosesto secolo.
E poi peggio, Revello, e poi anche peggio, Staffarda, e Moretta,
dove si raccolse tumultuosamente l'esercito di Vittorio Amedeo, dopo
quella tremenda disfatta, protetto ancora nella fuga dal coraggio
tranquillo del principe Eugenio. Ma non c'è dunque altre memorie che di
batoste e d'ingiurie straniere in questo disgraziato paese? Che roba è
questa, signor professore?... Un momento. Eravamo rimasti a Moretta. A
Moretta passa la Varaita. Non c'è legato qualche buon ricordo a questa
Varaita?... Ma sì, corpo d'un cannone da costa. Una grande giornata,
una sfolgorante vittoria, l'esercito di Luigi XIII, accorso in aiuto
del duca di Nevers, assalito, sfondato, sbaragliato, ricacciato come
una mandra atterrita al di là delle Alpi da Carlo Emanuele I, nell'anno
di grazia milleseicento e vent'otto. Dalla parte di Dio! Ecco quasi
accomodate le partite. Ero lì lì per buttarmi via, in parola d'onore.
— Che gliene pare? — mi disse forbendo le frasi il professore. — È
davvero una specola istorica la rocca di Cavour. Io ci vengo una volta
ogni anno, tutto solo, e mi assido su questi rottami a rimirar la
pianura, e a riandar meco stesso le mie letture predilette; e facendo
con la fantasia armeggiare gli eserciti e tuonare le bastite, rivivo,
per dir così, nel passato, _e in me stesso m'esalto_.... come dice il
divino Alighieri. —
*
* *
— Ebbene, cosa ne dice? — mi domandò il faccione dell'agronomo,
avvicinandosi. — Son buoni terreni, glielo assicuro io. Terreni da
frumento e da foraggi, da duemila a quattromila franchi l'ettaro.
L'inconveniente è che mancano i buoni concimi. Cosa vuole? Fabbriche
d'artificiali non ce n'è, lo stallatico non lo sanno conservare, e così
bisogna farlo venir quasi tutto di lontano, che costa un occhio, per
via dei trasporti. A Pancalieri, per dirle un caso, si fanno venire
il guano da Carmagnola. Guardi là.... Campiglione e Fenile. Terre
da vigna. Ci abbiamo delle uve eccellenti da queste parti: nebiolo,
avarengo, del negretto anche, del fresia. Se si dessero un po' dattorno
a perfezionare i metodi, che non la vogliono intendere, potrebbero
fare dei vini numero uno.... E stiamo bene anche a bestiami, sa lei.
Dia un'occhiata ai nostri mercati: ottime condizioni fisiche, il bue
da ingrasso da venti a venticinque marenghi, grande esportazione di
buoi da lavoro. E poi burri, ricotte, formaggi, da leccarsi le mani,
quantunque fabbricati all'anticaccia.... siamo sempre lì. _Tome_ da
cinque franchi il _miria_, la _bontà personificata_.... Quello che
dobbiamo confessare, piuttosto, che è una vergogna, è che si sta male,
ma molto male in quanto a stalle. Per questo, non s'è all'_altezza dei
tempi_, no proprio. Degli orrori. Basta; è meglio non discorrerne....
Dove guarda? Laggiù c'è Osasio. Da quelle parti si coltiva la canapa.
Ci abbiamo una bella varietà di coltivazione, nel circondario. Per
esempio, dalle parti di Virle e di Castagnole si coltiva il _ravizzone_
e il pistacchio da terra; in altri luoghi la barbabietola; e anche un
po' di riso, lungo il Po. Ciascuna parte ha la sua specialità. Vada
a Luserna, alla Maddalena: ci trova l'estrazione di fecola di patate.
Vada invece a Bibbiana: c'è l'estrazione dell'alcool dalle rasche. Poi
c'è un po' da per tutto l'olio di noce, coi torchi, che è un'industria
che ha la sua importanza. Senza parlare della pesca, chè tutti lo
sanno: bardi e anguille nel Chisone; tinche nel Pellice, e anche dei
ghiozzi; dei lucci, dei carponi _magnifici_ nelle diramazioni del
Po; e da ogni parte trote e trote, non molte grosse, ma.... lei ne
avrà mangiato. Ci son cinquecento pescatori soltanto a Villafranca!
E poi, e i boschi, e i castagneti? Ce n'è la bagatella di settecento
ettari solamente a Virle, Pancalieri e Lombriasco.... Curioso nome,
non è vero? Lombriasco, Piossasco, Frossasco, Osasco, Subiasco....
Buriasco.... Cervignasco.... Famolasco.... Cercenasco.... Ci abbiamo
anche dei buoni minerali, di rame, d'antimonio, che so io? dei marmi,
da fare una discreta figura a una esposizione. Non c'è che dire,
insomma; è uno dei meglio circondari del Piemonte. Soltanto, ecco il
gran guaio: manca l'istruzione agraria, mancano i capitali, che vanno
tutti in quelle maledette carte dello Stato;... mancano delle buone
stazioni di monta. E poi, il peggio di tutto, l'imposta spropositata,
che mangia le piccole proprietà, e obbliga il contadino a emigrare.
Eh sì, c'è molto, ma molto da fare ancora. Bisognerebbe mettercisi
proprio tutti con le mani e coi piedi. Bisognerebbe distribuir meglio
le acque d'irrigazione, prima di tutto, chè c'è chi n'ha da sprecare
e chi non n'ha abbastanza; regolare un poco la pesca, chè tutti fanno
alto e basso; provvedere alla sicurezza campestre, che va come Dio
vuole; migliorare le case coloniche, applicare le nuove macchine,
rimboschire.... e sopra tutto, prima di tutto, come le dico, diminuire
l'imposta, che è una disperazione. Quando tutto questo sia fatto,
il circondario di Pinerolo sarà un paradiso. Vede laggiù Osasco? C'è
un magnifico stabilimento di pollicoltura: un gallo e due galline di
Concincina, quarantadue franchi, compreso l'imballaggio, e cinquanta
centesimi l'uovo. Su queste cose dovrebbe scrivere.
*
* *
Poco lontano dallo spianato del castello c'è una cascina solitaria,
con poca terra coltivata, che appartiene alla famiglia Benso. Il borgo
venne dato in feudo da Carlo Emanuele III, col titolo di marchesato,
ai Benso di Chieri, signori di Santena, i quali presero d'allora in
poi il soprannome di Cavour. Quella cascina fu proprietà del conte
Camillo, che ci fece fare intorno degli scavi, da quanto dicono, per
cercare degli oggetti antichi; e fu trovato appunto in quegli scavi,
forse, la grossa palla da cannone, del peso di venti chilogrammi, che i
ragazzi della cascina fanno correre per l'aia: un coriandolo di Carlo
Emanuele I, probabilmente. Certo il grande ministro dev'esser salito
parecchie volte lassù, quand'era anche molto lontano dal prevedere che
avrebbe fatto discendere un giorno da quelle montagne duecentomila
soldati francesi, e sconvolta l'Italia, e agitato l'Europa. E forse
meditò sopra quella cima, con lo sguardo errante per la pianura,
qualcuna di quelle grandi imprese agricole, che occupavano allora tutto
l'animo suo. La casetta è fabbricata sopra un masso di roccia, che
sporge innanzi a modo di tettoia sopra un piccolo tratto di terreno
verde, leggermente inclinato verso il piano, e sparso di garofani di
campagna e di fiori di cicoria; sul quale vengono a far merenda delle
brigate allegre dei paesi vicini. Quando vi scendemmo noi, non c'era
nessuno. Si vedevano ancora sull'erba le traccie d'una ribotta, e un
pezzetto di giornale. Mi chinai a guardare: era un terzo di colonna del
_Figaro,_ con un frammento di resoconto d'una nuova rappresentazione
dell'_Ambigu;_ un vero areolite, un frammento d'un altro mondo, che
mi fece uno strano senso in quella solitudine, tra quelle ossa di
morti e quelle memorie tragiche, attraversate così, improvvisamente,
dall'immagine degli splendori e dei piaceri dei _boulevards_. Intorno
allo spianato precipita da ogni parte la roccia. Fino lassù, forse,
fino all'orlo roccioso di quella terrazza verde, s'erano spinti nella
notte del venti di novembre i più agili soldati del Lesdiguières,
mandati ad assalire il castello di sorpresa; e saranno caduti là,
spossati, col viso dentro quell'erba, trattenendo il respiro, e
schiacciandosi contro terra, ad aspettare quei che seguivano. E questi
si arrampicavano nelle tenebre, rimpiattandosi dentro alle crepe,
strascicandosi fra i cespugli spinosi, incoraggiandosi a voce bassa:
dei furiosi che bestemmiavano, dei timidi che raccomandavan l'anima a
Dio, dei giovani audaci e tristi, che salivano col presentimento della
morte, pensando confusamente alla loro casa lontana; una lunghissima
fila flessibile, come un mostruoso rettile nero, strisciante sotto
la minaccia d'un tallone gigantesco; e andava su, il mostro, lento
e orribile, ansando per cento bocche, e aggrappandosi alle rupi con
cento artigli, e sbarrando tutti i suoi occhi verso la cima; sulla
quale un altro mostro, nero e immobile, gravido di ferro e di fuoco,
lo aspettava in silenzio, per folgorarlo nel buon momento, e seminar
la rocca delle sue ossa rotte e delle sue viscere lacerate.... Ma non
c'è dunque un palmo di terra dove non non s'abbia da dire, ripensando
al passato: — Qui si scannò, si trucidò, si bruciò, si fece l'inferno!
— In verità, dopo quattro mesi di passeggiate storiche, a furia
di sentir ripetere da tutte le parti quello eterno ritornello del
sangue, si finisce col non veder più che rosso, e non si prova più
orrore, nè pietà; ma nausea e rabbia e odio; e si vorrebbe aver una
voce miracolosa da farsi sentire a tutti gli esseri umani presenti
e passati, per urlare: — Stupidi! Imbecilli! Bestie! Siete tanto
bestie che avete fatto bene, che fate bene, che farete sempre bene ad
ammazzarvi come le bestie! — Ma si avrebbe torto. A che cosa serve?
Un'ora dopo saremmo tutti disposti a piantare la sciabola nel ventre a
chi ci desse un urtone passando. Io dissi bene quelle parole in cima
alla rocca di Cavour, ma il piccolo omicida che porto dentro anch'io
come gli altri, mi rispose con una scrollata di spalle.
*
* *
Intanto il cielo s'era coperto, la nebbia montava; si discese. La
strada era deserta come alla salita. Non trovammo che una persona,
circa a mezza china, e me ne ricorderò per un pezzo. Era una vecchia
contadina, alta di statura, magrissima, e curva; un viso austero, di
quelle vecchie straordinarie, quasi spaurevoli, che disegnò il Doré
nella Spagna. Veniva su a stento, soffermandosi ogni tanto a riprendere
fiato, e pareva che soffrisse. Che diamine andava a far lassù, tutta
sola? Quando fu a tre passi da noi, glielo domandammo. Si fermò, e ci
guardò fisso l'un dopo l'altro con due occhi grigi chiarissimi. Poi
disse in tuono severo, lentamente: — Vado a pregare; — e ci ripiantò
gli occhi in viso, come sospettando una canzonatura. Era venuta da
Bibbiana, malata com'era, strascinandosi a gran pena, e faceva quella
salita, con quella nebbia, per andare a pregare ai piedi della croce
del castello; non era venuta a Cavour con altro fine. — Ma perchè
salir fin lassù, — le domandò il professore, — mentre potreste pregare
in chiesa? — Parve che quell'osservazione la ferisse. Si rizzò sulla
vita, alzando la testa bianca, e levando la mano per aria, e disse
con una voce solenne, che ci fece stupore: — Dio è dappertutto! Dio è
in chiesa, Dio è sulla rocca, Dio ci vede sempre, Dio ci vede tutti.
Bisogna pregare per la salute dell'anima. Pregare per noi, pregare per
gli altri, per i vivi e per i morti, per tutti quanti. Non si perde
mai niente a pregare. Possiamo morire oggi, possiamo morir domani, io,
loro, tutti, da un momento all'altro, possiamo morire. Preghino anche
loro. Nessuno sa quel che l'aspetta. Dio è in chiesa e sulla rocca!
Dio è da per tutto e ci vede tutti! — E rimase ancora un momento col
braccio in alto, in atteggiamento ispirato, guardandoci con due occhi
grandi e vitrei di moribonda, con una espressione tra minacciosa e
compassionevole, ma così fissa, intensa e strana, che restammo tutti e
tre senza trovar parola, guardandoci. Poi riabbassò la testa, e ripreso
il cammino lentamente, si perdette nella nebbia che s'addensava sul
castagneto.
*
* *
La vecchia non aveva ancora toccata la punta del castello, che i miei
due amici si scalmanavano in una grande discussione, seduti con me
a una tavola della _Posta_, in una di quelle stanze tipiche degli
alberghi di borgata, che il padrone suole accordare graziosamente
alle “buone pratiche„ perchè pranzino tranquillamente lontano dal
chiasso dei beoni e dalle tanfate di rifritto: un letto matrimoniale
da una parte, due salici piangenti di carta sopra il cammino, Vittorio
Emanuele e Garibaldi sulle pareti, e la bandiera nazionale ravvoltolata
in un angolo, che aspetta la festa dello Statuto. L'argomento della
discussione era gravissimo. Il professore sosteneva la primazia del
vino di Campiglione e l'agronomo, che aveva dei terreni a Bricherasio,
negava, voleva che si riconoscesse la superiorità del vino di
Bricherasio. La questione era trattata da una parte e dall'altra con
una serietà, con un calore, con uno sfoggio di argomenti e di termini
tecnici, che non se ne può fare neanche un'idea chi non è nato nel
paese del Grignolino e del Barolo. Chi avesse visto le faccie e i
gesti senza intender le parole, avrebbe creduto che discutessero uno
dei più alti problemi di filosofia. Tutti e due, ragionando, movevano
davanti a sè la mano destra, con le punte del pollice e dell'indice
riunite, e l'altre dita distese, a modo dei predicatori; e alzavano
di tratto in tratto gli occhi al cielo, allargando le braccia, in
atto di dire: — Santissimo Iddio, perdonategli questa bestemmia! —
Infine, — disse l'agronomo, — il nostro amico giudicherà; — e chiamò
l'albergatore, vinaio illustre e consigliere comunale, per domandargli
se era in grado di fornirci gli elementi del giudizio. L'albergatore
sorrise in atto di compatimento: ci aveva dell'uno e dell'altro, di
cinque o sei anni, dinnonplussutra, come dicon le ciane fiorentine.
Eran domande da fare a un par suo? Tutto il circondario conosceva
la sua cantina. Ci servì subito. Fui eletto arbitro. Mi misero una
bottiglia di Bricherasio a destra e una di Campiglione a sinistra, e
mi fecero un cenno tutti e due, che significava: “Giusto giudicio dal
tuo labbro caggia.„ Quella solennità mi fece ridere. Ma l'agronomo
non scherzava; si ebbe anzi quasi a male del mio ridere. — No, scusi,
— mi disse, col viso serio, — la quistione è abbastanza importante
perchè... lei scrive, e se dà un giudizio... non ponderato, mi perdoni,
potrebbe anche far del danno all'esportazione. Mi faccia il favore di
provare, rifletta, e poi dia un giudizio spassionato. — Allora mi feci
serio anch'io, e cominciai a bere alternatamente un bicchiere di qui
e un bicchiere di là, sotto gli sguardi fissi e interrogativi dei due
commensali. Ma come fare a dar un giudizio? Ero incerto davvero. Dentro
di me davo sempre la palma all'ultimo. Mi trovavo come un giudice
fra due litiganti egualmente arguti e facondi, che prova un gusto
matto a sentirli, e li fa ripigliar daccapo cento volte, fingendo di
non aver capito. Eran due vini superbi, qualche cosa che abbracciava
lo stomaco, e andava giù, come dice il portinaio dell'_Assommoir_,
fino alle caviglie, accomodando per via tutti gli affari dell'anima
e del corpo. Finalmente, a un certo punto, decisi... di decidere.
Ma era troppo tardi. Gli elementi del giudizio s'eran già confusi.
I due litiganti dicevano le loro ragioni dentro parlando tutti e due
insieme, in maniera che non raccapezzavo più nulla. — Ma insomma, —
domandò l'agronomo, incrociando le braccia sulla tavola; — che cosa
scriverà? — E non ci sarebbe stato più scampo, se, per fortuna, i miei
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