Alle porte d'Italia - 11

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teneva sotto i piedi, per mezzo di Pinerolo e di Casale e con un
esercito accampato in val di Chisone. Con tutto questo, è vero, non
si giustificano pienamente nè gli ultimi duchi nè i primi; poichè,
se non altro, avrebbero potuto fare assai di più per render meno
orribili le persecuzioni a cui furono in parte costretti. Ma è raro
che un Valdese esprima risentitamente questo pensiero. Non era nella
loro indole, — dicono, — non era nell'indole dei duchi quello spirito
di persecuzione implacabile. La forza che trascinava alla crociata
i grandi Stati cattolici, li travolgeva. La società onnipotente _de
propaganda fide_ li circuiva, li premeva, li aizzava, metteva loro
la benda agli occhi e l'arma in pugno, li spingeva al sangue per
disperazione. Dopo ogni persecuzione, infatti, sono come vinti dalla
pietà, la generosità naturale del loro cuore ripiglia il di sopra,
inclinano al perdono, accordano dei patti accettabili. Ma che vale?
Il loro cattivo genio, il nemico dei Valdesi e di loro, che domina
la nobiltà, la corte e la plebe, s'intromette, ristringe i patti, li
nega, li viola, soffia nei rimasugli dell'incendio e fa divampare la
fiamma. Senza dubbio, anche dalla parte dei Valdesi, sorsero qualche
volta ostacoli alla pace e incentivi alla guerra. I loro predicatori
non si restrinsero costantemente a difendere la causa propria, i
ministri ugonotti venuti nelle valli fomentarono spesso la ribellione,
predicando la costituzione d'una repubblica indipendente; e così
gli uni che gli altri, con la propaganda del valdismo, seminarono la
discordia religiosa nelle terre vicine, nè rispettarono sempre nei
cattolici la libertà di culto che volevano in sè stessi rispettata.
Ma sarebbe assurdo il fondarsi su questi argomenti per dire che la
colpa delle immani barbarie commesse non deve cader tutta su quella
inesorabile fazione papista, la quale non volle uscir mai dal dilemma
della conversione o dello sterminio, e su quei generali senza dignità e
senza cuore, che cercaron la gloria nelle carneficine per la rabbia di
non poterla conseguire nelle vittorie. Questi hanno segnato d'infamia
e rammentano con orrore i Valdesi.... Ma neppure contro questi si
scagliano con quella eloquenza d'indignazione che pare dovrebbe
essere irresistibile in loro: li giudicano invece e li condannano con
un linguaggio severo e tranquillo di magistrati, con una specie di
compostezza d'animo, che deriva pure in gran parte dalla loro indole
forte, ma fredda, la quale si rivela massimamente in una mancanza
d'impeto e di colore nelle loro scritture. È però facile riconoscere,
anche sotto quel riserbo dignitoso, un sentimento profondo e vivo di
alterezza, o come ora si dice, d'orgoglio nazionale; poichè nazione
si possono chiamare veramente, sotto certi rispetti. Considerano sè
medesimi come cristiani primitivi sopravvissuti nel nuovo mondo, e
la propria religione come l'essenza stessa del cristianesimo; sono
alteri di rappresentare il solo principio di protesta religiosa che
abbia attraversato vittoriosamente i terrori del medio evo, di essere
stati quasi i padri spirituali della riforma, oggetto per secoli
d'ammirazione e di affetto in ogni angolo della terra dove battesse un
cuore protestante; alteri delle loro sventure e delle loro battaglie
eroiche, di quella “gloriosa rientrata,„ principalmente, e di quella
miracolosa difesa della Balsiglia, paragonabili davvero l'una e l'altra
alle più grandi cose dei tempi antichi; alteri anche del presente;
della floridezza, della istruzione, della operosità, della virtù del
loro popolo, a cui il mondo protestante ha decretato il titolo glorioso
di “Israele delle Alpi.„ Della virtù, dell'onestà sopra tutto, poichè,
sebbene riconoscano essi pure di non essere più i Valdesi d'una volta,
e ammettano che anche nelle valli, come dice uno dei loro scrittori
viventi: “entrarono il lusso, il libertinaggio, la calunnia, la lite,
il gioco, la crapula,„ hanno per fermo nondimeno, e non lo tacciono,
che “il loro grado di moralità sia superiore a quello di tutte le
altre popolazioni italiane.„ E veramente il giudizio della maggior
parte di coloro che li conoscono da vicino, non discorda dal giudizio
loro. Io interrogai anche pochi giorni fa un dottorino veneziano, un
giovinotto allegro che visse molto tempo nelle valli. — Che cosa le
pare? È davvero un popolo più morale degli altri il popolo valdese?
— Con mia grande meraviglia, egli si rannuvolò. — Ah! — esclamò poi
con tristezza, — pur troppo! — E domandato della ragione di quel _pur
troppo,_ mi raccontò una storia pietosa. Era innamorato d'una valdese,
maritata, di umile condizione; ma bellina! ma cara! una delle più
belle bocche che abbiano mai addentato un frutto proibito. E un giorno,
trovandosi solo con lei, non all'aperto, la pregava, la scongiurava;
e quella, che aveva simpatia per lui, resisteva, torcendo il viso,
ma senza violenza, quasi con rammarico, cercando di acquietarlo con
le buone parole, e pareva che non la dovesse durare più un pezzo;
quando tutt'a un tratto s'alzò, corse in un canto, tornò con una
Bibbia aperta, e gli disse: — Legga qui... e poi qui — con un accento
commovente di preghiera, come se avesse voluto dire: — Mi rimetto alla
sua coscienza, caro signore, abbia pietà dell'anima mia! — E il giovane
lesse: _Si un homme dort avec la femme d'un autre, l'un et l'autre
mourra, l'homme adultère et la femme adultère_.... _Les enfants des
adultères n'auront point une vie heureuse, et la race de la couche
criminelle sera exterminée_.... — E a quella lettura rimase lì, per
servirmi della sua parola, come un asino; il quale suol dire d'allora
in poi, come quel tal milanese dei _Promessi Sposi:_ — Quelli che non
credono che ci fossero untori... quelli che non credono alla moralità
valdese, non lo vengano a contare a me, perchè le cose bisogna averle
vedute....
*
* *
Uscimmo da quella casa che tramontava il sole, e la valle e i monti
eran già bruni; eccetto il Vandalino, che aveva ancora sulla testa un
cappuccio d'oro. Per far l'ora della partenza, entrammo in un caffè,
a carezzare il collo di una negrina di Bricherasio, ornata di un
piccolo turbante rosso, che le dava una grazia maravigliosa. Là mi fu
presentato un proprietario valdese, sulla quarantina, alto e poderoso
come un dragone, e d'aspetto grave, ma d'umore lepido; uno di quegli
uomini coi quali si piglia famigliarità fin dalle prime parole. —
Badi, — mi dissero all'orecchio i due amici, scherzando; — questo è un
Valdese _chauvin_. — E infatti, tra un sorso e l'altro, essendo caduto
il discorso sulla storia valdese, io fui meravigliato della cognizione
che n'aveva, non profonda, ma minutissima e precisa oltre ogni credere.
È vero che non è difficile ai valdesi il conoscere la loro storia,
a cagione della sua stretta unità, e del breve spazio che abbraccia.
Ma quello faceva saltar sulle punte delle dita i pastori, i martiri,
i sinodi, i combattimenti, le date soprattutto, come un cronologista
di professione. Poichè era un _chauvin,_ volli provare a stuzzicarlo
un poco, ed egli s'accalorò, senza smettere lo scherzo, ma pure senza
ridere mai, e dando alla discussione una forma curiosissima, come se
si parlasse di fatti del giorno innanzi, ed io fossi ai suoi occhi
il papismo incarnato. Io accennavo alla parte dei torti che avevan
pure avuto i Valdesi, servendomi dello stesso suo modo di parlare. —
Ma scusi, — gli dicevo, — lei mi saccheggia tutte le borgate della
pianura, lei m'incendia i conventi, lei mi macella le pattuglie
piemontesi colte alla sprovvista, lei mi passa ottocento irlandesi
a fil di spada a San Secondo.... — Sta bene, — egli rispondeva, —
ma quando, non avendo io fatto nulla ancora di tutto questo, lei mi
svaligia la casa, m'ammazza i figliuoli, mi fa arrostire la moglie,
apre la pancia ai miei fratelli per cacciarvi dentro dei gatti vivi....
— Un carabiniere ingenuo ci avrebbe messo le mani addosso a tutti e
due. Io era ben d'accordo con lui, in fondo. E mentre tirava innanzi
a ragionare, credendo che non fossi persuaso, non gli badavo, e andavo
pensando che egli poteva essere nipote d'una di quelle sante sventurate
che morirono di stento tra le nevi del Moncenisio, in quel tremendo
inverno della cacciata, o discendente d'uno di quegli eroici vincitori
di Salabertran, che, stremati dalle fatiche, furon ripresi prigionieri
sui fianchi dello Sci, al momento di rientrare nella patria,
riguadagnata a prezzo di tanti dolori e di tanti rischi.... Poveri
e grandi Valdesi! E lui continuava a discutere, e non sapeva che gli
avrei concesso dieci conventi e ottocento irlandesi di più, tanto il
pensiero di quella sua possibile genealogia me lo rendeva simpatico e
mi disponeva ad assentirgli ogni cosa. Ma come cioncava! Delle fiancate
di Campiglione, Dio lo conservi, che se n'avessero ingollato la metà
i campioni assiderati del bravo Arnaud, là sopra i monti bianchi di
val San Martino, i francesi avrebbero lasciato trecento morti di più
fra le rocce. — Bah! — concluse poi, guardandomi, dopo aver sbacchiato
e fatto sonare la lingua, da buon bevitore soddisfatto, — son tutte
cose passate; non si ricomincierà più, non è vero? — Per parte mia,
— gli risposi, — glie lo do per sicuro; non sono mai stato inclinato
alle carneficine; domandi pure informazioni. — Però, — soggiunse il
più giovane dei miei compagni, — se tornando qui a violar la libertà
di coscienza, si potesse sperare di esser portati via, come quei frati
di Villar, da due paia di spalle.... a scelta! — Allora, finalmente,
il valdese si mise a ridere. E _sur cela,_ sopra quelle spalle, ci
separammo amichevolmente; noi per ripartire per Pinerolo, e lui per
andare a trincare in un altro luogo.
*
* *
Era notte. Tutti quegli opifici, con le loro lunghe file di finestre
illuminate, parevano tanti edifizi in foco, come quelle case di cartone
che ci metton dentro un lume i bambini. Nel paese c'era quel brulichìo
di ragazzi che annunzia l'ora d'andare a letto. Passando davanti al
liquorista, rivedemmo a traverso ai vetri della finestra il profilo
minaccioso del Gamalero. Nella piazza c'era un poco di passeggiata.
Mi fece senso, a primo aspetto, dopo tutta quella fantasmagoria di
guerre feroci di valdesi e di papisti, il veder passeggiare là un
prete, giovane ed elegante, che si dondolava con una certa grazia
di zerbinotto, guardando le signore; e mi parve che avesse una
disinvoltura un po' studiata, come un ufficiale parlamentario in
un accampamento nemico. Alla stazione c'eran tre o quattro famiglie
valdesi; qualche bel visetto: due o tre signorine, che avrebbero fatto
bene a portar sempre la Bibbia in tasca, come strumento di difesa.
Credevamo di fare il viaggio soli, quando al momento della partenza,
salirono nel nostro vagone un signore e una signora, che attirarono
la nostra attenzione. L'uomo era una figura straordinaria: poteva
avere dai trentacinque ai quarant'anni: alto, robusto, una gran barba
nera, la fronte ampia, due occhi neri dolcissimi, la carnagione rosea,
un'espressione di grande bontà, una testa di Cristo, non so che cosa
nel viso, o piuttosto nell'aria del viso, che faceva indovinare una
vita sobria e serena, tutta pensieri e propositi benevoli, e un'anima
semplice, ma piena di vigore e di coraggio. La signora pareva poco più
che trentenne, piccolina, bruna di capelli e di viso, con due belli
occhi di bimba, viva e allegra, come se partisse per una scampagnata.
Eran vestiti di scuro tutti e due; il marito aveva una cravattina
bianca. Si guardavano sorridendo, tratto tratto, e poi guardavano
noi, con quell'espressione particolare della gente buona che riceve
sempre una prima impressione favorevole dalle persone sconosciute.
Non tardammo ad attaccare discorso. Dimandammo dove andavano. La loro
risposta ci maravigliò molto. Andavano al Capo di Buona Speranza!
In Inghilterra prima, dove si sarebbero imbarcati, e di là al Capo
di Buona Speranza, e dal Capo nel paese dei Bassutos, della stirpe
dei Cafri. Egli era missionario, nativo delle valli; la sua signora,
figliuola d'un pastore di Torre Pellice. Il suo nome era Weitzecker.
Andava a predicare il Vangelo nella parte della Basutoland non ancora
convertita al cristianesimo, e aveva già imparato qualche cosa della
lingua poetica e musicale di quel paese. Una casetta solitaria,
abbandonata da un altro missionario che s'era spinto più avanti, lo
aspettava laggiù, ai confini della barbarie. Partiva con un piccolo
bagaglio, la Bibbia, e pochi altri libri; e sua moglie l'accompagnava,
per rimaner là con lui. Andavano incontro a una vita di privazioni,
piena di difficoltà, di fatiche ingrate, di pericoli, in una terra
quasi selvaggia, a una sterminata lontananza dal paese dov'eran nati e
cresciuti, ed eran così tranquilli, contenti anzi, come due sposi che
facessero un viaggio di piacere.
— E ci va volentieri? — domandai al marito.
— Sì, — mi rispose, — pensando allo scopo per cui ci vado.
— Non teme dei pericoli d'ogni genere, a cui va incontro con la sua
signora?
— Il Signore ci aiuterà.
— E ritorneranno poi al loro paese?
— Prima di morire, speriamo.
Ma diceva questo con una naturalezza, con una dolcezza da non potersi
esprimere. Gli si leggeva negli occhi che, all'occasione, sarebbe
morto per la sua fede, con la placida intrepidezza di Gian Luigi
Pascal o di Giaffredo Varaglia; e ci guardavano intanto, lui e sua
moglie, sorridendo della nostra ammirazione, con la stessissima
sfumatura di espressione benevola, come se avessero un'anima sola.
Per un pezzo non trovai più parola; non potevo finir di pensare,
con un sentimento di stupore, alla immensa distanza che separava il
mondo morale in cui io vivevo, da quello in cui viveva quell'uomo.
Insieme con l'ammirazione, io provavo quasi un senso di pietà per
lui, e per il suo avvenire; ed egli forse provava un egual sentimento
per me e per la mia vita. E non aveva mica, non poteva avere nessun
secondo fine quell'uomo, nè di gloria, nè di guadagno, nè d'altri
vantaggi. Abbandonava la patria, i parenti, dava un addio a mille
cose care, rinunziava alla vita civile, si esiliava dal mondo forse
per sempre, spontaneamente, col cuore lieto, non per altro che per
andar a dire a gente sconosciuta, all'estremità d'un altro continente:
— Siate onesti, amatevi, perdonate, pregate, sperate! — E poc'anzi,
ricordando le stragi di Pasqua, io avevo parlato di disprezzo per la
natura umana. Oh grande, immensa, maravigliosa natura umana! Quelle
due anime gentili e intrepide valevano bene esse sole a purgarla di
cento sanguinose vergogne. Io li avrei ringraziati tutti e due del
bene che mi faceva la loro vista. E non osando parlare, augurai loro
affettuosamente, dentro di me, che li accompagnasse un tempo felice
sul grande Atlantico, che trovassero buona accoglienza in quei paesi
lontani, che vi fossero amati, che vi vivessero contenti, che non vi
perdessero dei figliuoli, che potessero tornare un giorno alle loro
valli, e che vi fossero festeggiati da tutti, e vi chiudessero la loro
nobile vita senza dolori, amandosi sempre, e benedicendo il passato.
— E mentre pensavo questo, e tacevamo tutti, essi guardavano le Alpi,
disegnate in nero sul firmamento, vedendo forse col pensiero un altro
orizzonte, una pianura sterminata dell'Africa, colla casetta solitaria
che li aspettava.


LE TERMOPILI VALDESI

Cominciamo come i romanzieri d'una volta. Era una bella mattinata
della fine di settembre, sul levare del sole, quando tre amici, ancora
mezz'addormentati, un deputato, un giornalista e.... (la frase è tanto
bella e nuova che non posso trattenermi dal metterla) e _chi scrive
queste linee_, uscivano insieme dal buon albergo dell'Orso, dove si
cucina magistralmente il camoscio, e discendevano la strada principale
di Torre Pellice per recarsi nella valle d'Angrogna, con l'intenzione
di rimontarla fino al celebre Pra del Torno, chiamato “il santuario
e la fortezza delle valli valdesi.„ — Ci vada, — m'avevano detto
Valdesi e cattolici, — è la più originale e la più romantica di quelle
valli, oltre che è la più gloriosa; lei ne ritornerà entusiasmato. — E
m'avevano dato una commendatizia per il pastore d'Angrogna, il signor
Stefano Bonnet, nativo del luogo, un barbone venerabile di ottanta o
novant'anni, m'immaginavo; il quale sarebbe stato per me, dicevano,
il più dotto e cortese cicerone che potessi desiderare. Il tempo ci
favoriva. C'era un cielo, come suol dirsi, tirato, limpido da parere
che non si dovesse più rannuvolar per un mese, e il Vandalino drizzava
la testa granitica in quell'aria pura, tutto dorato dal sole, superbo
come ne' più bei giorni delle sue vittorie.
*
* *
In pochi minuti ci trovammo vicino all'imboccatura della valle,
ai piedi della bella collina di Rocciamaneot, che è come un forte
avanzato di val d'Angrogna; intorno al quale toccarono una delle prime
batoste, nel 1488, le truppe tumultuose del legato d'Innocenzio VIII,
e dove, circa duecento anni dopo, uno dei personaggi più eroici e più
poetici della storia valdese, il capitano Ianavel, respingeva, con
soli seicento de' suoi, tre assalti furiosi dell'esercito di Carlo
Emanuele II. Ma chi volesse arrestarsi a notare tutti i combattimenti
che seguirono su quelle alture, non arriverebbe mai a Pra del Torno. I
Valdesi furono assaliti, nel giro di tre secoli, in tutti i punti del
loro paese, da Pragelato a Lusernetta, da Bobi a Pramollo, in pianura
e sui monti, nella buona stagione e nel cuor dell'inverno, da eserciti
regolari, da volontari, da crociati, da banditi, dopo lunghi apparecchi
e all'improvviso, con vasti accerchiamenti e con forze raccolte, alla
scoperta e a tradimento, con tutte le combinazioni strategiche, con
tutti gl'inganni leciti ed illeciti, con tutte le industrie politiche,
guerresche e brigantesche, che possano cadere in mente umana. Ogni
palmo delle loro terre, ogni rupe dei loro monti ha la sua storia di
sangue, di fuoco e di gloria. Ma le memorie più solenni e le glorie
più antiche sono della valle d'Angrogna. Questa fu la meta suprema di
tutti i capitani cattolici e nello stesso tempo la rabbia, la vergogna,
la disperazione loro. E perciò è la più amata e la più venerata dai
Valdesi, la loro valle sacra, che chiamano anche “il cuore delle
valli„ e di cui è difficile che pronunzino il nome in presenza d'un
forestiero, senza guardarlo negli occhi. E per questo pure, arrivati
che fummo vicini all'imboccatura, affrettammo il passo tutti e tre,
senza parlare, impazienti di sprofondar lo sguardo là dentro, come
in un luogo pieno di maraviglie e di misteri, nel quale i cattolici
profani non potessero entrare che di contrabbando.
*
* *
Il primo aspetto della valle, infatti, è strano, misterioso,
indimenticabile. M'avevan detto: è una valle angusta. Ma non
m'aspettavo di vedere uno strettoio, un imbuto di valle a quel modo,
e così bella malgrado la sua angustia, e così triste nonostante la
sua bellezza. La stradicciuola che pigliammo corre orizzontalmente,
dopo una breve salita, sul fianco dei monti che formano il lato destro
della valle, a una grande altezza dal fondo. Il fondo è così stretto,
che in alcuni punti ci passerebbe appena una compagnia schierata,
o quattro file di soldati da una parte, e quattro dall'altra del
torrente. Dalla strada in giù tutto era ancora nell'ombra. Dopo
pochi minuti di cammino, vedemmo uno spettacolo bellissimo: a destra,
davanti a noi, sulla cima di tre alture successive, ancora immerse
quasi nell'oscurità, una chiesa valdese, una chiesa cattolica, e poi
una seconda chiesa valdese, l'una dietro l'altra, bianche, inargentate
dal sole, che pareva che splendessero, e solitarie in mezzo a una
vegetazione cupa foltissima, che copriva ogni cosa d'intorno. Nella
valle, un silenzio profondo: non un'anima viva nè per la via, nè
sulle alture, nè per i fianchi dei monti, nè in basso. Solo i colpi
affrettati del maglio d'un opificio, che non vedevamo, empivano di
tratto in tratto la valle d'un fracasso assordante, il quale, cessando,
faceva parer più alto il silenzio. I monti essendo squarciati a brevi
distanze da valloni scoscesi per cui precipitano dei rigagnoli e dei
torrentelli fin giù nel letto dell'Angrogna, la via gira dentro a
ciascuno di questi valloni, nell'ombra, passa sopra un ponticello,
riesce fuori sul fianco esterno del monte, al sole; poi daccapo
rientra nell'ombra, poi esce al sole un'altra volta, e così avanti,
con un serpeggiamento serrato e regolare, che fa cangiar veduta a ogni
passo. E quei valloni sono così profondi, oscuri, umidi, affollati
di vegetazione, che entrandovi e uscendone, par di passare di punto
in bianco dal pieno giorno alla notte e dalla notte al giorno, e
si è presi da un brivido ad ogni svoltata. Si cammina sull'orlo di
precipizi rocciosi, sul ciglio di rive ripidissime, simili a grandi
muraglie verdi leggermente inclinate, e tutte tempestate di freddoline,
in mezzo a veri boschi di castagni giganteschi, che vengon su quasi
dal fondo della valle, e s'innalzano ancora d'un grande tratto al di
sopra della via e sul capo di chi passa, dentro a macchie di quercie,
di noci, di roveri, di pioppi, e poi di nuovo tra castagni altissimi,
fasciati di virgulti dal piede al nocchio, coi rami enormi allargati
in mille forme strane, di braccia di candelabri giganteschi, di membra
colossali agitate in atto disperato, o di mostruosi artigli distesi
per afferrare una preda nel cielo. Tutto verde intenso, tutto forte,
grande e austero, alberi, macchie, roccie, scoscendimenti, recessi.
E l'ombra era così turchina, densa in quei grandi squarci dei monti,
che, stando da una parte, non si vedevano quasi affatto i gruppi di
case di pietra grigia, che eran dalla parte opposta, a pochi passi
di distanza, addossati alla china; e i monti dell'altro lato della
valle, visti da quel fondo nero illuminati dal sole e come inquadrati
fra i due fianchi oscuri del vallone, davan l'idea d'un paese in cui
regnasse un'altra stagione, parevano sfolgoranti d'oro, e abbagliavano.
All'uscire da ciascun vallone, vedevamo, da una parte, l'alto della
valle, che sembrava chiuso in maniera da non poter più far mezz'ora
di cammino; e dall'altra, l'imboccatura, chiusa pure dalla gran mole
azzurrina e violetta del Frioland, dalla punta della Rumella e dai
monti lontani di Bagnolo, che fiancheggian la valle del Po, quasi
svaniti nel cielo. Le poche case che trovavamo sulla via erano chiuse e
mute. Non si vedeva nessuno da nessuna parte. Non c'era altro indizio
di paese abitato che quelle tre chiese alte, bianche e solitarie, che
sembravano allontanarsi come case fatate, via via che andavamo avanti.
Anche il rumor del maglio era cessato. Non si sentiva più nulla. Ci
pareva d'esser noi tre soli in tutta la valle, e nessuno parlava. Era
una bellezza, uno stupore, un incanto.
*
* *
Dopo un'ora e mezzo di cammino arrivammo sopra un'altura, alla
sede della parrocchia di Angrogna: un gruppo di casette pulite, una
tettoia, una piazzetta nel mezzo, piantata d'alberi, una iscrizione
a una cantonata, in grandi caratteri: _Pubblicazioni di matrimonio;_
un tempio bianco un po' più in alto, in disparte, e tutt'intorno
verzura, e non un'anima viva. Ma quasi subito sbucò dalla porticina
d'un orto il pastore Bonnet. Io che m'aspettavo una specie di vecchio
della montagna, rimasi molto maravigliato al vedere un bell'uomo sulla
quarantina, con tutta la barba nera, alto e svelto, di viso sorridente
e di modi amabili, vestito di scuro, ma con un certo garbo signorile,
che se non avesse avuto la cravatta bianca, si sarebbe potuto pigliare
per un capitano dei bersaglieri in villeggiatura. E fui anche più
maravigliato, sapendo ch'era nativo d'Angrogna, quando l'intesi parlare
con pronunzia quasi perfettamente toscana. Seppi poi che l'aveva presa
nell'isola d'Elba, dove era stato nove anni, e a Firenze. C'è però
nel collegio di Torre Pellice un bravo professore toscano, dal quale
quasi tutti i maestri e le maestre valdesi piglian qualche cosa del
_parlar celeste;_ per il che non è raro di sentir toscaneggiare fra
quelle montagne. Il signor Bonnet si offerse cortesemente di farci da
guida, e ci trattenne per parecchi minuti sulla piazzetta a discutere
il programma della giornata. Per tutto quel tempo, e per un buon
tratto di strada quando ce n'andammo, c'intronò gli orecchi un canto
altissimo, che usciva da una casetta chiusa, il canto d'un uomo che
lavorava, e che cangiava arietta continuamente, senza interrompersi,
saltando dallo stornello campagnuolo alla _Traviata_, dalla canzone
militare al _Rigoletto_, con una vivacità, con una furia allegra,
con una vigorìa di voce e di pronunzia, che pareva pagato per tener
di buon umore il villaggio. — È più felice d'un milionario, — disse
il Bonnet, sorridendo. — E il deputato soggiunse con ragione, che
non si cantava più, nelle città, a quella maniera. Tutt'a un tratto
tacque, e vedemmo il suo viso alla finestra, un viso beato; ma disparve
subito, e intonò un coro dei Lombardi. Il pastore ci fece vedere il
suo tempio piccolo e nudo, una specie di villino smobiliato, piuttosto
che di casa di Dio. Ma è un tempio storico, il più antico della valle,
fondato verso la metà del sedicesimo secolo, nel luogo dove solevano
radunarsi i Valdesi, all'aria aperta, a deliberare e a pregare;
stato distrutto dai monaci, poi riedificato, servito di caserma ai
soldati del marchese di Pianezza, che s'accamparono là attorno; ed ora
ringiovanito e tranquillo per sempre. Il signor Bonnet ce lo mostrò
con una certa espressione d'affetto e d'alterezza, dicendoci del lungo
ordine dei pastori, alcuni martirizzati ed altri morti di peste, che
l'han preceduto fra quelle mura per il corso di quasi quattro secoli; e
quella sua voce dolce e armoniosa, quelle memorie di pastori antichi,
quella solitudine verde tutt'in giro, e il canto infaticabile di
quell'operaio che si spandeva per la valle silenziosa, ci facevano
un'impressione singolare, come d'un angolo del mondo lontanissimo da
quello abitato da noi, e ignorato da tutti, in cui si godesse ancora
la pace delle età primitive. Il pastore ci propose d'andar a vedere la
_Ghiesia d'la tana;_ la chiesa della tana, una delle meraviglie della
val d'Angrogna. — Sono alpinisti? — domandò. — A ore perse, — risposi.
— Perchè bisogna rampicare, — soggiunse. E si mise a salire per il
primo, con la sveltezza d'un montanaro.
*
* *
Era una caverna che serviva di chiesa e di rifugio ai Valdesi al
tempo delle persecuzioni. Se non si sa dov'è, è quasi impossibile
trovarla. Dopo dieci minuti di salita ripida su per un terreno
erboso e fradicio, vedemmo un ammasso di roccie, nel quale però non
appariva alcuna apertura. Si continuò a salire, poi si discese per
un sentiero da capre, appoggiandoci ai macigni, aggrappandoci agli
arbusti, sedendoci qualche volta improvvisamente, fin che s'arrivò
dentro a una specie d'atrio della caverna, mascherato da alcuni tigli.
L'entrata è larga, ma di pochi palmi d'altezza, tutta punte di sopra
e di sotto, simile a una bocca di roccia che digrigni i denti; in
maniera che non ci si può entrare che accoccolandosi col mento sulle
ginocchia, o allungandosi in terra, sul fianco, e strisciando, come
un ferito che cerchi aiuto. L'entrata della grotta azzurra di Capri
è un portone di palazzo in confronto di quella maledetta buca da
lettere: a ficcarcisi, par proprio di impostar sè stessi per l'altro
mondo. Il pastore accese un moccoletto, e s'infilò per il primo; noi
ci coricammo sui pietroni, l'un dopo l'altro, in atteggiamento di
gladiatori morenti, e badando bene alla cappadoccia, rotolammo dentro,
senza gravi ammaccature. Appena entrati ci trovammo al buio; ci volle
qualche momento per raccapezzarsi. La caverna è stretta e lunga, della
forma d'una grande spaccatura, capace di circa a duecento persone,
rischiarata fiocamente dall'alto, per tre aperture sottili, che paion
tre feritoie orizzontali, e ingombra in fondo di massi enormi di
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