Alle porte d'Italia - 15

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il consenso di Chambéry, che si diceva che c'eran due Re, che tutto,
tutto faceva presentire quasi inevitabile e di giorno in giorno più
certo quello che da principio s'era solamente temuto? Io ho spinto
Vittorio Amedeo! Ma non sapevan dunque più com'era nata e cresciuta
l'acrimonia del padre contro il figliuolo, prima perchè avevan cessato
di mandargli il bollettino delle notizie, poi, per la legge delle
catastazioni in cui non avevano fatto a modo suo, poi per la questione
di Roma in cui non avevan chiesto il suo parere? Non avevan lette le
sue lettere sempre più concise, sprezzanti, irritate, minacciose? Non
sapevan dal conte Petiti, che ci veniva in casa in aspetto d'amico,
tutti i discorsi che egli faceva, furiosi contro Carlo Emanuele? Aveva
mai potuto riferire una mia parola detta a mal fine, il signor conte?
E c'era forse bisogno che la dicessi? E il peggior rimprovero che
mi abbia fatto Vittorio Amedeo, in que' suoi ultimi tristi giorni di
Moncalieri, non è forse stato di non essermi opposta al suo disegno, di
aver semplicemente taciuto in quella malaugurata notte del Moncenisio,
quando egli mi domandò se doveva proseguire il viaggio o ritornare
in Savoia? Se avesse avuto un eccitamento, un cattivo consiglio da
rimproverarmi, si sarebbe contentato di rimproverarmi il silenzio?
Mi accusano di aver ordito la trama! Ma quale trama, Dio giusto, se
Vittorio Amedeo scese in Piemonte come un fanciullo, senza aver nulla
preparato, senz'aver cercato un aiuto, senz'essersi fatto un complice,
senza saper neppure quello che si voleva? Che prove, che indizi d'una
trama si son trovati nelle sue carte? Chi fece un passo, chi disse una
parola per favorire il suo proposito? Si può pensare che io l'avrei
lasciato correre a una simile impresa in quel modo, se ci avessi messo
la mano? Dove sarebbe stato l'accorgimento, allora, la malizia fine e
profonda, di cui mi accusarono? Avrei dovuto oppormi almeno, dicono,
trattenerlo, persuaderlo. Ipocriti! Essi sapevan bene che il mio impero
sopra di lui era già finito da un pezzo, che dopo i primi mesi di
solitudine l'amore era volato via, che non era più lo stesso Vittorio
Amedeo dopo l'insulto apoplettico del cinque di febbraio, che la mia
parola non trovava più la via del suo cuore, che già aveva cominciato
a contraddirmi, ad aspreggiarmi, a impormi tutti i suoi voleri;
ch'io non ero più che una povera infermiera al suo fianco! Ma chi non
comprende, cominciando da quel disgraziato giorno dell'apoplessia,
chi non vede in tutti i suoi atti, nella sua condotta a Moncalieri,
nelle sue imprudenze puerili, nei suoi discorsi contradittorii, nelle
sue esitazioni, nelle sue povere collere d'infermo, chi non riconosce
il corso, il progresso lento e costante d'una malattia della mente,
che doveva finire, che finì con l'insensatezza, e per cui sarebbe
stato inutile, se non sarebbe stato peggio, qualunque mio tentativo
di persuasione? Certo, io ho desiderato che abbandonasse il soggiorno
di Chambéry, perchè vedevo che quella solitudine lo rattristava, che
quell'aria non gli giovava, e che in quel viver così soli noi due,
io andavo perdendo il suo affetto, e affaticandolo quasi con la mia
presenza. Io ho desiderato, e l'ho consigliato nei primi mesi ad
accogliere le offerte di Carlo Emanuele, e a ritornare in Piemonte.
Ma consigliarlo a cacciar dal trono il figliuolo, a turbare il suo
popolo, a versare del sangue, a compromettere la mia patria, io, per
essere regina, a cinquantadue anni! e una regina accagionata di mille
mali, invisa ai miei sudditi, odiata dalla corte, disprezzata dai miei
pari, maledetta dal futuro re! E regina per quanto tempo? E poi? E
voi l'avete creduto? E mille e mille l'hanno potuto credere? E quasi
tutti lo credono ancora? È un'ingiustizia! Io ho l'anima pura di questa
colpa, lo grido al mondo! ne attesto il cielo! lo giuro per la memoria
de' miei figliuoli!
— Si valse sempre della sua autorità a vantaggio del monastero, —
continuava dolcemente la superiora; — in molte occasioni ci ottenne dei
favori e delle protezioni. Aveva conservato la sua ricca dote; spendeva
largamente perchè le feste religiose si celebrassero con pompa. Si
adoperò molto, fra l'altre cose, per la canonizzazione della nostra
Giovanna Chantal, ch'era stata nel monastero il secolo innanzi....
— Ma fossi anche stata colpevole, — ripigliò la marchesa, — avrei
meritato il castigo con cui mi schiacciarono? Sarebbe bastata una
sola notte, quella orrenda notte di Moncalieri, all'espiazione d'ogni
colpa. No, non fu giustizia, non fu umanità; mai, mai si troverà una
onesta parola per scusare quell'abbominio. Per molti anni, a ogni
rumore ch'io sentii, di notte, mi svegliai atterrita, e mi voltai
verso la porta come per veder cadere i battenti sotto i colpi delle
accette, e apparire il Conte della Perosa, gli ufficiali delle guardie
e le torce.... Con le spade nude e con le baionette circondarono
il letto! Ah! non si descrive, non s'immagina quello ch'è accaduto.
Il re si avviticchiò disperatamente a me; io credei che mi restasse
morto fra le braccia; ci separarono a forza, mi lacerarono i panni, mi
trascinarono sul pavimento, seminuda, fuori della stanza. Io non vidi
più nulla; ma sentii! Resistette. Pregava i suoi granatieri: Ma voi,
miei bravi soldati, che m'avete servito fedelmente, che m'avete visto
combattere cento volte in mezzo a voi, soffrirete che si tratti così
il vostro vecchio re?... — Mi si schiantava l'anima. Tutto fu inutile.
Orrore! Gli misero le mani addosso! a lui! al vincitore di Verrua, al
liberatore di Torino, che aveva regnato per cinquant'anni e condotti
in dieci guerre gli eserciti della lega europea! le mani addosso, come
al più vile dei malfattori! Sentii lo strepito della lotta, le grida;
lo portaron via ravvolto nelle coperte; udii morir la sua voce che mi
chiamava: Dov'è la marchesa? dov'è mia moglie? Carlotta! Moglie mia!
Guardai giù dalle vetrate, vidi una selva di baionette, le lanterne,
la carrozza.... Ebbene, sì, feci un terribile voto allora, mi balenò
una triste speranza quando intesi il mormorio dei granatieri, indignati
di vederlo cacciare in carrozza come un condannato a morte, sotto le
pistole dei dragoni, e quando il La Perosa gittò quel sinistro grido:
Morte a chi parla! — Desiderai che i reggimenti si ribellassero e
lavassero quell'infamia col sangue.... Me le sentii passare sul seno le
ruote di quell'orribile legno, quando lo vidi sparire nelle tenebre,
come un feretro trafugato. Tutto era finito. Credetti di sognare. Una
così nefanda cosa mi pareva impossibile. Mi pareva che avrebbe dovuto
crollare il palazzo, aprirsi la terra, sconvolgersi il mondo. Avrei
voluto cader morta fulminata. Fossi pur morta! A un altro più tremendo
dolore sarei sfuggita. Raccapriccio ancora; il mio cuore fa ancora
sangue e fuoco a quel ricordo. Nella fortezza di Ceva m'hanno portata!
Sì, gran Dio. Una gentildonna onorata, la moglie del vecchio re, la
sposa di Vittorio Amedeo, nella fortezza di Ceva; vigliacchi!.... in
mezzo alle prostitute!
— Tutti ricorrevano a lei, — mormorava intanto la superiora; — ella
beneficava e confortava tutti. Alle porte del monastero veniva ogni
giorno una folla di poveri, che se n'andavano sempre via benedicendola.
E non dava solamente soccorsi in denaro. Scriveva lettere di
raccomandazione ai parenti e ai conoscenti lontani, alcuni dei quali
occupavano alte cariche e insisteva con tanta bontà e con preghiere
così affettuose....
— Oh! come si riconosce in tutto questo, — continuò la marchesa, — la
viltà degli uomini che diventan feroci e implacabili per paura! Perchè
fu per paura, che il ministro d'Ormea, coi suoi complici, suscitò
nel cuore di Carlo Emanuele i più iniqui sospetti e lo spinse alla
barbarie; per paura del suo vecchio re, del suo antico benefattore,
del quale sapeva d'aver provocato lo sdegno; fu per paura, fu per
ambizione di grandeggiare davanti a Carlo, come salvatore dello Stato;
fu per pigliar padronanza su di lui, e appagare il furore malaugurato
di despotismo che lo divorava. Non può esser stato che suo il pensiero
di quello spaventevole arresto notturno, che diede l'ultimo tracollo
alla salute d'Amedeo, come non può esser nata che nel capo d'una donna
l'idea di cacciar me in quella immonda prigione; in capo alla regina
Polissena, a cui ho sempre letto l'odio negli occhi, e che non essendo
capace di pietà, credeva me incapace d'affetto. Io non l'amavo Vittorio
Amedeo! Io non l'avevo amato mai!... Ebbene, è vero; ci fu un tempo in
cui l'ambizione soffocò l'affetto nel mio cuore, dei giorni in cui non
amai che il re nel mio sposo. Me ne accuso e me ne vergogno. Ma quando
ogni ambizione fu morta e la sventura lo colpì.... quando in quella
sciagurata fortezza seppi che il mio povero re, chiuso nel castello
di Rivoli, mi cercava, e interrogava di me con parole supplichevoli
le guardie mute, e mi chiamava ad alta voce piangendo, allora tutto
l'affetto antico si ridestò in me, un amor nuovo, una pietà immensa,
un desiderio di rivederlo, di consolarlo, di gettarmi ai suoi piedi, di
dare il mio sangue e la mia vita per lui. Sì, io l'amai allora, più che
non l'avessi mai amato, con tutte le mie viscere, con tutte le forze
della mia disperazione. E quando mi ricondussero a lui, in quell'eterno
viaggio da Ceva a Rivoli, ringraziai Iddio e piansi di gioia. E quando
arrivai al castello, e vidi tutte quelle sentinelle, quei fossi,
quelle porte murate, quelle finestre a botola, quell'apparato lugubre
di carcere, quando, spalancata la porta della sua stanza oscura e
triste, me lo vidi correre incontro con le braccia aperte, piangendo
come un fanciullo, invecchiato, smagrito, barcollante, sfigurato da
due mesi d'angoscia e di delirio, e pure raggiante per un momento
dalla contentezza di rivedermi, oh allora sì, allora l'amai, allora
gli gettai le braccia al collo con uno slancio d'amore infinito, lo
benedissi cento volte, gli domandai perdono dei miei torti, giurai di
sacrificare tutta la mia vita a lui, di non aver più sentimento, più
pensiero, più respiro che per lui, di non staccarmi dal suo fianco mai
più, di essere sua sposa, sua sorella, sua figliuola, sua schiava,
e gli abbracciai le ginocchia e gli copersi le mani scarne di baci,
singhiozzando da morire. Povero marito mio! Povero mio vecchio re, mio
grande Amedeo infelice! Non aveva più che me al mondo, non gli rimaneva
più del suo immenso passato che il mio povero amore! Abbandonava la
testa tremante sopra il mio seno come sul seno d'una madre, e voleva
ch'io lo coprissi con le mie mani come per proteggerlo. Dio m'ha letto
nel cuore: io mi sarei trascinata in terra fino ai piedi del trono, per
ottenergli un sollievo! Avrei dato la mia carne a brani per riavere un
anno di gioventù e di bellezza! Ma egli m'amava ancora così com'ero,
e s'impietosiva per me, dicendosi cagione di tutti i miei dolori,
e domandandomi perdono; e allora piangevamo e pregavamo insieme,
guardando pei vani dell'inferriata il bel cielo del nostro Piemonte....
E in quei momenti, almeno, non eravamo infelici!
— Fece molti bei regali al monastero, — continuava a dire la superiora,
sempre con la stessa dolcezza; — regalò quasi tutti gli oggetti
che aveva portati con sè: un bacino e una brocca d'argento, un
inginocchiatoio, una tavola d'ardesia nera, che era appartenuta a sua
maestà Vittorio Amedeo. Diede alla cappella maggiore una bellissima
lampada d'argento, tutta cesellata. Istituì una messa settimanale da
celebrarsi nella nostra chiesa il venerdì....
— No, non furono quelli i giorni più tristi. — ricominciò la marchesa;
io li rimpiansi, poi. Ci rimaneva ben altro a soffrire, a tutti due. Oh
quegli ultimi mesi infelicissimi di Moncalieri! A questo supplizio ero
riserbata, di vederlo morire lentamente, perdendo la ragione, ricadendo
nell'infanzia. Che orrende sere, quando egli si trastullava a tavolino
a giochi di ragazzo, ridendo e cantando, ed io lo stavo a guardare,
da un angolo della stanza, per ore ed ore, soffocando i singhiozzi nel
fazzoletto, temendo io pure, a poco a poco, di smarrire la ragione! Che
ore, che giornate passai alle finestre della mia stanza, a guardare
per i vetri i fossi e le palizzate del castello, e quelle pioggie
interminabili, sola, smemorata, aspettando che i cappuccini l'avessero
placato, e ch'egli mi riammettesse alla sua presenza! Poichè era
destino che le mie angoscie crescessero fino all'ultimo giorno, che
egli dovesse a grado a grado prendermi in ira, e poi in odio, chiamarmi
la cagione di tutte le sue sventure, scacciarmi, coprirmi d'insulti,
cercare nella sua mente vaneggiante le parole più crudeli per passarmi
l'anima, farmi morire di vergogna in presenza dei servi, e.... sì,
Dio mio! percuotermi, stamparmi l'impronta della sua mano sul viso,
chiamandomi col più infame nome che si possa gittare in faccia a una
donna! Invano io gli afferravo le mani, e lo supplicavo, ricordandogli
i nostri bei giorni, quando m'aveva vista fanciulla, e quando m'aveva
riamata dopo trent'anni, e le nostre dolci sere del Valentino, e il mio
ritorno a Rivoli, quando mi piangeva sul seno come a una madre! Tutto
era invano! Egli non voleva ricordare, s'esasperava, mi respingeva,
alzava il pugno sopra il mio capo! No, nulla di più orrendo ha mai
sofferto una creatura umana. Tutti i dolori passati eran nulla in
confronto alla vista di quel volto di moribondo, di quell'occhio
insensato e terribile che mi fissava, mentre la lingua paralitica si
sforzava e non riusciva a proferir l'ingiuria sanguinosa che esprimeva
lo sguardo! Dio mio! Dio mio! Quelle notti eterne, quelle furie di
pazzo, quei lamenti di bambino, quei balocchi sparsi, quei carcerieri,
quei frati, quell'aria di morte che spirava da ogni parte.... Nemmeno
il conforto di vegliare il suo cadavere mi fu concesso. Appena spirò,
fui strappata dal suo letto. Ero pure la sua vedova, l'avevo pure
assistito per due anni, me l'ero guadagnato il diritto di restare
accanto al suo letto di morte! No.... io profanavo quella camera, ero
un'intrusa. Dovevo andar fuori, a piangere. Fui spinta fuori. Mi voltai
ancora una volta a dare l'ultimo addio a quel povero corpo.... Poi mi
parve di ritrovarmi sola in mezzo a un immenso deserto oscuro, oppressa
da una stanchezza infinita.... Ma non mi lasciaron riposare lungo
tempo, no.... L'ordine del re non si fece attendere.... Oh! quella
tomba aperta non aveva disposto alcuno alla pietà.... Alla prima parola
compresi e caddi in ginocchio.... Era il chiostro per la vita.
— Fu meraviglioso, veramente, un miracolo del Signore, — continuava
la superiora a bassa voce, — che ella abbia fatto un così grande
cambiamento di stato e di vita, senza dar segno di soffrire, o di fare
un sacrifizio. Qui si aspettavano tutti che sarebbe stata per molto
tempo inquieta e triste, che avrebbe dovuto per molto tempo lottare e
pregare prima di ottenere la pace dell'anima, dopo tanti grandi casi e
infortuni che la conducevano dalla reggia in un monastero. E così non
fu. Essa venne qui come già preparata in cuor suo alla nuova vita, e si
mostrò fin dai primi giorni rassegnata e tranquilla....
— Quelli che parlaron di rassegnazione, allora! — ripigliò la marchesa
con un sorriso amaro. — Rassegnazione! La tortura, l'inferno fu, nei
primi tempi. Il mio cuore faceva sangue per cento ferite.... Dei miei
figliuoli avrei avuto bisogno! E mi segregaron dal mondo. Sì, io ci
speravo nella rassegnazione. Ma non credevo che avrebbe tanto tardato
a giungere. Io non so. Una cosa strana, impreveduta, seguì dentro
di me, quando mi trovai reclusa, scemata appena la grande angoscia
di Moncalieri. La mia immaginazione, sovreccitata dalla solitudine,
passava sopra alle ultime sventure, e ai due anni di Chambéry, e mi
riportava sempre, mio malgrado, ai più begli anni della mia vita,
alle più dolci ebbrezze della mia ambizione, e quasi me ne ravvivava
il senso, e mi faceva sognare a occhi aperti, e mi tormentava, e mi
metteva la febbre. Io non capivo il perchè. Era una pazzia. Ne ero
impaurita. Mi ritrovavo in mezzo alle feste della Corte, disgraziata!
rivivevo nei grandi castelli e nei parchi, rivedevo i tornei, le
cavalcate, le cacce, mille visi, mille larve d'oro, che mi facevan
guardare, toccare le pareti della mia cella con un profondo stupore,
a cui seguiva uno sgomento mortale. E una forza nuova si ridestava in
me, il grido ostinato di una gioventù che non voleva morire, un ritorno
impetuoso dell'antico orgoglio, un'eco, un nuovo soffio inaspettato
di tutte le passioni che io aveva creduto morte per sempre. Volevo
dimenticare, pregare, assopirmi nella mia tristezza, annichilirmi fra
queste quattro mura dove mi avevano calata come una morta; e sognavo,
invece, vivevo potentemente, e soffrivo con tutto il vigore d'una donna
provata per la prima volta dalla sventura. Quello stesso silenzio del
chiostro, quegli anditi bianchi, quelle vesti nere, quei visi color
di cera, quella quiete inalterata delle sorelle, quel mormorìo soave
delle orazioni, mi sollevavano delle tempeste nel sangue. Tutte le mie
ferite si esacerbavano. Un odio mortale mi crescea nell'anima contro
i miei nemici. Perchè m'avevano sepolta? Che cosa avevano a temere da
me, povera donna? Non erano paghi di avere ucciso il re? Volevano far
impazzire e morir me pure, e godere della mia disperazione e della mia
agonia? Non ci potevo credere. Non può durare, pensavo, mi libereranno,
mi lasceranno andare con i miei figli! Guardavo dalla finestra quei
monti e quelle campagne dove aveva combattuto Vittorio Amedeo, e non mi
pareva possibile di dover morir torturata in cospetto di quei luoghi!
Mi pareva ch'egli dovesse sentirmi piangere e accorrere a liberarmi,
e lo chiamavo dentro al mio cuore; avrei gridato il suo nome, se
avessi osato; speravo, l'aspettavo qualche volta, come un'insensata;
baciavo i suoi ricordi, mi stringevo al seno tutte le cose che serbavo
ancora della mia vita passata, singhiozzando delle notti intere, e
poi degl'impeti di furore mi travolgevano il sangue e la ragione, e
soffocavo gli urli contro i guanciali, augurando che sprofondassero
il monastero e la reggia, e che si richiudesse la terra sopra la mia
testa. E poi ricominciavo a piangere e ad adorare il passato!
— Molto anche giovò a mantenerla serena, — continuò la superiora, —
un'altra parente ch'ella trovò qui, una cugina, la marchesa Bianca di
San Germano, che era rimasta vedova a vent'anni, essendo dama d'onore
di sua maestà la regina Polissena, e che aveva preso il velo per
fuggire ai pericoli del mondo. Era una creatura tutta soavità e amor di
Dio, e la marchesa prese ad amarla come una figliuola....
— Ma nessuno mi lesse nell'anima, — riprese a dire la marchesa; — la
vedova di Vittorio Amedeo non mancò alla dignità del suo nome; con uno
sforzo supremo dell'orgoglio io tenni nascosti i miei avvilimenti e le
mie angosce. Nessuna di quelle buone suore, che mi guardavan nei primi
giorni con un sentimento quasi di pietà inquieta e di aspettazione
paurosa, nessuna vide mai sul mio viso un'ombra di rammarico o di
sgomento. Io sarei morta di crepacuore senza tradirmi. Dio m'aveva dato
una forza immensa di soffrire. E poi.... i mesi succedettero ai mesi,
gli anni agli anni.... Il mio cuore si quetò, il mio spirito si staccò
a poco a poco dal mondo. Mi parve che intorno a me si facesse un grande
silenzio. Centinaia e migliaia di quei giorni sempre eguali, interrotti
sempre a quell'ore dal suono della tabella, dal bisbiglio delle
preghiere e dal campanello del parlatorio, mi si confondono ora alla
memoria in un solo giorno interminabile, d'una luce pallida, durante il
quale non sono ben certa d'aver vissuto o sognato. Molte e molte suore
passarono, che rivedo in confuso: dei visi ridenti, dei visi desolati,
dei visi di sante e di martiri, delle vecchie e delle giovinette, e
mi ricordo vagamente di lunghe agonie, di morti improvvise e strane,
e di via vai notturni di monache, fra cui riconoscevo il passo del
confessore. Lentamente, d'anno in anno, il mio cuore si ravvicinava a
Dio. La vista di tutte quelle povere creature che vivevano e morivano
santamente, con una serenità sovrumana, e quella preghiera continua,
infaticabile, eterna, che mi sonava d'intorno e ravviava, rialzava
perpetuamente i miei pensieri verso il cielo, finirono con aprirmi
l'anima alle consolazioni e alle gioie d'una fede che non avevo mai
conosciuta. Cominciai a pregare col cuore, e a sentir cadere sulle mie
mani giunte delle lagrime che mi facevan del bene. Il mondo in cui ero
vissuta non m'appariva più che come una terra lontanissima, dalla quale
m'allontanavo senza posa, inoltrandomi in un mare immenso e immobile.
Il mio passato e il mio presente diventarono come due esistenze
distinte nella mia mente. Mi pareva d'esser passata da un mondo ad
un altro. Non ero neanche ben certa, alle volte, che quel passato
splendido e doloroso fosse veramente mio e non d'un'altra donna ch'io
avessi conosciuta intimamente. Guardavo il mio ritratto con maraviglia,
toccavo la mia tavola d'ardesia nera come per interrogarla, non mi
pareva vero, vedendo della gente di fuori che si fermava a guardare
le mie finestre, mi pareva una cosa strana d'esser io l'oggetto della
loro curiosità, d'esser io quella marchesa di Spigno di cui parlavano.
Un solo affetto mi legava ancora al mondo: i miei figli. Quetate le
tempeste che l'avevan sopraffatto per pochi anni, quell'affetto mi si
era ridestato nel cuore più forte, più dolce ch'io non l'avessi mai
sentito. Essi m'avevano sempre amata, essi dovevano aver sofferto,
avrebbero avuto dei nemici per cagion mia. Io dovevo espiare anche
questa colpa, ricompensarli con tanto amore di quei dolori. E li
amai allora, dal fondo della mia solitudine; li richiamai intorno a
me, li accarezzai con infinito amore nel mio pensiero; li chiamavo a
bassa voce, mille volte, per sentire il suono dei loro nomi, e me li
scrivevo e li baciavo nella mia cella, di notte, e pregavo per loro,
benedicendoli, e piangendo in silenzio, con la speranza che un giorno
avrebbero perdonata e compianta la loro povera madre, e onorata la sua
memoria infelice....
— Passava molte ore sola nelle sue stanze, — diceva in quel momento
la superiora, — e occupava il tempo a cucire e a filare: il monastero
conservò per molti anni due pezze di tela ch'essa aveva filate e
regalate alla superiora. All'occorrenza, aiutava di propria mano la
guardaroba, la sacrestana, e l'archivista, rendeva dei servizi alla
scuola e alla infermiera, e aveva un angolo per sè nel giardino, dove
coltivava dei fiori per l'altare della cappella maggiore....
— Poi, un grande avvenimento scosse la mia vita, — disse la marchesa,
avvivandosi. — Ero nel convento da quindici anni. Ero settantenne,
quasi. Durava la guerra con la Francia da un pezzo. Io stavo in
pensieri per il mio Paolo, il mio primo nato, che comandava il
primo battaglione delle guardie. Aveva trentasette anni, allora, era
tenente colonnello; era sempre stato affezionato a me più degli altri;
pensieroso, dolce come un fanciullo; l'anima più onesta, più gentile
che abbia mai sognato una madre, aspettando il suo primo figliuolo.
Non lo vedevo da molti anni. Ma sapevo che mi ricordava con amore e che
non parlava di me senza lacrime. Ed ecco che all'improvviso la guerra
irrompe dalla riviera sulle Alpi. L'invasione francese è imminente.
I soldati piemontesi accorrono da ogni parte. Pinerolo è in rumore.
Passano le milizie provinciali, passano i battaglioni austriaci,
passa il primo battaglione del reggimento delle guardie. Le guardie!
I soldati che comandava il mio figliuolo. Ne fui avvertita. Li vidi
passare dalla finestra per la via della val di Perosa, con le loro
belle divise vermiglie. Paolo non potè salire a vedermi. Ma io lo
riconobbi, mi parve di riconoscerlo di lontano in mezzo a un gruppo di
cavalieri: egli s'era voltato di certo a guardare il monastero dove la
sua povera mamma stava rinchiusa da quindici anni. Dio mio! Andava a
battersi! Avevano fortificato l'Assietta. Io sapevo bene che le guardie
avevan diritto al posto d'onore sul campo di battaglia, che i più gravi
pericoli gli avrebbero affrontati loro, che le forze della Francia
eran formidabili, e che il mio figliuolo sarebbe stato il primo tra i
più temerari. Il mio figliuolo! Se me l'avessero ucciso! La mia povera
testa si perdeva. Avevo un triste presentimento. Passai dei giorni
con l'anima sconvolta. Le sorelle mi confortavano, pregavano per lui e
per me. Le ore erano eterne. Una mattina, tutt'a un tratto, sentii un
colpo sordo, lontanissimo: non capii subito; ne sentii un altro.... e
caddi fra le braccia di mia sorella e di Bianca di San Germano. Erano
i cannoni francesi. Si battevano all'Assietta. Ci mettemmo a pregare.
Io non connettevo più, non sentivo più nulla. Mi parve che passasse un
tempo sterminato. Non arrivavano notizie. Venne la notte. A mezza la
notte fummo riscosse da un grande rumore della città. Era la notizia
della vittoria! Il conte di Panissera aveva attraversato Pinerolo come
un fulmine, per portar la notizia e un fascio di bandiere francesi a
Carlo Emanuele. Ma il mio figliuolo? Che cos'era avvenuto di lui? Era
ferito! Era morto forse! Non si sapeva nulla! Io morivo d'affanno,
di impazienza, di terrore, volevo fuggire, correre verso i monti,
a cercarlo, a domandare. Ah! finalmente, la grande notizia venne: È
vivo! — Gittai un grido, caddi in ginocchio, ringraziai Iddio. Oh!
io non conoscevo ancora tutta la grandezza della sua grazia. D'ora
in ora sopraggiunsero le altre notizie. — Il conte di San Sebastiano
ha respinto tutti gli assalti della principale colonna nemica. — Il
conte di San Sebastiano ha salvato la giornata, rifiutando tre volte
di obbedire al conte di Bricherasio, comandante supremo, che gli
ordinava di abbandonar la tenaglia e di correre in soccorso al Serin.
— E poi una voce generale, crescente, la notizia che arrivava da cento
parti, ripetuta, ripercossa da mille echi, dal Piemonte, dall'Italia,
dalla Francia, dall'Europa intera: — La gloria della vittoria è del
San Sebastiano; lui il generale, l'anima della difesa, davanti a cui
morirono il generale Delisle e il maresciallo Arnault; lui che vide
e comprese tutto, e trionfò con un atto temerario d'inobbedienza in
cui sapeva di giocar la vita e l'onore; lui l'eroe dell'Assietta, il
vincitore della grande battaglia, il salvatore del Piemonte! — La gioia
mi soffocò, mi ottenebrò la ragione. Oh! vederlo! abbracciarlo! poterlo
benedire! sentirmi chiamar madre un momento, vederlo soltanto passare,
poter sventolare il fazzoletto dalla finestra, e ricevere un suo
sorriso e un suo saluto! Ed ecco, una mattina, accorre la superiora:
indovinai; volai nel parlatorio; era lui. Dio grande! il mio Paolo!
il figliuol mio! il sangue mio! la gloria mia! lui, bello, splendido,
buono, che strinse la mia povera testa contro la sua divisa, senza
poter parlare, ansando dalla pietà e dalla gioia, e mi baciò in fronte,
e mi chiamò: Maman! — come quand'era bambino, e mi carezzò i capelli.
Oh, grazie in eterno, Dio pietoso, di quella gioia celeste, delle sante
parole che mi faceste dire da mio figlio! Io non ero degna d'un così
grande premio! M'avete dato assai più che non avessi mai sognato! Non
avevo sognato che un trono!
— Essa conservò fino all'età più avanzata tutta la sua intelligenza, —
continuò la superiora. — Nelle memorie del monastero non è fatto cenno
d'alcuna malattia grave che abbia sofferto prima degli ottant'anni.
Pare che essendo già più che ottuagenaria, si recasse ancora da sè
al refettorio, e intervenisse alle funzioni religiose, ed anche alle
ricreazioni delle monache, com'era stato sempre suo costume. Pareva
che non dovesse mai più morire. Soltanto le monache più vecchie si
ricordavano di quando era venuta. Le novizie si facevano raccontare la
sua vita come una storia di miracoli....
— Per molti anni, — ricominciò la marchesa, — io vissi di quella
gioia. Il mio cuore trionfava. Nessuna vendetta più sfolgorante
di quella mi era mai passata per il pensiero, nei delirii del mio
orgoglio straziato. Carlo Emanuele m'aveva gettata in una carcere
infame e condannata al chiostro perpetuo, e mio figlio gli salvava
gli Stati con la più grande vittoria del secolo! Quella gloria del mio
sangue rialzava il mio nome in faccia al mondo, mi vendicava di mille
calunnie, richiamava la pietà del mio paese sul mio destino, apriva,
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