Alle porte d'Italia - 07

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di frequentare quella casa perchè ci sapeva di buona gente e non per
altro. Era triste; non aveva sorriso; lasciava cascar la conversazione
quando non lo interrogavano. Ma per fortuna di Evelina, l'argomento dei
discorsi soliti era inesauribile. Dal giorno in cui Emanuele Filiberto,
ragazzo, s'era gettato in ginocchio davanti a Carlo V, a Genova,
supplicandolo che lo conducesse alla guerra d'Algeri, fino all'anno che
correva, 1574, avevano trentadue anni della vita del Duca da ricorrere,
trentadue anni pieni d'avventure da epopea e da romanzo, intorno alle
quali il Benavides, legato d'amicizia con molti personaggi spagnuoli
della Corte e degli eserciti, sapeva mille particolari preziosi, non
noti che a pochissimi. Discorreva delle strettezze compassionevoli in
cui s'era trovato il Duca al tempo del suo primo viaggio in Germania,
della sua vita d'accampamento, quando comandava, appena diciottenne,
la cavalleria fiamminga e borgognona contro la lega di Smalcalda, e
dell'astio geloso preso contro di lui da Filippo II dopo la battaglia
di San Quintino, e dei suoi viaggi avventurosi, quando tornava nei
propri Stati e ne ripartiva travestito come un congiurato vagabondo,
con l'angoscia nel cuore; e quando pareva che avesse tutto detto,
le interrogazioni ingegnose della ragazza gli richiamavano alla
mente e gli facevano dire nuove cose. Un giorno raccontava in che
maniera avesse salvato Barcellona dallo sbarco notturno dei francesi;
descriveva un altro giorno un suo vezzo di stropicciare l'elsa della
spada quando s'impazientiva, in modo che tutti i circostanti fissavano
la sua mano sinistra con trepidazione; una sera pure, aveva imitato
con la penna la enorme e strana firma del Duca, che pareva fatta a
colpi di pugnale, ed era fiancheggiata da un lunghissimo tratto nero
inclinato simile all'asta d'un'alabarda. E ad Evelina brillava l'anima
a quelle notizie, e ad ogni nuovo particolare prorompeva in una viva
esclamazione; e poi rimaneva un momento pensierosa, come per risentire
dentro di sè l'eco della voce che aveva parlato; e in quei momenti
teneva l'occhio fisso sul cappello di feltro scuro del Benavides,
appeso alla spalliera d'una seggiola; intorno al quale girava una penna
nera di struzzo, fermata sul davanti per mezzo d'un piccolo anello
d'oro ingemmato: un ricordo della madre morta.
*
* *
Il solo che riuscisse qualche volta a far sorridere il Benavides era il
vecchio Lombriasco, con le sue tirate di politica internazionale. Dopo
che aveva l'onore di quella nobile clientela spagnuola, si dava per
grande partigiano della Spagna; ciò che feriva il senso delicato della
figliuola, la quale si ricordava d'averlo inteso molte volte inveire
con alte declamazioni contro “il mostro insaziabile„ che divorava
la Lombardia dalla Sesia all'Adda, e i regni di Napoli e di Sicilia
e di Sardegna, e i presidii toscani “che Dio lo faccia tristo.„ Ma
il notaro non badava agli scrupoli della ragazza. — La Spagna, care
mie! — esclamava, voltandosi alla moglie e alla figliuola, con la
coda dell'occhio verso il cliente; — ecco la nostra alleata naturale,
necessaria, perpetua. _Nuestra amiga_. La protettrice provvidenziale
dei Duchi. Chi aveva divinato il genio guerriero di Emanuele Filiberto
se non Carlo V? Chi, se non Filippo II, gli aveva fornito i mezzi
di farsi glorioso e potente a benefizio del suo paese? Chi aveva
imposto nel trattato di Cambray la restituzione del Piemonte, con la
minaccia di ricominciare la guerra? La Corte di Madrid, insomma, non
aveva mai abbandonato in tutto neppure Carlo il Buono. Aveva preso
la sua parte, ma senza violenza. Si poteva dire che “usurpava„ più
per necessità che per cupidigia. Gli facevan scrollare le spalle i
fiorentini, i veneziani, i genovesi, e gli sforzeschi e gli estensi con
le loro tenerezze francesi, manifeste o coperte. Non erano che sfoghi
di dispetto, gelosia del colosso, una gran voglia d'esser liberi per
fare alto e basso e mettere il mondo a soqquadro con le loro matte
ambizioni. Naturalmente, non poteva patire la Francia; e in questo
era sincero. Ah sì! La vista d'un francese gli metteva il cuore a
traverso. Ma, in realtà, quella sua furiosa avversione derivava anche
in parte da un suo rancore privato: dal fatto che, essendo egli stato
anni addietro del Consiglio dei Cento, e gloriandosene sopra modo,
era stato offeso mortalmente da un bisticcio ingiurioso d'un uffiziale
francese, il quale, in occasione d'un litigio insorto tra il Consiglio
e il Siniscalco del Re, aveva detto: _Ce n'est pas un Conseil décent_.
Questa l'aveva serbata sullo stomaco per anni ed anni e gli tornava
in gola di tanto in tanto. — Il Consiglio dei Cento! — esclamava nei
giorni di cattiva luna, gesticolando dietro ai vetri, quando vedeva
passare per la piazza un uffiziale francese. — Ma la vostra famosa
monarchia era ancora nelle fasce, quando il Consiglio dei Cento era
già in piedi, forza e decoro di Pinerolo, assemblea legislativa,
supremo magistrato politico, rispettato in tutta la sua autorità da
quanti passarono fra le nostre mura, da abati, da marchesi di Susa,
da principi d'Acaja, da conti di Savoia! _Ce n'est pas un Conseil....
décent!_ Ma l'avete dovuto rispettare anche voialtri, padroni
illustrissimi, e sarà ancora rispettato quando non ci sarà più neppure
la semenza dei Valois e degli Angiò, credetelo pure! — E se l'uffiziale
francese, per caso, si voltava a guardare la finestra, lui, da savio
padre di famiglia, si ritirava dalla vetrata, e continuava a sfogarsi
in mezzo alla stanza. Ma non era mai tanto ameno come quando canzonava
il nipote, del quale conosceva la passioncella innocua, e le comiche
imitazioni del Duca. Diceva d'averlo sorpreso a lavarsi il capo con
l'acquavite per fortificarsi la testa, e lo chiamava _testa di ferro_,
battendogli la mano sulla nuca, come per sentire a che grado di durezza
l'avesse già ridotta: di che il giovane andava sulle furie, e si faceva
pavonazzo, che parea sul punto di schiattare.
*
* *
Il Benavides, frattanto, andava pigliando a poco a poco una secreta
compiacenza a far vibrare con la sua parola quella bell'anima, così
giovanilmente innamorata delle cose grandi. Senz'avvedersene egli
si preparava prima certe frasi e certe immagini che gli parevano più
efficaci a dilettarla e a farle battere il cuore. Una contrazione quasi
di pianto infantile, leggerissima e dolcissima, che le era passata sul
viso una sera che egli descriveva l'atto regalmente gentile con cui
Emanuele Filiberto aveva carezzata la fronte del conte di Siegelberg
ferito a morte, gli era rimasta impressa nell'animo per varii giorni.
Come mai era nata quella bell'anima in quella casa così umile, fra
quella gente mediocre, in mezzo a una città dominata dagli stranieri,
dove nulla era accaduto da tanti anni che potesse scuotere e innalzare
gli spiriti? La sua stessa figura non riportava in nulla nè il padre
nè la madre, e contrastava in mille modi con tutta la gente e con
tutte le cose che aveva d'intorno. Quella era veramente una nobiltà
pura e legittima, stampatale nell'anima e sulla fronte da Dio. Certo,
egli non sentiva punto amore per lei. Solamente la sua voce gli
cagionava un'illusione singolare: lo accompagnava alle volte giù per
la scala, lo seguitava per la via, gli si faceva sentire ora come
un'eco lontana, ora come una nota staccata che gli suonava tutt'a un
tratto nell'orecchio, e non di rado pareva che gli empisse per qualche
minuto tutta la stanza come la vibrazione prolungata ed eguale d'una
corda sonora. E allora gli sembrava che, rivedendola, avrebbe sentito
il bisogno di sorriderle e di parlarle con una cortesia più familiare
e più affettuosa di quella che aveva usato fino allora con lei. Ma
quando poi si ritrovava con la famiglia, al vedersi circondato di un
così profondo rispetto, considerato quasi come una creatura d'un'altra
razza, al punto che non avrebbero osato uscire dal discorso solito
per timore di parergli troppo entranti, allora si richiudeva in sè,
imponendosi maggior riserbo di prima, e rimproverandosi quasi il
desiderio che aveva provato di fare un passo innanzi in quell'amicizia.
Una sera, per altro, la signorina gli raccomandò la sua Pinerolo
con una grazia così affettuosa e timida, con parole così caramente
ingenue, ch'egli dovette fare uno sforzo per non risponderle con lo
stesso tuono di voce. — Vostra Signoria, — gli disse la ragazza con
un sorriso, incrociando a più riprese le dita delle sue belle mani, —
dovrebbe persuadere il suo grande Re a restituire Asti e Santhià al
duca e allora la Francia ci renderebbe Savigliano e Pinerolo, e noi
ritorneremmo piemontesi. Mi pare che lo dovrebbe comprendere il re
Filippo che non ci sarà mai pace fin che il Piemonte sarà così diviso
e esposto a tutti i pericoli. Vostra Signoria può dire che tocca al
re di Francia a fare il primo passo, intendo bene. Ma continuando
così.... Non sarebbe naturale che lo facesse il più forte, che ha
meno da temere, il primo passo? Quando il Piemonte fosse tutto unito,
ora che è con la Spagna, sarebbe anche più sicura la Lombardia, non
è vero? mentre la Francia, fin che ha Pinerolo, può scendere nello
Stato di Milano quando le piace, con molti soldati. Ah signore! Io non
sono che una povera ragazza; ma darei tutto il mio sangue per sentir
sonare a Pinerolo le trombe delle nostre milizie, e veder inalberare
sul castello la nostra bella bandiera, che non ho mai veduta... vederla
una sola volta! un momento solo! Dio buono! — E stette un momento con
le mani giunte, guardando verso la piazza, con gli occhi umidi, in
un atteggiamento da strappare i baci. Il Benavides tardò un minuto a
rispondere. Poi con un accento benevolo, come d'un fratello: — Tutto
vi sarà reso, señorita, — rispose. La señorita poteva andar sicura che
i negoziati per la liberazione di Pinerolo erano in buone mani. Ella
doveva sapere che Emanuele Filiberto chiamava Pinerolo e Savigliano:
_le chiavi della mia casa,_ e le aveva in cima d'ogni suo pensiero.
La restituzione non poteva tardare. Carlo IX, malato, lacerato dai
rimorsi, sputava sangue da molto tempo, sarebbe morto fra pochi mesi;
e il suo successore, il re di Polonia, avrebbe trovata la Francia
in un tale stato, avrebbe veduto così chiaramente l'impossibilità
di tentare nulla di utile per molti anni di qua dalle Alpi, che per
levarsi l'inquietudine e la spesa dell'occupazione, e amicarsi il Duca
di Savoia, gli avrebbe rese le due città spontaneamente. — Caterina dei
Medici — concluse — sarà la prima a consigliarglielo, per levare l'armi
di mano ai propri nemici. E allora, signorina, ella sentirà sonare in
piazza San Donato le trombe delle milizie ducali... senza bisogno di
dare _su preciosa sangre_. Il cuore mi dice che ciò accadrà assai prima
che ella non creda. Io non sarò più qui; ma ne godrò con tutta l'anima
anche da lontano. — Detto appena questo, rimase meravigliato del senso
improvviso come di solitudine triste che il suono delle ultime sue
parole gli aveva svegliato nel cuore; e quella sera la signorina sentì
come un'oppressura all'animo, una voglia di piangere senza sapere
di che, una tristezza grande che la fece stare seduta sul suo letto
per lungo tempo, col gomito appoggiato sopra il guanciale, e la mano
tuffata nei capelli biondi.
*
* *
Qualche cosa per aria c'era, in fatti, di quei giorni. Non era un
mistero per nessuno che parecchi negoziatori fidati del Duca avevano
fatto più volte in pochi mesi il viaggio da Torino a Parigi, e che
tra la Corte ducale e il Governo di Madrid si trattava daccapo, con
alacrità insolita, la vecchia quistione della resa della città. Gli
stessi ufficiali francesi del presidio, fra i quali il Benavides aveva
dei conoscenti, parlavano non della restituzione, ma della “concessione
graziosa„ di Pinerolo, come d'un fatto facilmente prossimo; e non
se ne dolevano, perchè neanche a loro era gradevole lo stare così
sull'ala, in una città di confine, coll'incertezza del domani, in
mezzo a gente che sospirava palesemente la loro partenza. La città
si animava: i giovani e le donne, in special modo, si rallegravano.
Ma i vecchi dondolavano il capo, increduli. Anche nel 1562, al tempo
della convenzione di Fossano, s'era sperato; e la speranza durava
da dodici anni. — È inutile, — dicevano; — noi siamo nati sotto un
cattivo pianeta: Pinerolo verrà alla coda; ha da passarle davanti fin
l'ultimo villaggio del Monferrato. — Sarebbe stato tempo nondimeno,
per l'anima di San Donato! In quei trentotto anni di dominazione
straniera, quel povero paese, trattato come territorio militare,
soggetto a mille danni, trascurato dal Governo in tutto quello
che non riguardava la difesa, minacciato di giorno in giorno dalla
guerra, era caduto in una grande miseria. Molti edifizi di Pinerolo
erano stati distrutti per ristringere la cerchia dei bastioni. La
popolazione della campagna era scemata. Le industrie e le arti erano
a terra. L'inquietudine, l'incertezza d'ogni cosa disamorava la gente
dal lavoro, distoglieva le famiglie dal risparmio, scoraggiava i
privati facoltosi da ogni impresa utile, e l'infelicità del paese era
sentita anche più dolorosamente da tutti per effetto del confronto che
si faceva con le altre provincie del Piemonte, le quali s'andavano
rialzando rapidamente sotto l'amministrazione saggia e vigorosa
del Duca di Savoia. Oltrechè, — i cittadini colti lo vedevano, —
quella dominazione francese nè violenta nè mite, quell'aspettazione
continuamente delusa, quel tirare avanti così alla stracca una vita
ambigua e bastarda nè di francesi nè d'italiani, snaturava il carattere
del popolo, sfibrava la sua virilità e corrompeva la sua coscienza.
In altri pochi anni di quello stato tutto sarebbe infracidito. E
ad ogni nuovo barlume di speranza, la città fremeva di desiderio e
d'impazienza. Ma questa volta pure, passato il primo fremito, i giorni
succedevano ai giorni, e nulla accadeva. Ad ogni arrivo di corriere
da Torino o dalla Francia, si aspettava per ventiquattr'ore il grande
annunzio; ad ogni radunata straordinaria del Consiglio dei Cento,
si sperava la lettura d'un messaggio solenne del Re o del Duca; i
consiglieri, dice il cronista “per tutti li luoghi dove passauano
ueniuano con molta anzietà dimandati se fossero buone nouelle gionte
di Torino per la restituttione della città.„ Ma nulla era giunto. E
quel grullo cascamorto d'un cugino ne faceva un gran chiasso in odio
a Emanuele Filiberto. Egli perdurava nella sua beata illusione di non
avere altri rivali che il Duca. Veramente, una vaghissima idea gli
era lampeggiata dentro alle tenebre del cranio che il nobile catalano
c'entrasse anche per qualche cosa; ma l'idea d'avere un rivale di
quella fatta, presente, parlante e sfolgorante, col quale ogni lotta
sarebbe stata impossibile, gli metteva un tale sgomento nel cuore,
ch'egli l'aveva scacciata subito, bruscamente, come un'immaginazione
insensata; e continuava a tirare di punta e di taglio contro il
vincitore di San Quintino. — Con le armi, — diceva all'Evelina — s'ha
da riconquistar Pinerolo, con le armi, come fanno i grandi capitani,
e non con i negoziati e con le chiacchiere. Ha fatto un bel pezzo di
lavoro, in dodici anni, il gran Duca! Ci troviamo nelle peste peggio
di prima. — Evelina, — soggiungeva poi a bassa voce, con enfasi; — io
sarei più grande di lui se mi amaste! — Ma rimaneva tutto stupito al
vedere che la cugina non aveva sentito nè la puntura, nè la carezza. Da
due giorni era distratta e taciturna, aveva come l'ombra d'un pensiero
doloroso sulla fronte bianca, e i suoi begli occhi celesti parevano
gonfi di pianto. Il buon notaio Lombriasco, due sere innanzi, stando
a tavola a desinare, aveva esclamato improvvisamente: — Sia lodato il
cielo! Sono finalmente arrivate quelle benedette carte da Gerona e da
Parigi. Tutto sarà finito tra pochi giorni. E il nostro illustrissimo e
amatissimo don Enrique de Benavides y Zeballos se ne potrà tornare alla
sua Catalogna.... carico di quattrini.
*
* *
Ma ecco, l'una dopo l'altra, come colpi di cannone, la notizia della
morte di Carlo IX, il messaggio di Caterina de' Medici alla Corte di
Savoia, il viaggio di Emanuele Filiberto a Venezia e la novità più
meravigliosa di tutte: la venuta di Enrico III, nuovo re di Francia,
a Torino. La signorina si riscosse tutta a quegli avvenimenti, e si
riaccese della passione antica, rifacendosi per qualche tempo più
rosea, più gaia e più alteramente bella di prima. Il re di Francia a
Torino! Ah! non occorreva altro. Se Enrico III — diceva — vive tre
giorni soli col duca Emanuele Filiberto, è impossibile che non gli
renda Pinerolo! È impossibile che non rimanga ammaliato, soggiogato
da lui! Gli darà tutto quello che vorrà, ne sono certa come della
luce del sole! — Ed ecco un'altra notizia inaspettata: il duca di
Savoia che accompagni la re di Francia a Lione con cinquemila fanti
e quattrocento cavalli. Era un'idea luminosa, da grande cavaliere e
da grande politico; di quelle cose che pensava e faceva egli solo,
l'ardito e profondo Emanuele Filiberto. Senonchè, a interrompere
bruscamente l'allegrezza suscitata da quegli avvenimenti, venne pochi
giorni dopo l'annunzio della malattia grave di Margherita di Valois
e del principino. Tutti ne furono atterriti. Se quell'unico figliuolo
del duca moriva, il Piemonte toccava di diritto ai principi di Savoia
Nemours, mezzi francesi, per non dir francesi dalla testa ai piedi;
e la Spagna non lo avrebbe mai consentito. — Il che vorrebbe dire,
— esclamava il notaro, con calore, — che noi cadremmo dalla Francia
nella Spagna (e guardava intorno, se ci fosse l'ombra del Benavides),
dalla padella nella brace, dall'inferno alla dannazione! Ma c'è
proprio piovuto la sperpetua, dunque, su questa povera Pinerolo! —
E si piantava con le braccia incrociate davanti alla figliuola che
teneva il mento sul petto. Il principino guarì, come Dio volle; ma la
gioia pubblica fu soffocata immediatamente dalla notizia della morte
della Duchessa. E la ragazza ne fu afflitta sinceramente. Si seppe
che nessuno del seguito del Duca a Lione aveva avuto il coraggio di
annunciargli subito quella sventura, e che quando l'aveva intesa, n'era
rimasto fulminato. — Dio lo vuol provare in tutte le maniere, — diceva
la signorina; — ma egli avrà forza di vincere il dolore; egli è nato
per essere grande nei trionfi e nella sventura. — Intanto, la notizia
che Emanuele Filiberto, ritornandosene da Lione, avesse lasciato i suoi
cinquemila soldati al re di Francia, era venuta a rinfiammare ancora
le speranze già vivissime dei pinerolesi. Ma quel benedetto notaro
Lombriasco era proprio un ambasciatore male ispirato. La stessa sera,
anzi nello stesso punto che annunziava in casa quell'atto cavalleresco
e sagace del Duca di Savoia, dava pure, stropicciandosi le mani, il
“felicissimo„ annunzio che la lite del Benavides con la famiglia
Mortier o Mornier era finita, e che il suo nobile cliente aveva
disdetto per la metà del mese il quartierino di via Porta di Francia.
*
* *
La settimana seguente, sull'imbrunire d'un giorno triste di dicembre,
nevicava; la stanza da desinare del notaro era mal rischiarata da
un'alta lucerna posta nel mezzo d'un tavolino intorno al quale la
signora e la ragazza facevano delle nappe da tenda; e il Benavides,
seduto un poco in disparte, aspettava da qualche minuto il signor
Lombriasco, guardando attentamente Evelina, che da parecchio tempo gli
pareva mutata. Tutti e tre stentavano singolarmente, quella sera, a
trovar materia di discorso, e parole; e tacevano di tratto in tratto
per alcuni momenti, durante i quali non si sentiva nella stanza che
il fruscio leggiero dei grandi stivali di daino del catalano, non
statuariamente immobile come sempre.
All'improvviso, si spalancò la porta, e apparve il notaro ansante, con
una notizia solenne sul viso.
— Pinerolo è resa al Duca! — urlò alzando le braccia. Evelina gettò un
grido dall'anima e gli saltò al collo d'un balzo.
— E il Duca.... — soggiunse il padre col fiato grosso, mettendo le mani
sulle spalle della figliuola, e parlandole nel viso: — Il Duca....
— Viene! — gridò Evelina.
— Viene! — gridò il vecchio, buttando il cappello a traverso la stanza
e lasciandosi cadere spossato sopra una sedia.
La ragazza si mise a ridere, poi si fece seria un momento, poi di
nuovo rise, e poi ruppe in un singhiozzo violento e cadde in ginocchio
davanti a sua madre e le nascose il viso nel seno.
Per un minuto nessuno parlò; non s'udiva che la respirazione asmatica
del vecchio, e il singhiozzo soffocato di Evelina, a cui la madre
carezzava le treccie e le spalle. Poi, mentre il Benavides, ritto in
piedi, commosso, avvolgeva e riavvolgeva collo sguardo la ragazza,
lunga e nobilissima in quel suo atteggiamento abbandonato di bella
donna e di bella bambina, e cercava inutilmente una parola che le
potesse dire fra le mille che avrebbe voluto dirle; il trionfante
signor Giovanni Battista Lombriasco, dimentico per la prima volta del
rispetto dovuto all'ospite, si mise a passeggiare in lungo e in largo
per la stanza, gesticolando e declamando.
— Ah, finalmente. È venuto, dunque, il benedettissimo giorno! Siamo
liberi e siamo piemontesi, siamo in casa nostra, siamo gente di questo
mondo, adesso! Li vedremo partire una volta. Abbiamo finito di sentir
suonare gli speroni francesi sui ciottoli di piazza San Donato! E non
si può dire che non fosse tempo, per l'anima.... del Beato Amedeo!
Eran trentasei anni che la commedia durava, dovete sapere! E possiamo
dire d'averne viste passare, in questi quattro giorni, delle faccie
antipatiche di governatori e di siniscalchi e di spillaquattrini
d'ogni colore, che il diavolo se li porti! Quel generale Vassé che
aveva un pino delle Alpi nel corpo! E quel signor Carlo di Cossé,
signore di Brissac, che aveva l'aria di guardarci dalla sommità del
Monviso! E quel famoso Re da torneo, quel gran giuocatore di palla,
che ci degnò di una visita, coi nastrini della sua bella sul petto,
quel caro _Henri deux,_ che ci affamava e non voleva sentir parlare
di miserie! E il duca di Nevers, che sia benedetto con una sbarra
di ferro, l'eccellentissimo signor Luigi di Gonzaga, duca di Nevers,
governatore del Marchesato di Saluzzo, di Pinerolo e di Savigliano, che
minacciò di tagliarsi la testa se il Re di Francia rendeva le terre al
Duca, speriamo che manterrà la parola, ora, da quel gentiluomo onorato
che s'è sempre vantato d'essere! Ah! ah! _Ce n'est pas un conseil
décent!_ Birboni! A che stato ci avevan ridotti! È finita, dunque!
Così è — concluse poi solennemente voltandosi verso il Benavides
che aveva già tentato invano d'interromperlo, e verso la ragazza che
s'era rialzata vermiglia e radiante: — Sua Maestà Enrico III, re di
Francia e di Polonia, ha restituito a Sua Altezza il Duca di Savoia
le città di Pinerolo, Savigliano e Perosa insieme ai loro mandamenti,
giurisdizioni e dipendenze. Il trattato è stato concluso a Torino ieri
mattina. Domani si raduna il Consiglio dei Cento. Il nostro amatissimo
e gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto di Savoia, espugnatore di
Torneaux, vincitore di San Quintino e liberatore del Piemonte, farà la
sua solenne entrata in Pinerolo il giorno primo di gennaio del 1575.
Sia ringraziato l'Altissimo! Io non speravo di avere questa santa
consolazione prima di morire. — E quella sera stessa il cavaliere
Enrique di Benavides appigionava per altri quindici giorni il suo
piccolo quartiere di via Porta di Francia.
*
* *
La mattina seguente, sedici di dicembre, era un tempo sereno e
asciutto, e le Alpi Cozie tutte bianche spiccavano in un cielo
azzurro e limpidissimo, che pareva di primavera. Pinerolo tripudiava.
La gente s'affollava in piazza San Donato e in via degli Orefici,
strizzata dal freddo, allegra, confondendo gli aliti fumanti in
mille dialoghi rapidissimi, troncati da strette di mano e da saluti
festosi. Una folla era radunata fin dall'alba davanti a una casa di
via del Duomo, guardata dagli archibugieri del Comune, nella quale
si trovava Giannantonio de Toni dei conti di Piossasco, nominato
governatore di Pinerolo due giorni prima, e arrivato nella notte da
Torino. Il Consiglio dei Cento si dovea radunare nel refettorio del
Convento dei Frati Minori di San Francesco, in via degli Orefici.
I consiglieri arrivavano da ogni parte, a coppie e a drappelli,
ravvolti nelle loro cappe, coi cappelloni calati sulle orecchie,
pestando i piedi, brillanti di contentezza, e tutti si affollavano
al loro passaggio, scoprendosi il capo e tendendo le mani. Molti
contadini erano accorsi dalla campagna, sparuti e laceri, ma di buon
umore, consolati dalla speranza d'un lieto avvenire. A mezzogiorno il
Consiglio si trovò raccolto sotto la presidenza dei sindaci Giovanni
da Prato e Giorgio Bonardi. C'erano presenti il Conte di Piossasco,
rappresentante del Duca di Savoia, il luogotenente generale del
Duca di Nevers, e il signor Servient, consigliere e segretario di
Stato del Re di Francia. La folla che nessuna forza aveva potuto
contenere, era penetrata nel refettorio, e riempiva tutti gli angoli,
pigiandosi senza far rumore contro le pareti bianche dello stanzone
ampio e nudo; e dietro ai vetri delle finestre, dietro alle teste dei
consiglieri, nei vani delle porte, si alzavano gli uni sugli altri
dei grandi cappelli d'archibugieri, dei cappucci di seta di signore,
degli scapolari di frati, dei pennacchi d'ufficiali francesi, dei visi
pallidi e immobili, che non avevano di vivo che gli occhi. In mezzo
a un silenzio profondo furono rimesse al segretario le regie patenti
suggellate del Re di Francia. Il vecchio segretario, notaio del Comune,
esaminò diligentemente i suggelli, secondo le prescrizioni: le sue
mani tremavano, la pergamena gli sfuggì due volte; l'adunanza pareva
soffocata dalla commozione; era quasi mezzo secolo di dominazione
straniera, di avvilimento, di tristezza e di miseria che stava per
finire in quel punto! In fine, i suggelli furon rotti; una voce alta
e tremante lesse l'atto solenne, col quale Enrico III “per la piena
fiducia da Lui riposta nell'amicizia che gli dimostrava suo zio il
Conte di Savoia, e per il desiderio che era in Lui di accontentarlo„
ordinava la restituzione di Pinerolo, di Savigliano e di Perosa,
prosciogliendo gli ufficiali delle tre terre dal giuramento di
fedeltà al Re di Francia. Un'acclamazione altissima, a cui fece eco
la moltitudine dalla via, seguì le ultime parole; i consiglieri si
baciarono; cento visi si rigaron di lacrime. In mezzo a un'agitazione
febbrile fu firmato l'atto di restituzione al “_Serenissimo Domino
Emanueli Philiberto, Duci Sabaudiae_, _Principi Pedemontium, et
principi nostro vero_, _naturali, optatissimo_.„ Un altro altissimo
evviva fece tremare l'edifizio, il Consiglio si sciolse, i consiglieri
usciti nella via furono circondati, abbracciati, portati quasi dalla
folla verso la piazza San Donato. Una gioia fresca e sonora, come di
gente ringiovanita, si spandeva in ogni parte, ravvivata ancora da
quel bel sole, da quel bel cielo terso, che pareva la promessa e il
principio d'una lunga età serena e tranquilla. Ma nonostante quella
gioia, che dominava ogni altro sentimento negli animi, molti, passando,
si voltavano a guardare in viso una signorina grande e snella, che
portava con una grazia mirabile un alto cappello conico, ornato di
cordoncini d'oro e di nappine di seta, appoggiandosi al braccio di
suo padre. E più di tutti la guardava, seguitandola a quindici passi
di distanza, Enrique de Benavides, che pure attirava molti sguardi di
donna con la sua bella eleganza di colosso e con la grossa gemma del
suo _sombrero_ piumato. Egli non perdeva un solo movimento di quelle
spalle graziose, e di quel braccio ripiegato, nascosto in un'ampia
manica serrata al polso. Da quei movimenti leggerissimi egli indovinava
il respiro affannoso, il palpito concitato del cuore, una gioia
violenta e compressa che brillava forse in bellissime lagrime mute, non
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