Alle porte d'Italia - 04

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eserciti per quasi un mese.
*
* *
Ma via via che si saliva, e che il terreno s'andava facendo più ripido
e più rotto, il maggiore pareva sempre più disposto ad ammirare gli
assedianti. — Caspita! diceva, soffermandosi per guardare intorno,
— era una dura impresa (_une rude affaire_). Bombardati dal forte,
bersagliati dalla cittadella, tempestati dai ridotti, fulminati dalle
batterie mobili del Tessé.... ci volevan dei petti di bronzo e dei
fegati d'acciaio per tener le trincee. Eppure, chi sa! avrebbero
piantato ogni cosa, forse, se non era la presenza dei due principi
savoiardi. Quelli eran due campioni, sacro dio!
Feci un sorriso modesto in nome dei due principi. Con uno straniero,
vien qualche volta naturale anche all'ultimo dei cittadini, di imitare
quel vecchio sergente francese il quale diceva: — _L'empereur et
moi, ça ne fait qu'un._ — E poichè m'aveva detto una cosa gradita, io
gli dissi alla mia volta, per rendergli la gentilezza, che ammiravo
cordialmente, come un bell'esempio del come si possa accordare
l'orgoglio del soldato col rispetto dovuto a un nemico glorioso, la
nobile risposta che il governator De Beaulieu aveva dato al principe
Eugenio quando questi era venuto in persona a intimargli la resa,
affermandogli che le comunicazioni tra il forte e la cittadella eran
rotte. Invece di scimmiottare il _Roi soleil_ con una risposta spavalda
da eroe di teatro, egli s'era contentato di accennare al Principe
la strada sotterranea ancor libera, il fosso sgombro e la breccia
richiusa, rispondendo rispettosamente: — Vostra Altezza vede. Un
soldato d'onore non può ancora render la spada.
— Non poteva ispirare che una risposta nobile la parola del Principe
Eugenio, — rispose il maggiore. Ah! l'_Abatino_! Egli l'ammirava con
entusiasmo quella simpatica e strana figura, quell'eroe gobbetto,
che non aveva mai lasciato vedere il suo scrigno ai nemici, piccolo,
gracile, terribile, con quegli occhi da Napoleone del Meissonnier,
chiari come due diamanti, con quel nasino voltato in su, con quella
bocca sempre aperta come per esser più pronta a gettare il grido
dell'assalto. Ci doveva mettere il diavolo in corpo ai suoi reggimenti
quando passava di galoppo con la bella coccarda azzurra sulla corazza,
e apostrofava i soldati in quattro lingue, dissimulando con un sorriso
il tormento della sua vecchia ferita di Belgrado. Era una mirabile
natura, audace, tenace, impetuosa, gioviale. Nulla lo definiva meglio
della scommessa di cento doppie che aveva fatta la sera del primo
sabato d'agosto con Vittorio Amedeo: di fargli sentir la messa nel
forte di Santa Brigida all'alba del giorno dopo.
*
* *
Arrivati sulla cima del monte, il maggiore De Beaulieu riconobbe il
terreno con un'occhiata. — Qua eran piantate le batterie dei tedeschi,
comandati dal maggior generale Scheveim; là ci doveva esser la trincea
dei mille e settecento inglesi, comandati dallo Schomberg; laggiù gli
spagnuoli col generale de Las Torres. Dov'è il Pilone della Morta? mi
domandò. — Gli indicai il piccolo gruppo di case dove rimangon gli
avanzi d'un pilone sul quale era anticamente raffigurata una donna,
morta là una notte per terrore degli spiriti. — Fino a quelle case,
disse il maggiore, si spinsero il 27 luglio, incalzando i francesi
cacciati da Frossasco, cinquemila soldati del duca di Savoia. Il forte
era formato da quattro bastioni e sfolgorava tutto quello spazio
d'attorno palmo per palmo. Ma doveva essere terribilmente tragica
la condizione del forte negli ultimi giorni, quando già erano stati
costretti a levar via la più parte dei cannoni, e i fossi erano colmi
di ruderi, i bastioni squarciati, la via sotterranea in pericolo,
la palizzata minata per far saltare la controscarpa del fosso; e gli
assediati si vedevan dintorno, a pochi passi, le gole nere di tutti
quei mostri di bronzo venuti su come strisciando col favor delle
tenebre, e tutti quei visi arsi di soldati d'ogni paese, inferociti
da cento assalti e smaniosi dell'ultima strage, che li divoravan con
gli occhi iniettati di sangue, mostrando le baionette. A quel punto,
ogni resistenza era inutile. All'alba del quattordici, in fatti,
gli alleati, cannoneggiando furiosamente i bastioni già cadenti,
si avanzano per tentare l'ultimo assalto. Uno scoppio tremendo li
arresta per un momento: le porte e il ponte del forte erano andati per
aria. Credono d'aver appiccato il fuoco al magazzino delle polveri,
ricominciano a fulminare con la frenesia della vittoria. Ma che è? Dai
bastioni non si risponde. Si avvicinano titubanti, irrompono dentro
come un torrente.... Non c'è più anima viva. Il forte è un mucchio
di rovine. Non ci trovano che pochi cenci sanguinosi e un cannone
con l'arma di Savoia, inchiodato. Fin dallo spuntare dell'alba, il
governatore De Beaulieu, per ordine del comandante di Pinerolo, dopo
aver fatto minare le cortine della porta principale e delle porte
di soccorso, era sparito col presidio per la via sotterranea, non
lasciando che pochi soldati coll'incarico di dar fuoco alle mine
all'ultimo momento. Che formidabile moccolo deve aver attaccato
Vittorio Amedeo!
Avvicinandosi alla villa solitaria del signor Todros, che copre lo
spazio già occupato dal forte, il maggiore si fermò ad osservare due
piccole piramidi di bombe che s'alzano sui due pilastri della porta
del giardino: bombe che furon trovate nella terra, con qualche pezzo
d'armatura e poche monete ossidate, scavando là presso. Chi sa che non
fosse proprio una di quelle, la bomba che aveva fracassato le gambe al
povero Montour, maggiore del presidio. — Due bei piatti di patate di
Savoia, — soggiunse il De Beaulieu, fissandole con gli occhi sorridenti
d'un buongustaio.
Lassù v'è uno spianato ampio, come non s'immagina guardando la cima del
monte da San Maurizio: bei vigneti; tratti di terreno coperti d'erba
altissima, ombreggiati da gruppi di quercioli, di eriche, di pini
selvatici, e tutti tempestati di rosolacci, d'ombrellifere bianche,
di ranuncoli, di giunchiglie, di fiori di smirnio, di pervinche,
folti come i fiori di una aiuola, e frammisti a una quantità di
pianticelle odorose che, toccate passando, spandono aromi acuti lungo
i sentieri. Sedemmo per pochi minuti in mezzo agli alberi, e riposando
là in quell'ombra quieta, in mezzo a quei profumi, refrigerati da
un bicchiere d'acqua ghiaccia bevuta al pozzo d'una fattoria vicina,
accarezzati da un'aria fresca e morbida che ci entrava tra i panni e ci
girava intorno alla vita e alle braccia, pensammo tutti e due a quei
poveri soldati che in quei medesimi giorni di agosto, a quella stessa
ora, cento ottantasei anni addietro, attraversavano correndo quello
stesso spazio di terreno, allora nudo come un deserto, arroventati
dal sole, trafelati, sfiniti, stravolti, inciampando nei cadaveri
sbudellati dei loro compagni, sotto una grandine di palle francesi,
mezzi morti di fame e di sete; là, a centinaia e centinaia di miglia
dai proprii paesi e dalle proprie famiglie, di cui non avevan notizia
da molti mesi, e che non avrebbero saputo nulla della loro morte;
poveri strumenti ciechi di grandi ambizioni che non capivano, povera
carne da mortai, sospinta a marce forzate da un capo all'altro
d'Europa, frustata, macellata e dimenticata! Povere creature umane!
— Ma perchè non avete messo un ricordo quassù? — mi domandò il bravo
maggiore: — una pietra con quattro parole almeno?
*
* *
Grazie alla cortesia del signor Todros, potemmo entrare nel giardino,
e salire sulla torre della villa. Lassù il De Beaulieu mise fuori una
di quelle voci lente e prolungate di stupore con le quali si suole
accompagnare il volo circolare dello sguardo lungo gli orizzonti d'un
panorama meraviglioso. Subito lo colpì quella bella conca ridente
di Cumiana, che vien fuori inaspettata dalla parte sinistra, col suo
semicerchio di monti boscosi, coi suoi poggi coronati di chiesuole,
colle sue borgate che fan capolino fra le macchie. — Dove sono i
boschi della Volvera? — mi domandò. — Ah, so quel che cerchi! —
pensai. Ma non ebbi il tempo di fargli l'indicazione. Egli conosceva
meglio di me tutto quel vastissimo teatro del grande attore Catinat.
— _Voilà Piossasco, je crois_, — esclamò, accennando giusto. Là era
la chiave della battaglia di Marsaglia, il monte San Giorgio, a cui
aveva appoggiata l'ala destra il generale francese, facendo fronte al
principe di Commercy, che fu poi il primo sbaragliato. Eugenio era nel
centro, Vittorio Amedeo nei boschi di Volvera; tutti furono sfondati
e travolti. Una miseranda giornata, mondo ladro. Il maggiore non disse
parola; ma vidi che, richiamato senza dubbio dall'analogia dei ricordi,
cercava dall'altra parte la città di Saluzzo, e quindi la pianura di
Staffarda. — Cercate il campo delle vostre vittorie, — gli dissi. E
lui, pronto, da vero gentiluomo francese: — Osservate però che non ho
ancora osato guardare dalla parte di Superga. — Era un'allusione alla
difesa vittoriosa di Torino, una risposta gentile alla botta scherzosa.
— Touché, — gli dovetti rispondere, facendo il saluto da schermitore.
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* *
Per un pezzo non lo potei levare di lassù. Egli non si stancava
mai di contemplare quello sterminato tappeto verde, picchiettato di
vermiglio dai villaggi, rigato di bianco dalle strade, strisciato
d'argento dai corsi d'acqua, orlato d'azzurro all'orizzonte, e tutto
ricamato a rilievo e come trapunto dalla vegetazione, da mettere la
voglia di passarci sopra la mano; e reso più bello anche da un cielo
limpidissimo, striato di lunghissime nuvole sottili ed accese, simili
a immense pennellate color di rosa, che tingevano del loro riflesso
delicato le acque immobili del giardino della villa. — No, — diceva,
dondolando il capo, e guardando giù per il fianco del monte, come
se parlasse per sè solo; — dopo la presa di Santa Brigida, se non
sopravveniva il Catinat, Pinerolo non poteva più reggere. Col rinforzo
di seimila spagnuoli e coi dodici nuovi cannoni di grosso calibro che
aveva ricevuti, il Duca di Savoia era sicuro del fatto suo. La piazza
non era approvvigionata che per tre mesi. Egli aveva alla mano più di
cento pezzi d'artiglieria. Con la batteria di mortai che piantò qua
sotto, e con l'altre due che aveva fatto drizzare dalla parte opposta,
sulla pianura, avrebbe ben presto avuto ragione del Tessé, nonostante
il fuoco d'inferno della cittadella. La torre maestra, bersagliata
notte e giorno da ventiquattro bocche di bronzo, era ridotta in pessimo
stato, al primo d'ottobre.... Ma sapete che era originale, e dura
molto, la condizione di quei poveri abitanti di Pinerolo, bombardati
per dieci giorni di seguito dal loro Duca, e costretti a desiderare
con tutto il cuore che tirasse avanti! No, davvero, dopo due mesi e
mezzo di quella dannata vita, e dopo sessantatrè anni di dominazione
straniera, essi avrebbero meritato la soddisfazione di veder l'entrata
trionfale di Vittorio Amedeo. Non era giusto che la dovessero sospirare
altri tre anni. Il conte di Tessé non sperava certamente di cavarsela
così a buon mercato.
*
* *
Parve molto curioso al De Beaulieu un particolare che gli richiamai
alla mente riguardo al Duca di Savoia. Uno degli edifizi di Pinerolo,
visibile di lassù, che era stato malconcio più degli altri dal
bombardamento, era il monastero della Visitazione. Che cosa avrebbe
detto Vittorio Amedeo II, se mentre tirava a palle infocate sul
monastero, gli avessero profetato che sotto a quel tetto, fra quelle
mura fulminate, sarebbe morta settantasei anni dopo, quasi nonagenaria,
la più cara delle sue amanti, quella marchesa di Spigno e di San
Sebastiano che fu poi sua sposa, che si raccolse con lui a Chambéry
dopo l'abdicazione, e che lo spinse, si dice, a metter sottosopra lo
Stato per ritogliere il trono al figliuolo? — _Une femme charmante_,
non è vero? — disse il maggiore. Quel diavolo di francese la conosceva
personalmente. Andando la mattina a comprare la _Guida delle Alpi
Cozie_ nella libreria del caro Mascarelli, ci aveva visto la fotografia
della marchesa, presa da un ritratto a olio che si conserva ancora nel
monastero; e quella testina ravvolta in un ampio velo come dentro a
una nuvola bianca, quei begli occhi languidi, quella bocca voluttuosa
e maligna, l'avevano stregato, lui pure.
— Bel tipo anche quell'Amedeo! — soggiunse, con una certa espressione
d'invidia. _On n'en fait plus_. Inchiodato sul cavallo da un'alba
all'altra, con quella enorme parrucca bionda che gli cascava di sotto
al piccolo cappello a tre punte fin sopra le spalle, con quegli occhi
azzurri mobilissimi, con quel naso forcuto, butterato dal vaiolo preso
nella campagna del Delfinato, vestito alla diavola, spoglio fin anche
del collare dell'Annunziata, che aveva fatto a pezzi l'anno innanzi
per darlo ai poveri di Carmagnola, celione coi soldati e burbero
coi pezzi grossi, e libero di lingua come un caporale, che stupendo
soggetto per la “fotografia aneddotica„ d'un corrispondente di giornale
che avesse potuto seguirlo da vicino! E a me pareva di vederlo, là su
quella vetta, accompagnare ogni colpo di cannone con un pugno sulla
sella, sagrando a mezza voce coi denti stretti: — Ah, io sono la
bestia nera di Louvois! Ah, io sono il paggio del re di Francia! Ah,
non mi è permesso di fare un viaggio a Venezia! Ah, _maniga d'baloss_!
Pigliatevi queste, per ora.
*
* *
— Con tutto questo, riprese il maggiore, quasi seguitando il filo del
mio pensiero, — quando non s'ammazzavano, si usavano mille cortesie
delicatissime. Che ne dite del duca di Savoia che lascia libera ai
francesi la corrispondenza postale fra la città assediata e Casale,
e che manda il suo fido conte di Groppello, travestito da bifolco, a
consigliare al Tessé di far scendere il Catinat dalle montagne, per
dare a lui, Amedeo, un pretesto onorevole di non bombardare Pinerolo?
— La più bella, per altro, la più grandiosa, la più buffa io non
la sapevo: una lettera del Tessé al San Tommaso, prima che Amedeo
arrivasse al campo: Sento che Sua Altezza reale deve giungere. Vorrei
far qualche cosa per il suo ricevimento. Suggeritemi voi. Vi offro
intanto tutto quello che posso. Sua Altezza vorrà passeggiare, passare
in rivista il suo esercito. Ditemi da che parte andrà: abbiamo molti
cannoni appostati; ordinerò che non tirino da quella parte, nè cannoni,
nè archibugi, perchè l'Altezza Sua non abbia la minima noia. Sta bene?
Si può essere più amabili? — Che maravigliosi burloni! — conchiuse
ridendo il maggiore, e si sarebbero squartati coi denti.
*
* *
Infine, si dovette scendere. Ma che indimenticabile spettacolo aveva
goduto di là il signor De Beaulieu! pensavamo tutti e due, uscendo
dalla villa. Nelle brevi ore di tregua, affacciandosi al parapetto
dei bastioni, egli vedeva il rimescolìo dei soldati dentro ai fortini
giù per la china del monte, le mezzelune di Pinerolo brulicanti di
moschetti, le torri della cittadella coronate d'ufficiali alla vedetta;
e da ogni parte, per i vigneti rasi, fra le case diroccate, per gli
orti sconvolti dagli scavi delle trincee e pesti dai cavalli e dalle
ruote, sui campi sparsi di gabbioni rotti, di travi fumanti, di sacchi
di lana sventrati, tutt'intorno alla città, migliaia di tende e di
padiglioni d'ogni colore, villaggi di baracche preparate per il blocco
invernale, e più lontano vasti parchi di carriaggi e armenti enormi
addensati, e masse ondeggianti di cavalleria che foraggiavano per la
campagna dalle parti di San Secondo e del Belvedere; e nelle ore di
battaglia, quando rombavano insieme le artiglierie del forte, della
cittadella, della piazza, dei ridotti, delle batterie di pianura,
facendo una corona densa di fumo e di fuoco in giro a Pinerolo,
quelle larghe onde furiose di soldati che venivan su per il monte,
i battaglioni biondi d'Inghilterra, le fanterie brune di Spagna, le
larghe facce sbiancate degli olandesi, gli alti dragoni di Savoia,
le colonne pesanti e serrate dei tedeschi, una marea montante di
carne umana, variopinta di cappelli piumati e di larghe tracolle,
lampeggiante di baionette e di scuri, irta di fascine, di scale, di
bandiere lacere, di spade brandite di colonnelli, ubbriacata dalle
proprie grida e da un clamore infernale di tamburi, di pifferi e di
timballi.... E appunto in quel momento, giù per la vasta pianura
florida e tranquilla, facevano un vivo contrasto con le nostre
tumultuose immaginazioni i bei pennacchi di fumo dei treni di Torino
e di Torre Pellice, e dei tranvai di Perosa e di Saluzzo, immagini di
pace e di lavoro, che trascorrevano rapidamente fra gli alberi, come
lunghissimi veli candidi di amazzoni gigantesche lanciate a corsa
gioiosa per la campagna.
*
* *
Stava per cadere il sole. Ci soffermammo ancora un momento a guardare
la cima del Freydour e i Tre Denti, che ci sorgevano proprio di
faccia, come bastioni verticali d'una fortezza prodigiosa, davanti
alla quale i combattimenti di Santa Brigida non sarebbero stati che
lotte di formiche; ed erano maravigliose, a quell'ora, quelle montagne
di nuda roccia, di cui si vedono nettissimamente tutti i rilievi,
tutte le incavature, tutte le crespe, che parevan fatte col cesello,
e tinte di color di ferro, di grigio perla, d'amaranto, di viola, di
sfumature di corallo e di rosa. E ammirammo anche la valle del Lemina,
così verde e raccolta, che pare una valle chiusa ai profani, la quale
appartenga tutta a un convento. Era una bella sera di domenica. Si
vedeva tutt'intorno quella vasta pace sorridente dei dì di festa, che
s'indovina, in campagna, anche quando non si mostra per alcun segno
visibile. Sotto i pergolati delle ville passeggiavano coppie di signore
a braccetto; dalle casette lungo la strada uscivano suoni di bicchieri
urtati e di voci allegre; incontravamo dei bimbi paffuti, delle belle
ragazze e dei vecchi arzilli che ridevano. Quando tutt'a un tratto,
vicino alla villa Vagnone, udimmo un canto graziosissimo di due voci di
tenore, non educate, ma d'un metallo insolito da queste parti; e poco
dopo vedemmo spuntare di fra gli alberi due soldati di cavalleria della
Scuola, con le loro belle mostre color d'arancio.
— Non son mica piemontesi quei due soldati, — disse il De Beaulieu.
— Son romani, — risposi.
— Da che li riconoscete? — mi domandò curiosamente.
— Dalla pronunzia, dall'intonazione del canto, dalle parole stesse
della canzone. E son romani di Roma, se non m'inganno.
— Soldati volontari, forse?
— Ma no; soldati di leva. Son più di dieci anni che abbiamo
nell'esercito i soldati di Roma.
Si soffermò, e si voltò a guardar quei soldati. La mia risposta aveva
riportato d'un colpo la sua immaginazione dal Piemonte di Vittorio
Amedeo all'Italia con Roma capitale, e dietro a quei due giovani egli
vedeva confusamente, con una specie di stupore, gli archi gloriosi e
i colonnati carichi di secoli della città immortale. E me lo disse.
Quanta poesia spandevan su per il monte di Santa Brigida le voci
armoniose di quei due ragazzi! Che favolosa mutazione s'era compiuta!
Eppure, il sangue sparso dai soldati di Vittorio Amedeo su quella vetta
aveva giovato anch'esso al compimento del miracolo che la presenza
di quei due figliuoli di Roma significava. Certo, quei soldati del
diciassettesimo secolo non avevan creduto di battersi per l'Italia;
s'eran battuti per devozione al loro principe, per l'onore delle armi,
per amore della propria provincia. Ma eran quelli i sentimenti e quelle
le tradizioni da cui nasceva due secoli dopo, fecondata dalle nuove
idee, l'audacia patriottica del Piemonte e la popolarità italiana di
casa Savoia. La forza nazionale di Torino del 48 e del 59 derivava in
gran parte dalla coscienza di quel passato. Santa Brigida era anch'essa
un'avanguardia lontana di San Martino. Il sangue sparso al Pilone della
Morta si univa per una sterminata striscia vermiglia al sangue versato
a Porta Pia. Non mi si destavano quelli stessi pensieri all'udir la
voce di Roma sul campo di battaglia di Amedeo?
Sì, gli stessi pensieri mi si destavano. Ma pensavo pure, arrivando
sul colle di San Maurizio e osservando lo sguardo quasi di gratitudine
che girava il maggiore sui dintorni, pensavo alla efficacia grande
e benefica del valore, che ingentilisce e innalza ogni cosa. Era la
memoria d'un valoroso che, dopo due secoli, rendeva simpatico a me uno
straniero, e faceva amare a lui una città sconosciuta, e metteva sulla
bocca all'uno delle parole nobili e onorevoli per la patria dell'altro,
e suscitava da questi sentimenti, in poche ore, un'amicizia gentile.
La quale, dopo molti altri discorsi sull'assedio, fu poi suggellata a
tavola con una vecchia bottiglia di Campiglione.
— Al governatore De Beaulieu! — dissi, alzando il bicchiere.
E il maggiore, balzando in piedi subito, con voce vibrata e cordiale:
— Agli espugnatori di Santa Brigida!


IL FORTE DI FENESTRELLE

Pinerolo, settembre 1883
Il vetturino schioccò la frusta, e i cavalli partirono allegramente,
stimolati dalla brezzolina dell'alba, che inargentava il Monviso.
Una gita da Pinerolo a Fenestrelle, con quella bella giornata ariosa
e limpida, in compagnia di mio fratello Giacosa, era uno di quei
gusti.... l'unico che potesse farmi levar più presto del sole. La
campagna si svegliava appena, e gli illustri abati e il buon Francesco
di Sales dormivano ancora fra i muri severi dell'Abbadia d'Adelaide.
Più su, il ponte di Napoleone era deserto; intorno a Turina, dove
combattè il bravo Caprara, tutto taceva, e fra le belle cave del
Malanaggio, che Dio ci liberi, non c'era anima viva. Cominciammo a
vedere alcune contadine valdesi, con le loro cuffiette bianche da
vecchierelle, tutte pulite, vicino al villaggio di San Germano, in
mezzo a quei monti graziosi, coperti di vigneti alle falde, vestiti
d'eriche e di faggi più in alto, dove si arrampicano allo spuntar del
giorno, coi libretti sotto il braccio, i piccoli “barbetti„ per andar
alla scuola del maestro girovago, nei casali romiti delle vette. E da
quel punto in su trovammo la valle animata da quei cento rumori sparsi
e lenti, di carri, d'armenti, di sonagliere, d'officine solitarie,
che accarezzano l'orecchio e acquietano il cuore come il canto pacato
d'una buona madre che lavora. Ecco Villar-Perosa, ospite di Re, che
mostra in mezzo al verde la sua piccola copia candida della basilica
di Superga; ecco le praterie floride di Pinasca, dove si raccolse
gettando sangue dalla bocca, col petto attraversato da una palla
cattolica, Janavel, l'eroe dei Valdesi, scampato ai macelli di Val
d'Angrogna.... Ma, veramente, la vista di quei luoghi, invece delle
antiche battaglie, mi richiamava alla mente i discorsi che avevo
intesi l'anno prima il giorno della festa d'inaugurazione del tranvai,
discorsi di sindaci campagnuoli, d'industriali e di maestri, sonatine
originali di rettorica alpestre, interrotte da scappate intempestive
di bande musicali, o da sincopi improvvise di paura; e mi pareva
di risentire quelle voci tremanti, e di rivedere quei visi pallidi,
in mezzo ai contadini vestiti da festa e alle villanelle infiorate,
che facevan corona alla larga figura dittatoria del senatore Bertea.
Mentre la carrozza correva, tutte quelle frasi mi venivano incontro,
come una folata di quei piccioni tinti che fan volare per le piazze i
venditori di numeri buoni; e mi mettevano in fuga i ricordi storici.
Ma era meglio così, perchè non bisogna pedanteggiare con la natura:
essa si vendica sempre in qualche modo dei descrittori di passeggiate
che appiccicano una data a ogni albero e un nome a ogni sasso. E poi
la valle del Chisone è così bella in quel tratto. Passato Pinasca, si
ristringe, si infosca, alza da una parte dei grandi macigni nerastri,
strisciati di licheni, e piglia quell'aspetto particolare di tristezza
delle valli anguste e quiete, dove sembra che la natura prepari in
silenzio qualche sorpresa; e i viaggiatori si raccolgono e tacciono
senz'avvedersene, guardando davanti a sè, con un sentimento vago di
aspettazione. La sorpresa è là vicina, in fatti. La valle si riapre
a poco a poco, la vegetazione s'addensa, poggi ameni si elevano, le
case spesseggiano, sbucan ragazzi da ogni parte, ed ecco un'ampia
conca, circondata di rocce ardite e di coltivazioni ridenti, popolata
di opifici, di giardinetti e di ville, nella quale biancheggia e fuma
Perosa; e là in fondo, si schiude da una parte la valle profonda di
Fenestrelle, e dall'altra la valle solitaria di San Martino, guardata
all'imboccatura dal villaggio di Pomaretto, che pare un mucchio di
case ruzzolate giù dalle alture. Oh, il bel luogo fresco e gentile
per venirci a nascondere un amore o a ponzare un romanzo! _Un rincon
de paraiso entre los Alpes_, dice un poeta spagnuolo che vi combattè
co' suoi connazionali nel 1693. Qui ci avevano un castello di confine
i principi d'Acaja. Qui passarono, s'accamparono, e scaramucciarono
cento eserciti, dai romani della repubblica ai francesi dell'impero.
Qui si fabbricano dei dolci liquori, delle buone sete, delle belle
ragazze, dei saldi soldati. — Animo, sforniamo un sonetto, mentre i
cavalli rifiatano, — mi disse il Giacosa. Ma dopo aver buttate fuori
undici sillabe ciascuno, sperando che venisse via il resto con la
solita furia, dovemmo smettere; era troppo presto; le ruote della
macchina poetica intaccavano ancora, arrugginite dai vapori notturni; e
bisognò rassegnarsi, e continuare a discorrere in prosa come il signor
Jourdain del Molière. Ma non ci parve che le montagne se ne mostrassero
afflitte.
*
* *
Da Perosa in su, i monti si serrano di tratto in tratto, in maniera che
la valle par chiusa, e c'è da credere in vari punti di dover voltare
indietro i cavalli. La strada serpeggia, si stringe al torrente, guizza
sotto le rocce, passa in mezzo a casipole schiacciate e mute, che dànno
l'immagine di una vita di tristezza e di stenti, attraversa dei recessi
oscuri, di aspetto sinistro, che fan pensare a viaggiatori spogliati
e sgozzati, fiancheggia dei mulini di steatite mossi da larghe vene
d'acqua, percorre dei tratti ombreggiati da una vegetazione superba,
dove fioriscono dei gerani, dei sedii, dei cespugli di rose selvatiche,
che hanno la sventura di strapparci finalmente di bocca le prime
quartine. Poco lontano da Perosa, passiamo accanto alla roccia enorme
di Bec-Dauphin, che segnò già il confine tra Francia e Savoia, e che
per un momento ci pende quasi tutta sul capo coll'aria di dire: — Se mi
salta il grillo! — e poi entriamo da capo nel verde, in mezzo a grandi
noci e a grandi castagni, che ci immergono in un'ombra cupa di grotta,
risollevando tra me e il mio amico una vecchia disputa sulla bellezza
comparata del castagno e della palma. Ecco il villaggio pensieroso di
Meano, ecco i primi frassini, ecco i monti erti e brulli, dalle alte
cime coniche, dalle bricche rotte e bitorzolute, dalle sottili guglie
cesellate, che s'alzano snelle e recise per l'aria, colorite di viola,
e svariate d'ombre nette e vigorose, sopra un tratto di paese quasi
vergine, dove si ritrovano voci ed usanze romane, che noi vituperiamo
di nuove strofe. Gli aspetti propri della montagna vengon pigliando
forma e colori sempre più visibili. I castagni spariscono, le piccole
conifere s'affollano, i sassi e i petroni si ammucchiano, il Chisone
rimpiccolito saltella fra i grandi macigni, accavalciato da ponticelli
rustici, che ricordano i modelli scolastici del paesaggio montano,
il fondo della valle si colora d'un verde più unito e più vivo; e ci
bisogna torcere il collo sempre di più, per arrivare con lo sguardo
alle cime altissime, sparse di casette appena visibili, somiglianti
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