Alle porte d'Italia - 13

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tutte le isolette e le rive del torrente sono fiorite, e formano come
un mosaico mobile di mille colori, e sui monti c'è ancora la neve, che
si va squagliando. Bisogna sentire allora, che orchestra. — Oh bella,
benedetta natura! Oh! voglia il cielo che non si compia l'orribile
cosa da cui la valle d'Angrogna è minacciata: stian lontani di qui
gli alberghi americani o inglesi, e le tavole rotonde, e le sale di
lettura, e i concerti! Per un altro secolo almeno!
*
* *
Andando avanti, al di là d'una bella cascata detta Gorg Nie (che
può significar gorgo nero), si vedono nel letto del torrente delle
incavature profonde, chiamate _tompi_ dai valligiani, nelle quali
l'acqua ristagna, alta parecchi metri, e chiara, che si vedrebbe la
foglia d'un fiore nel fondo. Paiono grandi conche scavate apposta per
servir di tinozze da bagno a dei giganti. Ciascuna ha un nome proprio,
parecchie hanno una leggenda. Una delle più profonde, chiamata _tompi
Saquet,_ è storica, per esservisi annegato, precipitando da una roccia,
un tal Saquet di Polonghera, ch'era uno dei capi dell'esercito del
De Capitaneis, nel 1488, e che poco prima di morire, combattendo
lì presso contro gli Angrognini, aveva giurato di mettere in pezzi
quanti gli fossero caduti nelle mani. Dopo trecentonovantaquattr'anni
il _tompi_ conserva ancora il nome del suo morto, e lo conserverà,
come dicono poeticamente in quelle valli, fin che un padre valdese
percorrerà quella strada accompagnato dal suo figliuolo. La strada,
via via che la valle si serra, si va mutando in un sentiero, il quale
striscia ai piedi delle Rocciaglie, quasi paurosamente, minacciato dai
macigni da un lato, e dalle acque del torrente dall'altro. L'aspetto
delle Rocciaglie, in quel punto, è veramente maestoso e terribile.
Dei massi enormi, in cui si potrebbero scavar delle case, s'avanzano
fin sulla sponda, intercettando quasi il cammino; alcuni staccati,
franati dalle alture; altri incastrati nei fianchi del monte, simili a
mostri smisurati che sporgan fuori la testa deforme; altri inclinati
come torrioni che minaccin rovina, sospesi quasi sopra il sentiero,
da potervisi riparar sotto venti persone, così male intenzionati,
all'aspetto, che, passandovi sotto, vien voglia dire: — Un momento,
di grazia! — In alcuni punti ci son dei vasti ammontamenti di macigni,
che paiono rottami di palazzi giganteschi, buttati giù dal terremoto.
Il letto stesso del torrente, molto ripido, e tutto ingombro di
colossali massi bianchi, dà l'immagine delle rovine d'una gradinata
titanica, che scenda dal monte Roux fino a Torre. La montagna va su,
quasi inaccessibile, tutta a pareti diritte, a scaglioni di roccie,
a spigoli, a denti, a piccoli precipizi, a piccole frane, piena di
minaccie, d'insidie e d'orrori; erta, maligna in maniera, da non
credere che ci possan stare degli uomini altro che appiccicati, o
appesi per le corde alle bricche, o rannicchiati nelle buche, come gli
uccelli nei nidi. Eppure anche lassù, tra quelle rocce, ci son delle
scuole, dei gruppi di casette, con piccolissimi tratti di terreno
coltivato, tenuti su alla meglio da muricciuoli di sassi rifatti cento
volte con pazienza da santi; e delle capanne solitarie, che rimangon
per mesi e mesi nelle nevi, e da cui, qualche volta, non si posson
portar giù neanche i morti. Quello è il tratto più angusto della val
d'Angrogna. Il sentiero si assottiglia ancora, la riva si alza, le
falde dei monti delle due parti quasi si toccano: ecco la porta di Pra
del Torno. Un piccolo ponte ad arco accavalcia il torrente, il quale
precipita fra due muraglie. Rasente una di queste passa il sentiero
sopra un sostegno artificiale di pietre e di legna, che si butta giù
con pochi colpi di zappa. Minacciati d'un assalto, i Valdesi rovinavano
quel sostegno, e nessuno passava più. La stretta era fortificata.
Il sentiero era chiuso da una porta. Dietro la porta c'eran due
sentinelle; la disperazione e la morte.
*
* *
Là ci soffermammo un po' di tempo, distesi all'ombra d'una roccia, a
ragionare delle battaglie strane e tremende che s'eran combattute su
quelle due rive, e su tutti i monti, che ci si drizzavano intorno.
In che maniera un pugno di montanari aveva potuto trionfare di tanti
eserciti? Come si difendevano? Com'erano assaliti? Le storie parziali
e le memorie di quei tempi ci danno dei particolari concisi e sparsi,
ma sufficienti a chi voglia rappresentarsi al vivo quei combattimenti.
Gli eserciti cattolici, le prime volte, andavano a combattere di
buon animo, fidando nella superiorità del numero, delle armi, della
disciplina e dei capi; non potendo credere che i rovesci toccati dai
loro predecessori avessero avuto altra cagione che qualche errore di
tattica, commesso per trascuranza. Ed erano anche inanimiti dalla fede
di far opera santa sterminando dei cani d'eretici, e dal veder che i
Valdesi, abborrenti ancora dal sangue, per devozione al loro antico
principio della inviolabilità della vita umana, fuggivano fin che
potevano davanti a loro, per non dover combattere che agli estremi;
ciò che, naturalmente, era considerato effetto di paura. Entravano
dunque nella valle cantando, con la certezza d'andar a segnare sulle
rocce di Pra del Torno l'ultimo giorno dell'eresia. Ma il disinganno
non tardava a sopraggiungere. Era impossibile, innanzi tutto, che
gente della pianura, per quanto avesse inteso dire dell'orridezza
dei luoghi, s'immaginasse appunto la natura e la grandezza delle
difficoltà che presentava quella valle a un esercito assalitore: il
primo aspetto di quelle montagne scemava alquanto l'animo anche ai
più audaci. Inoltre, riuscendo oltremodo difficile ai generali il
calcolare le distanze con esattezza, accadeva facilmente che le varie
colonne non arrivassero nello stesso tempo nei varii punti prefissi
all'assalto, e che si trovassero l'una dopo l'altra ad aver di fronte
tutte le forze del nemico. Partite in buon ordine, serrate e rapide,
s'allungavano a poco smisuratamente per i sentieri angusti e in mezzo
agli alberi fitti, spezzandosi, sfuggendo di mano ai propri uffiziali,
perdendo molta parte della loro forza organica prima di arrivare
sul luogo del combattimento. E la disparità d'armamento che correva
fra loro e i nemici, era quasi tutta in loro svantaggio. Coperti di
caschi, di corazze di ferro, d'armi pesanti, non usati a camminare
sull'erbe liscie e sui sassi malfermi della montagna, sdrucciolavano,
rabbiosi, stramazzavano, perdevano l'impeto dell'assalto a mezza
salita, e arrivavano diradati e trafelati in faccia ai Valdesi freschi
di forze e immobili. Questi, non armati da principio che di fionde,
d'archi e di picche, difesi da corazze di scorza d'albero o di pelli
vellose, leggieri, esercitati a piantare il piede sulle rocce come
un artiglio d'acciaio, destrissimi alle salite ripide e alle discese
precipitose, conoscitori di tutti i passaggi, di tutti i nascondigli,
di tutte le difese naturali del terreno, volavano, si può dire, per i
loro monti, come stormi di aquilotti, quasi non faticando, senz'altra
cura che d'offendere e di difendersi, pronti sempre a cader sul nemico
quando era impigliato in un passo difficile, a sfuggirgli, a svanirgli
sotto le mani quando era sul punto d'afferrarli, a profittare di
tutti i suoi momenti d'incertezza e di spossamento, per sopraffarlo
e scompigliarlo con dei temerarii ritorni improvvisi, che non gli
davan tempo di ritrovarsi. Si facevano ben precedere, i cattolici, da
un piccolo numero di soldati che cercassero i passi più agevoli e le
discese meno pericolose; ma questi erano assaliti inaspettatamente da
gente appostata dietro ai macigni, si vedevan sorgere d'intorno degli
spettri sbucati fuor dalla terra, dai quali erano uccisi o messi in
fuga prima di riaversi dallo stupore, e prima che la colonna arrivasse
in vista della mischia. Arrivava anche sovente una colonna, senza
incontrar resistenza, e senza vedere nemici, a conquistare un luogo
eminente, in cui le pareva di non aver più nulla a temere dall'alto;
ma era un'illusione: dopo brevi minuti, essi sentivan sul proprio
capo le grida e i sassi dei Valdesi, che eran saliti non visti, a
breve distanza da loro, per le incavature e dietro ai massi della
montagna, fin sopra un'altura che li dominava, e che sarebbe stato
pazzia l'assalire. — _A la brua!_ — Alla cima! — La vittoria è in
alto! — era la loro parola d'ordine, il loro grido di guerra in tutti
quei combattimenti. Mettere il nemico sotto i propri piedi. Apparirgli
improvvisamente sul capo, come in pianura si cerca d'apparirgli
improvvisamente al fianco. Ogni capo di manipolo aveva l'occhio d'un
grande capitano in quei luoghi dei quali conosceva ogni arbusto e ogni
pietra. Venticinque montanari, messi a difesa d'una viottola strozzata
fra due roccie, o fra una roccia e il torrente, tenevano indietro una
colonna di cinquecento soldati, dando tempo al grosso delle loro forze
di sbarazzarsi delle altre colonne. Dove la difesa era meno facile,
alzavan bastioni di terra e di ghiaia; delle barricate formidabili,
composte d'una doppia fila di pioli, con dentro alberi e sassi
ammucchiati, e neve pesta che empiva ogni vano; la quale, congelandosi
dopo una bagnatura d'acqua tepida, formava un solo ammasso di ghiaccio,
su cui cadevan di picchio gli assalitori, fulminati a bruciapelo dagli
archibugi. I cattolici non potevano ancora portar dei cannoni sopra
quei monti. Quando minacciaron di portarli, i Valdesi costrussero
un bastione enorme, lungo quasi cinquecento metri, che si vedeva fin
dallo sbocco della valle. Quello che non avevano imparato dalla natura,
l'avevano imparato via via dalla esperienza; non ignoravano nessuna
industria guerresca, non trascuravano alcuna precauzione, facevano una
guerra di leoni e di gatti. Camminavan per lunghissimi tratti senza
scarpe, per non esser sentiti; salivan su per l'erte con la pancia
a terra, per non esser veduti; andavan delle miglia, per la nebbia,
a lunghe file, tenendosi per i lembi dei vestiti, per non perdersi;
avevano un'abilità maravigliosa a misurar la profondità della neve
con le picche, a notte fitta, anche nei luoghi più scoscesi, a sentir
l'avvicinarsi del nemico dagli echi, e a riconoscere il suo passaggio
dall'erbe e dalle pietre rimosse; erano agguerriti dai dolori e dalla
vita selvaggia, resistevano a privazioni inaudite, si cibavan di
radici e di carni crude di lupi, mangiavan correndo su per le cime,
con l'armi sotto il braccio e le marmitte alla mano; dormivan gli
uni su gli altri, sui ghiacci, ammucchiati e serrati, come gruppi di
biscie, per non morire di freddo. Quasi tutti maneggiavan le armi
meglio dei vecchi soldati. Avevan formato coi giovani più arditi e
più forti una compagnia di cento archibugieri, chiamati archibugieri
volanti, ciascuno dei quali aveva il colpo quasi sicuro. Avevan dei
tiratori di fionde che, a una distanza dove non arrivavan le palle
degli archibugi, in tre tiri spezzavano il petto e il cranio ad un
uomo. Si servivano anche terribilmente delle pietre, facendole franare
dai monti; pochi uomini robusti, appoggiando le spalle e i gomiti alla
roccia, e facendo forza coi piedi o con le leve, smovevano, cacciavan
giù dei pietroni enormi, che precipitando si rompevano, davan la mossa
ad altri pietroni, squarciavan le colonne, spezzavano dei soldati in
due, e portavan via braccia e gambe e file intere, sparpagliandosi come
scariche di mitraglia, a cui l'angustia dei luoghi rendeva impossibile
di sfuggire. Inutilmente, andando all'assalto, i soldati cattolici
si facevano schermo coi mantelletti di legno, alti e solidi, o con
sacconi di paglia, o con fascine: i grossi pezzi di roccia, venendo
giù a orribili salti, con la forza di palle da cannone, travolgevano,
schiacciavano, stritolavano ogni cosa, e andavano a battere in fondo
alla valle, imbrattati di sangue e di visceri, come gigantesche
mazze da macello, scaraventate giù dalle cime. Anche tornavan tutti
in vantaggio dei Valdesi i cambiamenti improvvisi del tempo. Una
colonna d'assalto si trovava in pochi momenti ravvolta da una nebbia
densissima, come da una immensa nuvola di fumo portata dal vento:
i soldati non vedevano più nulla, gli ordini si scomponevano, tutti
andavano e venivano, urtandosi, chiamandosi, cercando inutilmente la
via del ritorno; un tamburo o un corno valdese che suonasse allora,
metteva lo sgomento in tutta la colonna; sentivano nemici da ogni
parte, si credevan circondati, si ammazzavan fra loro, si sbandavano
in tutte le direzioni, come un armento in mezzo a cui piombi una
saetta. Più d'una volta, pure, sbagliato il cammino, combattendo in
ritirata, incalzati da due parti, si trovavano serrati, agglomerati
in un luogo basso, sotto il fuoco dei Valdesi riparati dietro alle
roccie, agli alberi e alle capanne soprastanti, di dove non un colpo
andava in fallo, e non riuscivano a salvarsi che coprendo la via della
fuga di cadaveri e di feriti, e lasciando un branco di prigionieri in
ogni stretta. Altre volte, finalmente, spossati dalle lunghe marcie
e dalle salite affannose, disperati di vincere, sgomenti di quel
nemico infaticabile e invisibile che li minacciava da ogni parte,
che turbinava continuamente sopra di loro come un esercito alato, che
li decimava con mille armi e con mille arti imprevedute, misteriose,
sataniche, un invincibile timor panico li assaliva tutt'a un tratto
nel mezzo d'un combattimento, una paura fantastica della montagna, un
terrore pazzo di quelle roccie enormi e di quelle gole tenebrose, piene
di agguati, di spaventi e di morte, e allora si davano tutti insieme a
fughe forsennate, aggirandosi vertiginosamente fra i massi, scivolando
giù per i macigni umidi, pei rigagnoli convertiti in precipizi di
ghiaccio, saltando l'un sull'altro giù per gli scaglioni degli orti,
spenzolandosi giù dalle rupi con la corda alla vita, abbrancandosi agli
arbusti dei ciglioni, sospesi sopra gli abissi; e non sentivan più
comando d'ufficiali, s'accavallavano, si pestavano, si ferivano con
le proprie mani, buttavan via le armi, s'imbrogliavano nei vigneti e
nelle macchie come belve dentro alle reti, si lasciavan raggiungere,
si lasciavano uccidere, si buttavano nei burroni per salvarsi dagli
archibugi, si annegavano nel torrente per scampare alle lame, si
gettavan incontro alle lame per sfuggire ai macigni, morivan soffocati
nella neve per nascondersi agli insecutori. I più audaci, peraltro, i
capitani, e quelli che avevan prese le armi per ardor religioso, e chi
si trovava a combattere in luoghi senza uscita, resistevano ancora; la
battaglia si rompeva in molte mischie parziali, in combattimenti di
quattro, di otto, di dieci, che s'inseguivan poi lungamente, su per
le bricche, uno per uno, con accanimento feroce, urlando minaccie di
morte e di dannazione; duelli orribili s'impegnavano sopra eminenze
solitarie; ufficiali, raggiunti dopo corse disperate, sopra i dirupi,
cadevano sfiniti, offrendo inutilmente riscatto, come Luigi De
Monteil; altri, come Carlo Truchet, stesi in terra da una sassata, eran
sgozzati, e rimanevan cadaveri nudi sul ghiaccio; altri, scampati a
stento dalla strage, erravano per le nevi, scamiciati, insanguinati,
gridando al soccorso, mezzi pazzi, e tornavan poi al campo e alle case
loro, affetti di malattie strane, di cui morivano, o tormentati per
anni ed anni da un'allucinazione spaventosa, oppressi dalla visione
perpetua di quelle roccie, di quei precipizi, di quelle morti orrende,
di quelle fughe di pazzi frenetici, che empivan la valle d'ululati.
Ah! non eran mica più quegli antichi pastorelli valdesi, dolci come
agnelle, e pazienti fino al martirio! Trattati come fiere, avevan messo
le zanne e gli artigli. Si capisce bene come dovesse avere il braccio
terribile alla fionda il giovinetto a cui avevan torturato la madre,
e il polso d'acciaio alla picca l'uomo a cui avevano fatto a pezzi il
figliuolo; si capisce come dovessero andar molto addentro nelle schiene
dei fuggiaschi le lame confitte da tali mani. Avevano un bel gridare
i pastori, inseguendoli, ordinando che desistessero dal sangue, in
nome del Dio di misericordia e d'amore. Oramai non bastava più vincere
a loro; avevan bisogno di punire, di vendicare, di far scontare la
spietatezza con la disperazione, e la tortura con lo sterminio. Eppure,
anche a quelle feroci battaglie dava qualche cosa di solenne e di
augusto la religione. Quale spettacolo dovevan presentare sui monti
quelle lunghe schiere di Valdesi dai grandi cappelli e dalle chiome
alla nazarena, quei vecchi armati d'archibugi, quei ragazzi con le
fionde, quei giovani con le picche, quei pastori con la Bibbia, quando,
prima di combattere, s'inginocchiavano tutti insieme sulle roccie,
alla luce del sole nascente, alzando il viso e le mani al cielo, a
dimandar a Dio la vittoria; e dietro a loro le donne e i ragazzi, che
tenevan pronte le polveri e apprestavano i sassi; e più in su i vecchi
cadenti, i malati, gl'invalidi, i bambini, che pregavano e piangevano,
mentre giù nella valle i battaglioni si preparavano all'assalto,
apostrofandoli con un coro infernale di bestemmie e di scherni! Poi
sibilavano a traverso alla nebbia le palle, i sassi e le freccie,
i macigni franavano, gli sfracellati urlavano, le roccie stillavan
sangue, i caschi e le spade saltellavano di masso in masso, le colonne
si sfasciavano e voltavan le spalle, e ruzzolavano insieme giù pei
greppi e gli scoscendimenti morti, moribondi, panconi, alabarde,
tamburi, alfieri, pionieri, cavalli, stendardi, mentre sulle alture
dorate dal sole echeggiavano i salmi lenti e solenni della vittoria.
Maledizione del cielo! Tanti bei nobili piemontesi, uffiziali prodi
e ambiziosi, che speravano di raccontar le loro vittorie nei salotti
di Torino, tanti giovani volontari della fede, i quali avevan creduto
fermamente di andar a combattere con gli angeli al fianco, tanti
avventurieri ch'erano andati là come ad una facile guerra di saccheggi
e di stupri, che mortale rabbia, che angosciosa vergogna dovevan
sentire nell'anima durante quelle miserevoli fughe, quando, voltandosi
a guardare in alto, vedevano sulle vette quelle schiere di spettri,
quei branchi di straccioni, d'affamati e di reietti, che nessuna
forza umana poteva domare! Invano i frati, invano i missionarii, ad
ogni assalto d'esercito, aspettavano all'imboccatura della valle che
i vincitori ritornassero, trascinando con sè gli ultimi avanzi dei
miscredenti, per farne dei papisti o dei cadaveri. Gli ultimi avanzi
non tornavano mai. Non tornavano che i soldati dell'Inquisizione,
sbandati, stravolti, sanguinosi, portando sulle barelle i loro compagni
con la fronte spaccata, e celando per vergogna le croci delle loro
bandiere. Chi avrebbe detto allora a quei soldati e a quei monaci che
sotto a quella medesima croce bianca i cannoni di Casa Savoia avrebbero
sfondato un giorno le porte della città del Papa!
*
* *
Ci rimettemmo in cammino; entrammo in Pra del Torno. Par veramente
d'entrare tra le mura d'una immensa fortezza. Ai primi passi mi
ricordai di quel terribile _défilé de la Hache_, dove il Flaubert
fa morir di fame i ventimila barbari, nel suo romanzo _Salammbô_. Le
roccie altissime presentan delle forme strane di torri, di facciate
di cattedrali, di grandi archi di gallerie; alcune, di palazzi aerei,
ritti lassù nella regione delle nuvole, intorno ai quali volan degli
avvoltoi e delle aquile. Qua e là, a grandi altezze, si vedono ancora
dei piccoli tappeti verdi, dove pascolano le capre, che, a guardarle,
dan le vertigini; e piccole case, che par che stian su per miracolo, o
che siano appiccicate alle roccie come nidi d'uccelli. Più in basso,
altri gruppi di casette rozze e nere, appollaiate sui fianchi dei
monti, sotto la perpetua minaccia delle valanghe e dei franamenti
dei macigni, che qualche volta le seppelliscono e le sbricciolano
come gingilli di vetro. Anche là non vedemmo quasi nessuno, benchè
Pra del Torno sia abitato da circa cinquecento persone, tra Valdesi e
cattolici: qualche pescatore di trote giù tra i sassi del torrente, un
crocchio di bimbi all'ombra d'un agrifoglio, una donna che sfornava il
pan nero in un cortiletto. Il torrente non faceva quasi più rumore.
Dopo mezz'ora di cammino, in silenzio, arrivammo sopra una rocca,
dov'è un tempietto nuovo, d'uno stile misto di gotico e d'arabesco,
e dipinto di bianco e di rosso, come un padiglione di giardino. Ai
piedi della rocca ci son poche case e una chiesetta cattolica. La
valle pareva chiusa da tutte le parti, a sinistra dai monti che forman
la stretta di Balfero, a destra dai monti di Soiran o dall'Infernet,
ripidissimi, nudi, grigi, tutti roccia, che fendevan l'azzurro. Eravamo
come caduti in un agguato della montagna, imprigionati, segregati dal
mondo, in fondo a un enorme sepolcro concavo spalancato verso il cielo.
E tutt'intorno, nè un rumore, nè una forma, nè una voce umana. Non
c'era che una ragazza di dodici o tredici anni, una piccola vaccaia,
scalza, con un cenciuccio di vestito, seduta in terra davanti al
tempio, che leggeva un libro. Guardai il titolo: era una _Histoire de
l'église vaudoise;_ un volume di formato grande e elegante, stampato
a Parigi. Ne presi appunto con piacere sul mio taccuino. Era la prima
contadinella italiana che vedevo leggere.
*
* *
C'eravamo dunque arrivati, finalmente, a quel misterioso Pra del
Torno, fortezza, cuore, santuario delle valli. Là, nei primi tempi
dei Valdesi, era il seminario teologico dei barba, l'antica scuola
“educatrice di pastori, d'evangelisti e di martiri„ nella quale
s'istruivano i giovani alunni nelle sacre scritture e nel latino,
si copiavano i manoscritti della Bibbia, e si componevano trattati
religiosi; e di là partivan poi i nuovi pastori, a due a due, e si
spandevan per il mondo, esercitando la professione di mercanti, di
chirurghi e di medici, per diffondere più sicuramente la parola di
Dio, e andavano a trovare i loro fratelli di Calabria e di Puglia, i
loro discepoli di Moravia, d'Ungheria e di Boemia. Chi sa quali figure
strane d'asceti, di centenari venerandi, di giovanetti inebbriati di
fede, e quali maravigliose vite di umiltà e di sacrificio saranno
passate fra quelle montagne! Essi eran ben lontani allora, senza
dubbio, dall'immaginare che quell'angolo tranquillo delle loro valli
sarebbe stato nei venturi secoli assalito con tanta furia da tanti
eserciti, e irrigato tutt'intorno da tanto sangue. Qui, infatti,
fu come l'ultima ridotta del popolo valdese in tutte le guerre. Ci
accorrevano da ogni valle le famiglie, e gli avanzi delle famiglie,
e ci stavano dei mesi, come rannicchiate, campando d'erbe e di latte.
La compagnia degli archibugieri volanti, coi suoi due ministri, ci si
raccoglieva dopo le sue audaci spedizioni. Ci avean costrutto delle
case, dei forni, dei magazzini, dei mulini; ci fabbricavan delle
picche, ci fondevan delle palle. Migliaia di persone lavoravano,
pregavano, s'esercitavano alle armi, portavan le pietre e i tronchi
d'albero alle barricate, salivan sulle vette a spiare il nemico. Era
come un formicaio, un rimescolìo continuo di gente agitata senza
posa dal terrore, dalla speranza, dalla gioia della vittoria, dal
presentimento dell'ultima sventura. Perchè vedevan tutto di qui:
vedevan le colonne nemiche venir innanzi sulle creste nude dei monti,
scintillando ai raggi del sole, e discendere lentamente; e i Valdesi
salir di nascosto, ad assalirle di fianco; vedevan le mischie, sentivan
le grida, contavano i caduti, stavan là sotto immobili ad aspettare
la fine dei combattimenti che per loro poteva esser la prigionia,
la dispersione, la perdita dei figli, la tortura, la morte. Con che
forsennata gioia si dovevano slanciare incontro ai loro difensori,
quando precipitavan giù vittoriosi, buttando sulle rive del torrente
delle bracciate d'alabarde, di corazze, di morioni, di uniformi, di
pennacchi, fra cui rotolava qualche volta la testa d'uno dei loro
feroci persecutori! Di notte, nel cuor dell'inverno, dopo fughe piene
di pericoli, arrivavan qui delle frotte di fuggiaschi, a cui l'orrore
degli eccidi veduti toglieva per molti giorni la parola: arrivavano
dopo un viaggio di mesi e mesi, travestiti stranamente, e trasfigurati
dagli stenti, i pochi scampati alle stragi di Calabria; ci arrivavano,
scortati dai Valdesi, tremanti di freddo e di paura, delle donne e
delle ragazze cattoliche, affidate loro dai mariti e dai padri per
salvarle dalle violenze della soldatesca; e dei parlamentarii pallidi
e scorati, che annunciavano ogni accordo fallito, e un nuovo assalto
imminente. Ma c'eran pure dei giorni di festa in quel vasto baratro
pieno di dolore e di spavento; i giorni in cui scendevano dalle alte
montagne i deputati valdesi, reduci dalle lunghe peregrinazioni a
traverso all'Europa, portando i denari dell'Elettore Palatino, del
duca di Würtemberg, del marchese di Baden, dei cantoni evangelici
di Svizzera, della chiesa francese di Strasburgo, di tutti i loro
amici lontani, che mandavan l'annunzio di potenti intercessioni
presso la Corte di Torino, e la speranza d'un migliore avvenire: i
giorni in cui tornavano i loro missionarii dai paesi protestanti,
con un carico prezioso di libri sacri, trovati dopo lunghe ricerche
e raccolti a prezzo di gravi sacrifizi; i giorni in cui giungevano i
loro fratelli di Provenza, con le armi nascoste sotto il mantello, i
soldati ugonotti, disertati dalle guarnigioni di Lione, di Grenoble e
di Valenza, i rudi compagni dei Lesdiguières e dei Coligny, accorsi
per combattere e per morire con loro. Allora tutti ripigliavano
animo, i salmi risonavano più alto, i piccoli arsenali lavoravano più
fitto, le promesse e i giuramenti si ripetevano con nuovo ardore; e
le compagnie armate si slanciavano più impetuosamente dall'alto delle
loro montagne a soccorrere i fratelli. Calavano nella valle di San
Martino, piombavano nel vallone di San Germano a rintuzzare i monaci
dell'Abbadia di Pinerolo, si lanciavano nel vallone di San Bartolomeo
a battere i signori di Roccapiatta, correvano a liberare Taillaret,
volavano in aiuto delle popolazioni assediate di Bobbio, di Rorà,
del Villar, irrompevano nella pianura, a vendicar gl'incendi con
gl'incendi, e i macelli coi macelli, fino a San Secondo, a Miradolo, a
Osasco, a Cavour.... Ma n'andava assai più lontano il terrore; n'andò
qualche volta fino a Torino, fin nelle sale dorate dei castelli di
Rivoli e di Moncalieri, fin dentro al cuore dei duchi di Savoia, i
quali affacciandosi di notte alle finestre, torcevan lo sguardo da
quelle grandi montagne nere, come da una immagine di malaugurio e di
rimorso.
*
* *
Il Bonnet ci presentò il maestro, un giovanotto florido e allegro,
il quale abita una cameretta nell'edifizio del tempio; dov'è anche
la scuola, e una stanzina per il pastore. Quel bravo giovane, oltre
alle molte e rare qualità dell'ottimo insegnante, possiede quella
non disprezzabile di fare le frittate gialle come pochi, ma assai
pochi cattolici le sanno fare. Ci sedemmo intorno alla frittata nella
stanzina del pastore: una specie di cella monacale, nuda e bianca,
con un tavolo e quattro seggiole, pulita come se ci avessero lavorato
tutta la mattina quattro fantesche olandesi. Per tre piccole finestre
a sesto acuto vedevamo i monti circostanti, null'altro che i monti, i
quali riempivano tutti e tre i vani, come tre tendine verdi e turchine.
Non si può dire la quiete, la freschezza, la semplicità di quel
luogo. E la voce del pastore, dolce e lenta, era come una musica che
accompagnava e traduceva il linguaggio delle cose. Egli ci raccontava
dell'inaugurazione di quel tempio, fatta sei anni fa; alla quale erano
accorse tremila persone, che non potendo in chiesa, s'eran raccolte
in un prato, e molti oratori avevan parlato alla folla dall'alto d'un
tetto, apostrofando le montagne gloriose e terribili; dopo di che
Pra del Torno, silenzioso da quasi due secoli, era ricaduto nel suo
silenzio profondo, che non sarà forse più turbato per altri secoli.
Poi ci parlava dei suoi viaggi in montagna, di quando va a predicare ai
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