Alle porte d'Italia - 06

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cannoni e colubrine tirate da lunghe file di cavalli e spinte a forza
di braccia, e picchieri, alabardieri e archibugieri, tipi normanni,
picardi, guasconi, borgognoni, svizzeri, vestiti di assise strane e
pompose, l'esercito splendido e insolente di Francesco I, che calava
sopra Pinerolo, empiendo la valle di grida allegre e di canti. E
sparito quest'esercito, un accorrere improvviso di batterie, un
saltellìo concitato di cappelli a tre punte e di code di parrucca, un
gridìo d'ufficiali, un frastuono confuso di bestemmie piemontesi, e
Vittorio Amedeo che incalzava gli artiglieri con la spada, accennando
il forte di Mutino, meta di tutta quella furia di uragano. E infine,
due processioni opposte di gente, che venivan di Torino e di Francia:
gli ospiti forzati della fortezza; il viso spaurito del cardinal Pacca
affacciato allo sportello d'una carrozza; personaggi di Stato caduti
in disgrazia all'_uomo fatale_, pallidi e insonniti sotto le parrucche
scarmigliate dai disagi del viaggio; cortigiani malfidi o insolenti
dei Re di Sardegna, scortati dai classici lucernoni dei carabinieri; e
la folla vermiglia e triste dei Garibaldini di Aspromonte; e frammisti
a tutti costoro, centinaia d'ufficiali d'ogni età e d'ogni corpo,
mandati in villeggiatura a Fenestrelle a meditare il regolamento di
disciplina, seguiti per via da sospiri dolorosi di babbi, di creditori
e d'amanti.... Che bel luogo, per bacco, proprio fatto apposta per
venirci a espiare i peccati del carnovale! Che paturne tutti quei
poveri uffiziali, quando guardavano col viso contro i vetri la neve
che calava a fiocchi serrati sulla valle bianca e deserta, pensando
alle belle signore del _Teatro Regio_ e ai veglioni chiassosi dello
_Scribe_!
*
* *
Levammo il cannocchiale dalla cannoniera, e ci rimettemmo a guardare
la fortezza, la quale è anche più bella e più strana vista di lassù,
che guardata dal basso. Si vedon tutte quelle rocce e quei muri che
vanno giù come a salti, a trabalzi, a brusche svoltate, presentando
mille angoli e scorci di ridotte, di piattaforme, di ponti, di vôlte,
di strade tortuose, di fossati profondi, ma così tutto erto, stretto,
chiuso, spaurevole, che a un nemico d'Italia salito là, dovrebbe
riuscir molesto fino il pensiero di avere un giorno tra i suoi rampolli
un generale incaricato dell'investimento. Non è possibile, guardando
al basso, sprigionar la mente dall'immaginazione d'una lotta tremenda,
tanto ogni forma e ogni aspetto del mostruoso edifizio esprime
possentemente la minaccia, la resistenza e la morte. Sempre par di
sentire ruggire di sotto le batterie, o di veder tra le rocce e le
casematte rimbalzare le granate degli assedianti sollevando tempeste
di schegge, e soldati boccheggiar per le scale, e giù nella valle, e
pei fianchi dei monti, saltar in aria cassoni d'artiglieria, e masse di
truppa sbaragliarsi urlando per i boschi, sparsi d'affusti stritolati
e di membra umane. E si gode a pensare che tutta quella forza immobile
e salda, che quella montagna pregna di fulmini, è nostra, veglia
alle porte di casa nostra, pronta a vomitare l'inferno al primo grido
d'allarme. Si gode a palpare amorevolmente le pietre della cannoniera
a cui s'è appoggiati, estendendo la carezza col pensiero a tutto il
lunghissimo mostro accovacciato, e dicendogli: — Buona guardia, vecchio
gigante solitario. — Ma non è già solitario il vecchio gigante. La sua
solitudine non è che apparenza. Egli ha delle corrispondenze segrete e
degli accordi misteriosi. Ha dei fratelli, dei figli, delle avanguardie
ardite, delle vedette perdute nelle nebbie, delle sentinelle morte
che sporgono il capo fra le bricche lontane, una famiglia invisibile
di là, muta e vigilante come lui; e ad un cenno suo, altre cime di
monti lampeggiano, altri dirupi fumano, altri valloni rimbombano. Ah!
è un'orchestra bene affiatata, un concerto, vi assicuro io, da far
tremare le budella in corpo anche ai più arditi. Ora sta qui, mogio,
cogli occhi socchiusi, a fare il gattone, godendosi il caldo del sole.
Ma vi consiglio di lasciarlo in pace. Come dev'esser bello, come deve
tramutarsi tutto in un lampo al primo sentore della polvere! Ecco, un
brivido acuto trascorre dal forte delle valli giù fino al fortino di
Carlo Alberto, un ronzìo come di enorme alveare si spande per tutti
i meati, i soldati precipitano e risalgono per le cento scale come
caprioli, i cannoni di rinforzo s'arrampicano rumoreggiando su per la
strada coperta, i colossi di acciaio avanzan la testa sui precipizi,
le feritoie si animano di sguardi umani, i fili elettrici parlano, le
casematte si spalancano, i ponti cigolano, le bandiere s'innalzano,
mille occhi e mille mani scrutano, tastano, raffermano, serrano,
sbarrano.... E poi succede un profondo silenzio, nel quale tutti si
scambiano con lo sguardo un solo pensiero: — Fino alla morte!
*
* *
Di lassù si ridiscese alla ridotta di Sant'Elmo, in compagnia di
alcuni bravi sott'ufficiali, e si entrò in una curiosa cantina
formata da uno stanzone lungo e affumicato, con un palco a tetto di
grosse travi, bassissimo, da cui spenzolavano delle pelli di capra
piene di vino: un quissimile d'osteria da quadro fiammingo, tenuta
da un cantiniere singolare, un tipo da Steen, punto cerimonioso,
come s'addice a un cantiniere di fortezza, e grave, come se avesse
proprio lui nelle tasche le chiavi delle porte d'Italia. Eppure mi
parve che ci si dovesse provare un certo gusto a star là appallottati
accanto al fuoco, con un pipone in bocca, le sere d'inverno, quando
fa un freddo da spaccar le pietre, ed urlano per i monti le fiere
immaginarie del cardinal Pacca. Rimanemmo là un pezzo, trattenuti,
come dice il Boccaccio, dalla “piacevolezza del beveraggio„ e dalla
conversazione arguta dei nostri ospiti. Uno dei quali, particolarmente,
un furiere còlto e cortese, ci fece un'uscita amenissima. Domandato
di che provincia fosse, ci disse il nome d'un comune del Piemonte,
soggiungendo: — Dove villeggiò il tal dei tali. — E il villeggiante,
per l'appunto, era uno di noi due. Ma avendogli detto l'altro: —
Eccolo qui il tal dei tali. — Che! rispose lui, facendo un gesto
molto espressivo, _non lo credo neanche se mi dànno centomila lire_.
— Non avendo la somma disponibile per tentare la prova, si cercò di
persuaderlo per altre vie, e dopo molto stento, ci parve di esserci
riusciti; ma tanto egli continuò a guardarci tutti e due con un certo
risolino diffidente, come se volesse dire: — Eppure, loro signori
m'hanno l'aria di due famosi _farceurs_! — Un compagno suo, meno
incredulo, ci raccontava intanto le piccole maraviglie dei piccioni
del forte. Egli era incaricato di ammaestrarli. Portava con sè ogni
settimana il suo gentile drappello alato in villaggi di volta in volta
più lontani, dava loro il largo in mezzo a una piazza, e poi se ne
tornava a Fenestrelle, dove i suoi allievi erano arrivati molte ore
prima di lui, dopo aver percorso ottantamila metri in sessanta minuti.
Raramente arrivavan tutti; alcuni cadevan per viaggio, fulminati dai
cacciatori; altri si smarrivano, o andavano in cerca d'avventure,
e giungevan più tardi; ma la maggior parte, dopo fatto qualche giro
incerto sopra la piazza, infilavano la via diritta e tornavano alla
fortezza d'una volata sola. E il sergente ci indicava dalla finestra,
giù nel forte di San Carlo, la sua colombaia, non dicendo, ma pensando
forse con ragione: — Faccio anch'io qualche cosa per il mio paese: gli
educo dei servitori utili, disinteressati e fedeli.
*
* *
Dal forte di Sant'Elmo scendemmo per una strada esterna, che fa
trentasei svolte a traverso a un bosco di pini cembri, in mezzo a
cento varietà di campanule, di serpilli, di scabiose, di fiori alpini
d'ogni colore, alla vista dei quali, essendo la strada ineguale e
sassosa, dovetti rinunciare, con grande rammarico, per dedicarmi tutto
quanto alla conservazione della mia dignità verticale. Alla _Rosa
rossa_ trovammo una tavolata di gente della montagna, che discorrevano
ad alta voce nel loro bizzarro dialetto, misto di piemontese, di
francese e di provenzale, non sgradevole all'orecchio, e pieno di
immagini colorite. Parlavan d'ufficiali francesi travestiti, che
gironzavano nei dintorni. Là, vicino alle frontiere, il sentimento
patrio è costantemente eccitato dalla memoria sempre viva delle guerre
francesi, e più da quello incrociarsi di piccole curiosità sospette,
di piccole diffidenze e di dispetti, che è quasi continuo fra le terre
confinanti di due grandi Stati, anche in tempo di buon'armonia. Vi
si parla quasi sempre della guerra, come d'un avvenimento non solo
probabile, ma vicino. E ciascuno vigila per conto proprio. Il servizio
d'informazione si compie spontaneamente con una così oculata prontezza,
che se un forestiero di dubbio aspetto fa colazione la mattina alle
nove in un'osteria del confine, al forte si sa che cos'ha mangiato
prima del cadere del sole. Il forte è l'oggetto di tutti i discorsi,
l'argomento che casca sul tappeto a tutti i propositi, l'immagine che
s'alza dietro a tutte le immagini, come nei villaggi marittimi il mare.
I fenestrellesi lo guardano e lo accennano con un'espressione mista di
rispetto, di affetto e d'alterezza. Sono ancora vecchi piemontesi del
tempo di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III, affezionati ai
loro monti, alteri delle loro tradizioni, soldati in ispirito, devoti
alla dinastia, e bevitori cordiali di un vino limpido e schietto,
che fa sgorgare dai loro cuori in note stridule e gaie la canzone
patriottica dell'Assietta. Con che piacere siamo stati un'ora in mezzo
a loro, a sentirli ragionar della difesa d'Italia con un sentimento
di fede e di orgoglio! E come son belli sempre quei piccoli alberghi
di cittaducce solitarie, coi loro cortiletti ingombri di barroccini
colle stanghe all'aria, pieni di gente e di strepito all'arrivo delle
diligenze, e profumati di arrosto e di fieno, e risonanti di latrati
di cani e di nitriti di cavalli. Quando si riparte a notte fitta, con
la lanterna accesa e con le coperte sulle ginocchia, le schioccate
d'avviso del vetturino fan sempre nascere un rimescolìo: i bimbi
accorrono, gli avventori s'affacciano alle finestre col tovagliolo
al collo, le ragazze della casa vengono ad augurare il buon viaggio,
e i saluti hanno qualche cosa di cordiale e di poetico, che non si
ritrova da nessuna parte viaggiando per le strade ferrate. Questo
dicevamo, il mio amico ed io, percorrendo rapidamente la lunga via
maestra di Fenestrelle, allegri e soddisfatti della nostra giornata;
ma lo spettacolo della enorme fortezza nera che disegnava i suoi
contorni superbi sul cielo stellato, ci fece tacere improvvisamente.
E s'espresse forse nell'animo di tutti e due con le parole medesime il
saluto silenzioso che le mandammo entrando nell'oscurità della valle.
Addio, bella ròcca italiana, baluardo fidato delle nostre Alpi! Noi
forse non ti vedremo più. Ma tu starai dopo la nostra vita, e dopo
quella dei nostri figli, e dei figli loro, guardiano immobile e superbo
della nostra indipendenza e del nostro onore. Affòrzati ancora, e
continua a dilatar le tue membra, come un adolescente titano. E se
verrà il giorno della prova, possa essere per te un giorno di gloria
splendida e pura come la neve delle tue montagne quando vi batte il
sole di primavera, e il tuo nome diventi sacro alla patria, e da tutti
i cuori d'Italia si levi il grido della gratitudine a benedire le
pietre dei tuoi bastioni e il sangue dei tuoi difensori.


EMANUELE FILIBERTO A PINEROLO

Il signor Giovanni Battista Lombriasco, notaro di Pinerolo, buon
cristianaccio, scarso di clienti e di fortuna, ma assestato nei
suoi affari, onesto fino alla dabbenaggine, patriotta di cuore,
infarinato di latino, e ancora forte e florido benchè scendesse già
dalla parte peggiore della sessantina, era tutto glorioso quando si
poteva mostrare sul terrazzino del suo piccolo quartiere di piazza San
Donato in compagnia di Don Enrique de Benavides, nobile catalano, suo
cliente. E non gli passava nemmeno per il capo che i maligni potessero
attribuirgli il matto proposito di convertire il cliente in genero.
— “Tanto non lo accecaua la uanità di padre che a tale sposalitio
potesse riuolgere sue speranze.„ — Così dice (e io ci credo) uno
scartafaccio giallognolo, pieno di raspatura di gallina, col quale
un nipote del buon notaro intese di mandare alla posterità un “caso
molto mirabile„ seguìto nella sua famiglia; scartafaccio che dormì
per più di tre secoli, sotto molte altre carte mal decifrabili, in
mezzo agli atti consolari della città di Pinerolo. Il nobile Enrique
de Benavides, venuto qui da Gerona per la questione intricata d'una
eredità lasciatagli da un parente di sua madre, colonnello francese,
non si capisce se Mortier o Mornier, del presidio di Pinerolo, aveva
affidato l'affare proprio al notaro Lombriasco per la riputazione
d'uomo integerrimo di cui godeva; ma avrebbe potuto attestare alla
città intera che un mese e più dopo il primo abboccamento, e quando già
s'era stabilita fra loro una certa dimestichezza, il delicato notaro
non gli aveva ancora fatto parola della sua famiglia. La relazione era
nata per puro accidente. Un giorno che il Benavides stava ad aspettare
nello studio notarile, la señorita Evelina, certa di trovarci suo padre
solo, era entrata festosamente, d'un salto, tenendo spiegata davanti
a sè una stampa che rappresentava la battaglia di San Quintino, e che
le era arrivata allora per le poste, desiderata da lungo tempo. Visto
appena quel signore, aveva fatto l'atto di ritirarsi, vergognandosi e
chiedendo scusa; ma era rimasta come inchiodata là dalla maraviglia e
dalla gioia quando il signore catalano, letto di sfuggita il titolo
vistoso della stampa, aveva detto in tuono di gentile rispetto, e
con molta semplicità: — Si occupa della battaglia di San Quintino,
señorita? Io ci sono stato.
*
* *
Così il Benavides aveva fatto conoscenza della famiglia; e da quel
giorno, ogni volta che usciva dallo studio del notaro, attraversava il
pianerottolo per salutare la signora e la signorina; con le quali anche
s'intratteneva sovente. La signora, già tutta grigia, sempre malata,
non apriva bocca che di rado, con un sorriso triste, un poco vergognata
di non saper parlare l'italiano, che il Benavides parlava assai bene,
benchè “prononziando„ dice il manoscritto “al modo delli spagnioli.„
La signorina, invece, interrogava continuamente, e l'oggetto delle sue
interrogazioni era sempre il medesimo.
Come ogni piemontese d'allora, al quale non mancasse affatto il senso
dell'alterezza e dell'amor di patria, essa aveva un'affettuosa,
profonda, appassionata ammirazione per Emanuele Filiberto. Nata
sotto la dominazione straniera, della quale aveva potuto vedere
fin dall'infanzia gli effetti miserevoli; educata da suo padre,
un po' corto ma generoso d'animo, alla pietà e all'amore del suo
paese oppresso, smembrato, impoverito da spagnuoli, da svizzeri e da
francesi; facile per gentilezza innata ai grandi entusiasmi, aveva
cominciato a venerare il duca di Savoia all'età di dieci anni, quando
aveva visto la sua città fremere di gioia all'annunzio sfolgorante
della vittoria di San Quintino; e la sua venerazione giovanile per quel
principe glorioso che dai confini di Picardia faceva balenare come una
speranza la sua spada vincitrice alla patria lontana, le era venuta
crescendo nel cuore, coll'ingigantire di quella gloria, fin che oramai
essa viveva tutta di quell'affetto, e della fede di veder entrare un
giorno nella sua città rifatta libera e piemontese il “grande„ duca
di Savoia. Suo padre si ricordava d'averlo visto a Nizza nel 1535,
un anno prima della caduta di Pinerolo, in compagnia di Aimone di
Ginevra, barone di Lullins, suo precettore, quando non aveva che sette
anni, e lo chiamavano il cardinalino, perchè destinato al sacerdozio;
e lo descriveva: piccolo, gracile, d'aspetto pensieroso e nobile.
Ma non poteva dare null'altro in pasto alla curiosità ardente della
figliuola, smaniosa di ragguagli minuti intorno al capitano, al sovrano
e all'uomo; e però essa affollava di domande, timide, ma incalzanti,
lo straniero benvenuto, facendosi rimproverar sovente da sua madre,
alla quale pareva poco conveniente a una ragazza e poco rispettosa
per un nobile quella perpetua interrogazione. No, a lei non pareva
possibile che quel signore, col quale parlava, avesse proprio veduto
e inteso parlare Emanuele Filiberto a pochi passi di distanza, su quel
campo di battaglia famoso, dov'egli aveva tenute in pugno e decise le
sorti della Spagna e della Francia, pigliando in una sola formidabile
retata tutto il possente esercito del conestabile di Montmorency. Era
nondimeno vero, grazie a Dio; il Benavides, ufficiale a diciott'anni,
aveva fatto parte del seguito del barone di Brederode, morto a San
Quintino; era stato testimonio dell'atto superbamente ardito del Duca,
quando, la mattina del dieci agosto, cacciatesi dentro alla corazza,
senza leggerle, le relazioni dei generali che gli stavano attorno,
tutti concordi a consigliarlo di non attaccare battaglia, aveva gridato
ai trombettieri, alzando la spada: — Sonate l'assalto! — l'aveva visto
correre in aiuto, lanciando il cavallo a pancia a terra, ai conti di
Egmont e di Pandeveaux, che stavan per essere soverchiati; avrebbe
potuto disegnare pezzo per pezzo la sua armatura, e sapeva imitare
benissimo la sua pronunzia spagnola, che risentiva più della francese
che dell'italiana. Ma dunque, com'era proprio, a ventinove anni, il
duca Emanuele Filiberto? Come si moveva? Come guardava? Che voce aveva?
E il Benavides doveva ridire per la decima volta le medesime cose.
Non alto di statura, saldo e bello delle membra, una testa scultoria,
i capelli biondi un po' increspati, due piccoli occhi celesti
acutissimi e scintillanti come due punte di spade, la barba folta
e corta, il petto largo e sporgente, le braccia atletiche, le gambe
leggerissimamente arcate, la voce, il passo, il gesto d'un uomo nato
per comandare e per combattere, e per esser più temuto che amato; e
pure una grazia meravigliosa d'atteggiamenti e di mosse. Nessuno aveva
mai visto sui campi di battaglia un cavaliere più principescamente
soldato di lui. Desto e armato avanti all'alba, infaticabile,
abborrente dall'immobilità come da una tortura, parchissimo di
parole, irremovibile nei suoi propositi, frenava gl'impeti di collera
mordendosi a sangue le labbra, dava con un'occhiata o con una parola
delle lodi che inebbriavano l'anima, degli ordini che mettevano la
furia nelle vene e dei rimproveri che facevano tremare le ossa. Ed era
terribile, ma giusto, e rivelava spesso in atti secreti di clemenza
la bontà che non si lasciava mai uscire dalle labbra. Chi gli leggeva
nell'animo lo amava, timidamente ma con devozione ostinata. Era colto:
conosceva il tedesco e il fiammingo; parlava spagnuolo, italiano
e francese; sapeva di latino, studiava le istorie, s'occupava di
scienze. Gli eserciti che gli avevan posto il nome di “testa di ferro„
lo veneravano pure come un sapiente. Gli spagnuoli lo chiamavano _el
sabio_. — O renderà l'anima sopra un campo di battaglia, o rialzerà
la monarchia dei suoi padri — dicevano. Fin da quando sotto le mura di
Ternaux aveva con una stretta della sua implacabile mano ridisciplinato
in un giorno l'esercito tumultuoso di Carlo V, tutti avevan presentito
vagamente ch'egli era mandato da Dio a compiere grandi cose. E quando
passava per i campi a cavallo, in mezzo a quei baldanzosi reggimenti
spagnuoli e fiamminghi, non prorompevano in acclamazioni e in evviva
ch'egli non amava, ma gli facevano intorno un vasto spazio e un grande
silenzio, in cui si sentiva il suono della sua armatura e il respiro
del suo cavallo, e mille sguardi attoniti accompagnavano il suo
pennacchio bianco fin che spariva in mezzo alle tende lontane.
— Un nobile principe, _verdaderamente_, concludeva il Benavides.
— Se la Spagna deve benedirlo, il Piemonte lo può adorare. — E la
signorina stava a sentire, immobile, sorridendo per nascondere la
commozione, e stropicciando con le dita la borsetta e le forbici che le
pendevano dalla cinturina di cuoio; e la sera, quand'era sola nella sua
cameretta, alzava il lume davanti a un piccolo ritratto a stampa del
duca, e gli diceva ingenuamente, con voce calda e tremola, quello che
le dettava l'anima. — Tu ci renderai alla patria, Emanuele Filiberto,
non è vero? Tu ti farai restituire la tua città fedele, che non t'ha
mai visto, ma che t'ha sempre amato e invocato! Tu ci pensi a noi, tu
ci pensasti sempre, tu la vuoi a qualunque prezzo, e la ripiglierai
con la spada, se occorre, la tua Pinerolo, non è vero? mio valoroso,
mio nobile, mio superbo principe, gloria del nostro sangue e speranza
del nostro paese! — Ed era così bella in quell'atto, stretta nella sua
veste di lana oscura, con la sua gorgierina di mussola che le s'alzava
a ventaglio dietro la nuca, col viso un po' inclinato sopra una spalla,
e così grande e così bionda, che se il duca di Savoia l'avesse vista,
avrebbe forse proposto a Margherita di Valois una nuova damigella
d'onore.
*
* *
Quella sua adorazione per Emanuele Filiberto era il tormento di un suo
cugino, Antonio Lombriasco, che faceva le pratiche di notaro nello
studio del padre, facendo nello stesso tempo, e con non maggiore
profitto, l'occhio pio alla figliola. Il nipote cronista si piglia
molto spasso di lui, celiando un poco pesantemente, alla maniera dei
novellisti del suo tempo. Lo definisce: “giouine di grosso intendimento
e di picolo e poerile animo„ soggiungendo poco dopo “di rideuole
aspetto.„ Pare che fosse un mezz'uomo, stentito e vanesio, con un
gran naso rincagnato. Persuaso che il duca di Savoia fosse la sola
cagione per la quale sua cugina rifiutava come un omaggio molesto
il suo giovane cuore notarile, egli aveva preso a odiarlo come un
rivale e come un nemico. Quel nome di Emanuele Filiberto, ogni volta
che l'udiva pronunciare, gli metteva un bruciore intollerabile alla
bocca dello stomaco, e San Quintino era per lui il più infausto santo
del calendario. Da principio, per gratificarsi la signorina, aveva
finto anche lui una profonda ammirazione per il Duca, e provato a
rincarare le lodi ogni volta che glie le sentiva intonare; ma lo
faceva di così mala grazia, con una voce così ingrata, che invece
di entrarle nel cuore con quell'artificio, s'era fatto pigliare in
uggia peggio di prima. E allora aveva mutato registro; s'era ingegnato
per un pezzo di scalzare e di abbattere il suo rivale rodendo a poco
a poco col dente della critica la sua grandezza e la sua gloria. —
In fin dei conti, la battaglia di San Quintino l'aveva vinta con un
esercito spagnuolo; la vittoria di Gravelines era principale merito
del conte di Egmont; il Piemonte si trovava sempre in pessime acque;
Asti e Santhià erano ancora in mano degli spagnuoli; il “grande„
Duca non aveva nè fatto trionfare le sue ragioni sopra Ginevra, nè
ritolto alla Francia Pinerolo, Savigliano e Perosa; era certamente
un principe “considerevole„ ma non si poteva chiamare ancora “un
grand'uomo„; bisognava aspettare dell'altro. — Ma la signorina lo
rimbeccava terribilmente. — Tacete! — gli gridava coi denti stretti,
tutta vermiglia d'ira, facendo sibilare col suono d'una lama mulinata
il suo rapido e vigoroso dialetto subalpino — è la più insensata, la
più iniqua delle ingratitudini la vostra. Fin da ragazzo egli s'è
consacrato tutto alla sua patria; egli è andato in esilio per noi;
egli ha ereditato un paese in pezzi e in brandelli, e ne ha fatto uno
Stato; è lui che ha riscattato Torino, Chieri, Chivasso, Villanova,
la Savoia, le provincie del Genevese e del Chiablese; è lui che
ha fondato l'esercito, lui che ha rialzato le fortezze, lui che ha
costrutte le galee che vinsero alle Curzolari, lui che ha riordinato
gli statuti, ristorato l'erario, rianimati gli studi, rilevata
la dignità nazionale e riacceso l'amor di patria.... scimunito. —
L'ultima parola era piuttosto pensata che detta; ma il povero cugino
che l'indovinava, ne rimaneva fulminato. E allora, per qualche
giorno, tentava un'altra via, la cosa più ridicola di questo mondo,
una certa imitazione d'ammiratore, o piuttosto uno scimmiottamento
di certe abitudini e qualità esteriori del Duca: si levava presto,
andava a giocare alla palla sui bastioni per fortificarsi le membra,
sdegnava di aver qualsiasi riguardo per la salute, ruminava dei grandi
pensieri, e parlava a monosillabi. E per un po' di tempo l'esperimento
non riusciva male. Ma poi, un giorno, un dialogo di questa specie lo
rovinava. La signorina domandava: — In che stato sono le strade? —
Egli rispondeva: — Fango. — Ma pare che il tempo si rimetta? — Pare.
— Potremo andar domani all'Abbadìa? — Forse. — Credete che ci sarà
molta gente? — Credo. — Una cordiale risata della cugina lo avvertiva
spietatamente che il suo gioco era scoperto, e gli riattizzava in
cuore un odio rabbioso contro la _testa di ferro_. E l'aveva trovato,
finalmente, il lato vulnerabile del Duca e della ragazza: censurava
il Duca come marito, accennava vagamente alle sue amanti, una signora
di Vercelli, una Doria, una Beatrice Langosco; e diceva di saperne
assai più che non ne sapeva. A quelle uscite, la signorina alzava le
spalle, ma corrugando la fronte e chinando il capo, e rispondeva: —
Questo riguarda la Duchessa... se è vero.... — Ma le rimaneva una punta
nel cuore, e non si tornava a rasserenare che riudendo la voce del
Benavides, il quale le ripresentava l'eroe savoiardo nella luce pura
della sua gloria.
*
* *
Ma non era possibile che una signorina piemontese appassionata per
Emanuele Filiberto udisse parlar lungo tempo del suo idolo un bel
gentiluomo catalano di trentacinque anni, senza che le nascesse nel
cuore, come un rampollo dell'antica passione, una nuova simpatia. Il
Benavides aveva perduto da pochi mesi la madre che adorava. La sua
tristezza, aggiunta alla naturale gravità catalana; il pallore marmoreo
del suo viso regolarissimo, reso anche più pallido da una capigliatura
d'un nero orientale, e da una barba poderosa che gli saliva a metà
delle guance e gl'invadeva il collo e le tempie; la dignità gentile dei
suoi atteggiamenti e dei suoi modi, la sua voce robusta e melodiosa,
le misero a poco a poco una certa timidezza dolce nel cuore. Aveva
una strana bellezza quello straniero. Era un colosso, con l'eleganza
leggiera d'un giovanetto; i suoi occhi fulminavano, e la sua voce
accarezzava; aveva le membra d'un Ercole, e non faceva sentire il
suono del suo passo. Passati i primi giorni, quando si presentava
nel vano della porta, ch'egli riempiva tutto, e restava un momento
immobile con la cappa sul braccio, chinando il mento sul collaretto di
trina di Venezia, che gli si allargava sul giustacuore nero, Evelina
provava una sensazione nuova e quasi dolorosa, come di due piccole ali
che si agitassero rapidissimamente dentro al suo seno. E n'era quasi
sdegnata con sè stessa. Il pensiero della grande diseguaglianza che
era fra loro di fortuna, di nome, di famiglia, di tutto, le faceva
scattare dentro tutte le forze ribelli del suo orgoglio di donna;
di quell'orgoglio che soffoca e nasconde come una vergogna l'affetto
senza speranza, sul quale potrebbe cader l'accusa di ambizione sciocca
e impudente. Il Benavides, dal canto suo, compreso della riservatezza
delicata che gli imponeva in quella casa la superiorità del suo stato
e la nobile prestanza della sua età ancor giovanile, nascondeva di
proposito anche quel naturale sentimento di simpatia tranquilla che
la ragazza gli ispirava, e che ad ogni uomo è permesso di esprimere,
o di lasciar indovinare, a qualsiasi donna. Il suo aspetto e i suoi
modi non significavano che una gentilezza seriamente rispettosa, la
quale avrebbe reso impossibile ogni illusione anche nel cervello di una
señorita meno assennata e meno dignitosa di Evelina. Egli aveva l'aria
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