Storia di un'anima - 02

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a pensare un'anima per indole molto religiosa, anche quando la mente
non crede più ai misteri sacri del pane e del vino, ma che per una
deliziosa superstizione si accosta alla comunione per sentire Iddio
nel fremito dell'amore, per vedere Iddio buono e grande attraverso
alla diafana idealità della donna! Questo mistico è artista non
soltanto come frate Angelico, ma con impeti umani, come la calda
scuola de' suoi adorati cinquecentisti; onde il cozzo delle passioni,
e voci strazianti, e contraddizioni ed esecrazioni miste ad estasi
stupende, e dappertutto un incalzante presentimento di morte.
Il lettore troverà in queste centoquaranta pagine dell'_Anima_
qualche cosa di soverchio che ci fu necessario di lasciare così per
tenere insieme nella materia uno spirito troppo irrequieto; e spero
che non gli vorrà far colpa se nella foga dell'improvvisazione e
del dolore il giudizio di chi scrisse sulle cose e sugli uomini e il
tenore dello stile travalica di qualche linea la misura.
Il Bazzero fu un diligente coltivatore del dolore e lodando lui, a
questi soli splendenti, si può far credere che si voglia rimettere
in auge un genere d'arte che si estinse da un pezzo nelle proprie
lagrime.
Sappiamo anche noi che uno dei modi di rendere le nostre passioni
troppo intense e malaticcie è di rifiutar loro ogni consolazione, e
che nel moderato esercizio dei nostri affetti è l'equilibrio della
vita, e forse la felicità. Il Bazzero ebbe torto di rifiutare tutte le
gioie che questo mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse
o troppo volgari; ebbe torto di credersi più forte della natura, che è
la fonte della vita e di avere quasi una superstiziosa paura di ciò
che in qualche modo poteva fargli piacere. Sappialo che è meglio
allargare la vita in cerchi sempre più grandi fino a comprendere la
rassegnazione e la coscienza delle umane cose, anzichè restringerla
nella celletta del cervello per forza d'una morale contrazione.
Ma ogni più bel ragionamento non ha mai guarito un cuore afflitto,
e quand'anche il Bazzero non fosse figlio del suo tempo, malato per
troppa delicatezza morale, avrebbe avuto questi torti in comune con
quasi tutti i più grandi poeti dell'umanità che non conobbero le
matematiche leggi dell'equilibrio.
«No, scriveva il Rousseau, la natura non mi ha creato per godere; ella
ha distillato nel mio cervello il veleno di quella felicità
ineffabile di cui ha messo il desiderio dentro il mio cuore.»
È del Wagner la sentenza che non riesce a nulla se non chi è
sempre malcontento di qualche cosa.
Nel _Giornale intimo_ di H. F. Amiel, che suscitò recentemente in
Francia un interesse assai vivo, e che offre la storia di un altro
pensoso solitario, s'incontra spesso questa scoraggiante compiacenza
di voler essere infelice quasi a dispetto della natura. Anche Amiel
scriveva: «Diffido di me e della felicità perchè mi conosco.» E
se non fosse la paura di offendere la santa modestia dell'amico,
vorrei trovare nel Leopardi, nell'Heine, nel Byron, nel Tasso i suoi
fratelli maggiori.
Da questo stato dell'animo, prodotto alla sua volta da inevitabili
condizioni fisiologiche, deriva spesso quella specie di malattia della
volontà, che si trasforma in una mutabilità continua di
desiderii e di propositi, in una incostanza di simpatie, in trasporti
vivi e in profondi abbattimenti, come fu veramente la vita del nostro.
Per superare una difficoltà a cui sarebbe bastata una schietta e
franca deliberazione, noi lo vedemmo riprendere gli studi classici
all'Accademia di Milano, coll'intenzione di laurearsi in lettere, e
poi smetterli per darsi tutto allo studio delle lingue moderne, e
tentare la pittura, e maledire libri e pennelli, per tuffarsi nella
politica e nella carità, senza che nella sua coscienza entrasse mai
la persuasione che tutto ciò gli potesse servire a qualche cosa.
Sempre egli ritornava poi alla solitudine del suo studio, scoraggiato,
affranto, ammalato di desiderii infiniti, e cercava la pace al bromuro
di potassio.
Colla storia dell'_Anima_ si collegano gli scritti che seguono, cioè
gli _Schizzi dal mare_ o _Acquerelli_ com'egli li intitolò variamente.
Sono un poema marino, in una forma sciolta dal verso, ma risonante di
melodie interne, luccicante di colori e d'immagini, in cui l'anima del
Bazzero trabocca ne' suoi momenti migliori.
Se è vero che questo dovrà essere il sembiante della futura
poesia, il giorno che avrà rotto i ceppi della vecchia e della
nuova metrica, al Bazzero potrà forse venire anche una piccola lode
di precursore, che egli non sognò quando scrisse dietro il naturale
impulso.
La città, il popolo, il mare, i villaggi dell'incantata riviera
ligure, i marinai dalle schiene di bronzo, le bagnanti, i colori
dell'onda, il suo anelare immenso, i misteri delle sue profondità,
una chiesetta, una barchetta, un canto, un gruppo di aloe nodosi, dei
fiorellini, eccovi una serie di piccoli schizzi e di acquerelli,
animati da una continua emozione e legati da una erudizione abilmente
usata e argutamente presa a gabbo. Il poeta trasfonde il suo _io_ in
tutto ciò che vede e tutto vivifica di sè. Qualche pagina
scintilla d'una meravigliosa evidenza. Sembra che la parola stessa
rinunci alla sua logica natura per diffondersi in colore e in luce.
Leggete com'egli descrive i _grigi pennacchi_ dell'onda che vengono a
incalzarsi, a _sfioccarsi_, e il suo gonfiare e suo _colmo trasparente
verdissimo_ e il _concavo lenissimo_ e il fragore e il dibattersi delle
_ondine che sommuovono_ ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendono
con _troscie lucenti_ (vedi a pag. 158). La lingua, come sentite, si
ripiega sotto l'urto dell'impressione e scattano fuori delle arditezze
felici che piacquero di poi in libri meno significanti. Si avrebbe
torto di volere in una prosa comune ciò che scoppia continuamente
con impeto lirico, ciò che divaga nei mille capricci dell'ora,
dell'estasi, della tristezza, dell'umorismo e si perde nelle azzurre
profondità di una filosofia panteistica. Aprite il libro e leggete
subito, per farvi un'idea dell'uomo, il bozzetto _Sera_ a pag. 184. Se
vi pare che due dei nostri trecento lirici classici abbiano più
profondamente sentito il dolore di un tramonto, e lo spasimo
voluttuoso di quel dondolarsi a fior d'acqua e di quello spandersi
dall'anima sui colmi dell'onda, di quel vanare nell'infinito, dite
pure che il Bazzero è un poeta inutile di più. Per me, apro il
mio cuore, certi tratti conservano ancora dopo tanti anni una
freschezza che molte lodate liriche di quel tempo hanno perduto da un
pezzo: e rileggendo gli ultimi acquerelli, _Àncora_, _Stelle cadenti_,
_Barcanera_, ecc., non so perchè mi risuoni nell'anima qualche
accento dell'Heine, e a volte dello Sterne, senza essere nè
dell'uno nè dell'altro.
Non c'è imitazione, ma forse anche il Bazzero derivava da una fonte
comune, che ha le sue scaturigini in un'elevata coscienza della nostra
pochezza in faccia all'universo.
Il pessimismo, che fa tanto desiderare al Bazzero la morte e il riposo
sottoterra, non è come la rigida convinzione leopardiana un
precetto sterile, ma è un dolore che cerca riposo disciogliendosi.
Nel mare dell'essere egli non vuole affogarsi, ma diffondersi e coi
mille atomi accesi della sua coscienza fecondare per l'umanità
qualche divina idea consolatrice.
Qual poteva essere il suo modello in questo genere pittoresco? quanti
dei nostri pittori eccellenti che trattarono abilmente la penna
sappero fondere così intimamente le due arti come il Bazzero? Il
canto intitolato: _Genova_, comincia a pag. 217, con un'evocazione
storica che tocca spesso a un'epica maestà, e scorrendo attraverso
alle più luminose memorie della superba città, finisce in una
finissima e aristocratica visione della donna genovese. Gli ultimi
acquerelli: _Convogli_, _Osteria_, _Montanari,_ son quadri fiamminghi.
_Barcanera_ è un'elegìa carica di mestizia, che più si rilegge
e più persuade che la poesia esiste: _Buona vendemmia_ vince quanto
di più grazioso ha scritto Teocrito.
Spesso i legami sono così tenui e i passaggi così rapidi, che un
lettore comune crederà che le parti siano sconnesse, e accuserà
ingiustamente di incoerenza e di oscurità ciò che a una seconda
o a una terza lettura ricomparirebbe agli occhi suoi in una naturale
corrispondenza.
Si può pretendere che un lettore moderno legga due volte? In questi
_Acquerelli_ è notevole ancora come il Bazzero abbia saputo
trasfondere la sua vasta coltura storica nella poesia senza sciupare
nè l'una nè l'altra. Io non so s'egli pensasse mai a un grande
poema storico, ma è certo che da questi frammenti, come dai pezzi
d'un'antica rovina, si può arguire una costruzione artistica
d'immenso valore. Ciò che rimpiangiamo nel Bazzero è non solo un
dolce amico, un'anima candida, un caldo artista, una giovinezza
recisa, ma anche una grande speranza.
_Lagrime e sorrisi_: è un lavoro più giovanile che egli
pubblicò in una privata edizione, e del quale mostrò sempre di
fare un gran conto. È un seguito dì massime, di sentenze, di
consigli dedicati alla sorella sua e dentro già vi traduce il suo
genio e la sua coscienza. Il pensiero dominante in queste massime è
che l'amore e l'arte, più che ogni altra lusinga, più che ogni
altro compenso di gloria e di ricchezza, sono i veri beneficii del
vivere umano. L'amore consiglia la carità; amando s'impara a
pregare, e si ritrova Dio. Ama chi piange e le lagrime sono il
battesimo della virtù. Come la natura crea il nostro corpo, così
l'arte crea il nostro spirito.
Molta giovinezza, vale a dire pochissima esperienza, troverete in
queste massime, che non si possono nemmeno avvicinare a quelle del
gentilissimo Vauvenargues, morto giovane e saggio. La vita in quasi
tutti gli scritti dell'amico nostro è ancora al primo suo momento,
quando più la si sente che non la si comprenda. Ma la giovinezza
è la stagione dei fiori, e se anche con fiori non si possono fare
che delle inutili ghirlande, bene amiamo averne pieni i giardini e la
casa. Mi guardi il cielo dunque ch'io voglia ridurre queste massime e
l'arte tutta del Bazzero a un sistema, e rilevarne le frequenti
contraddizioni, e la non molta profondità pratica. Leggano le anime
più giovinette queste pagine e lascino che la dolce poesia
trabocchi dagli orli. Arido è il tempo e aride le ragioni del
tempo: beato chi s'inebria una volta nella sua vita! vien per tutti
necessariamente e troppo presto la stagione che la mente vede più
chiaro le cose del mondo nei loro rapporti relativi e proporzionali,
ma è sempre un giorno triste quando si scopre il primo capello
bianco. Il Bazzero non ebbe il tempo di affilare la sua filosofa fino
a farne uno strumento di morte contro sè stesso; e morì prima
che la critica di sè corrodesse la sua abbondante spontaneità.
Storia e filosofia sono ancora in lui, come nel primo stadio della
civiltà, allo stato poetico. Egli non seppe mai, come i
modernissimi scrittori fanno, rendersi il minuto conto dell'opera
propria e calcolare la quantità degli elementi che entravano a
comporre il suo ideale, farne dei prospetti, rintracciarne la
derivazione, pesare a piccole dosi la produzione chimica del proprio
pensiero.
Le _Corrispondenze_ segnano un passo dalla poesia colorita alla poesia
del disegno. Sono meno abbaglianti degli Acquerelli, ma più
consistenti. L'impressione va perdendo alcun poco della sua
vaporosità per concretarsi in un corpo. Ci sono ancora i prediletti
sfondi, i mari trasparenti e celesti, le vastità fantastiche, ma
uomini e cose cominciano insieme a farsi avanti e a tenere il campo
del quadro. La realtà viene incontro e lo scrittore dopo averla
accolta con giovanile trasporto, la segue, la insegue, la trova,
È da alcuni tratti di queste _Corrispondenze_ che si vede ancor
meglio quello che il Bazzero avrebbe potuto scrivere al volgere del
suo trentesimo anno, quando placato il torbido senso giovanile, fosse
venuto alla vita nella chiarezza d'un sentimento più riposato.
Le _Corrispondenze_ sono argomenti semplicissimi, che il Bazzero eleva a
una maggiore dignità. Pur scrivendo per conto di giornali di Moda e
di Sport non riusciva mai lo scribacchiare a questo povero uomo. Aver
la penna in mano voleva sempre dire per lui erigersi a interprete e
quasi indovino delle cose, come se la sedia del suo studiolo fosse il
tripode e Nume fosse per sè l'umano pensiero. Di qui forse una
soverchia abbondanza d'addobbi che pare quasi una verbosità senza
significato, e non è che una eccessiva riverenza; di qui anche una
risonanza nell'incedere stesso della parola, che pare gonfiezza e non
è che una musica che accompagna la venerata Idea. Chi ama adora, e
chi adora prega a lungo e canta. Ma fatta la debita parte alla foga
giovanile, poco gli manca per essere qua e là un modello di stile.
Cercate alla pagina 302 la descrizione d'un paesaggio alpestre sopra
Oropa e giunti là dove egli parla di una vacca che appare col muso
_gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila
giù dalle mascelle spostate dal ruminare, che sbarra gli occhioni,
e colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi
di rododendron...._ leggete, giudicate. Non è più l'infinito
azzurro, non è più la vaporosa visione aleardiana, è una
vacca viva in mezzo a un armento vivo.
Le _Melanconie di un antiquario_ che chiudono il presente volume sono
variazioni artistiche e spirituali sopra il _Natale_ e altre feste
dell'anno, pubblicate come articoli d'occasione nel _Pungolo_ di Milano.
Era troppo lusso per i soliti abbonati. Qui troveranno la luce giusta.
* * *
Degli altri scritti che non entrano in questo volume non dirò che
per cenni. Al solo elenco non basterebbero dieci pagine, ma vien da
sè che il valore non sia uguale in tutti, come non uguale era la
stima che ne faceva l'autore. Un grosso libro di _Confidenze_ egli
teneva in pronto per la stampa, e in parte anche pubblicò sopra
qualche giornale.
E la raccolta delle lettere che _Lina_ scrive ad _Ermanna_ sui casi della
propria vita e di quella delle sue amiche. Non c'è una gran favola
e un grande intreccio, ma ne forma il tema l'assidua osservazione
delle piccole cose e dei grandi sentimenti. In questo volume, dove
abbiamo le confidenze originali dell'autore, ci sembrò inutile
riportare quelle ch'egli affidò a un gracile personaggio
fantastico, sebbene ci dolga che molte pagine descrittive restino per
ora sottratte alla curiosità degli artisti. Il nome di Lina e di
Ermanna ritorna spesso nelle memorie insieme a quello di un _Giuliano_,
titolo d'un dramma storico in cui versò molta amarezza, Un romanzo
tentò su _Gian Galeazzo Visconti,_ e tre volte ritornò sopra il
_Buondelmonte._ Abbozzò una _Cinzica_, un _Baldo_ e una quantità
infinita di schizzi, d'impressioni, di pensieri, di ricordi, che,
sebbene inediti, si rivedono nella loro matura integrità negli
_Acquerelli_, nelle _Corrispondenze_, e nelle _Lagrime e Sorrisi_. In un
secondo volume, che tratterà più specialmente di studii
artistici e archeologici, troveranno più naturale il loro posto le
sue ricerche storiche su _Matteo I Visconti_, sugli _Italiani alla prima
crociata_, gli opuscoli sulle _Armi di fuoco_, _Sulle armi antiche nel
Museo Archeologico di Milano_, le _Riviste artistiche_ sull'Esposizione
nazionale di Milano, e quegli altri scritti d'arte che gli meritarono
le lodi dei conoscitori. Fra gli altri il direttore dell'_Auf der
Höhe_, dottor L. von Sacher Masoch di Lipsia, gli scriveva in data
del 10 gennaio 1882;
"_Illustrissimo signore!_
"Il di lei nome celebre non solamente in Italia, ma che ha passato
già le Alpi ed il mare e la raccomandazione del signor professore
Angelo De-Gubernatis di Firenze, mi hanno ispirato il desiderio di
chiedere alla V. S. Ill. il favore di contribuire alla mia rivista
internazionale. "_Auf der Höhe_" recentemente fondata. Noi ci
siamo proposti di proteggere e coltivare le belle arti e le scienze
in bella forma per un pubblico educato, ma senza eccitare contese e
disputazioni. Nomi come Wallace, Flammarion, De-Gubernatis,
Mantegazza, e altri che abbiamo l'onore di chiamare i nostri
collaboratori, Le saranno una garanzia per le tendenze della nostra
rivista. Ci recheremo a onore se la S. V. Ill. ci concedesse il
favore di diventare il nostro collaboratore e fissasse l'onorario
per il di Lei pregiatissimo lavoro. Aggradisca, ecc."
Il sentirsi a un tratto chiamato da una voce lontana, il vedere il
nome suo messo a lato dei più illustri cultori degli studii, ecco
il primo e l'ultimo compenso della sua penosa, oscura, travagliata
carriera letteraria. Poco potè rispondere all'invito, perchè
nell'agosto di quello stesso anno la sua mano era fredda per sempre.
Altri compensi tuttavia egli seppe procurare al suo cuore
coll'esercizio delle più sante virtù civili. Alieno in tutto dai
raggiri politici, volle pur entrare nella Associazione Costituzionale,
che rispondeva meglio alle sue idee d'ordine, e vi si adoperò
molto, offrendo la sua penna d'artista per tutte le scritturazioni
d'ufficio, a redigere verbali, a compilare manifesti. Molti giovani
amici, spiriti indipendenti, deploravano e deridevano costui che
andava a servire un partito, o come si dice dai furbi, a
compromettersi; qualche giornaluccio avversario gli lanciò sul viso
le solite impertinenze.
Egli se ne turbò, soffrì, come soffriva sempre atrocemente delle
grandi e delle piccole cose, ma rimase al suo posto. Era meno furbo e
più coraggioso.
Della nostra Congregazione di carità non fu un comune patrono, ma
un santo e zelante operaio.
Vi passava le più belle ore della giornata, e nominato visitatore
dei poveri, andava per le case dei più miserabili a studiarne i
dolori con quell'indulgenza che perdona anche gl'inganni. A me
raccontava poi le sue tristi impressioni e lo stringimento del cuore
che provava nel discendere certe scale. Fu dei promotori delle Cucine
economiche, dove rimase tutto un inverno a distribuire le minestre,
alacre, arguto fra i poverelli, che cominciavano a distinguere il
signor Bazzero fra i cento che compiono il loro bene con solennità.
Nè meno caro divenne agli Artisti della Società Patriottica.
Prendeva allegra parte alle loro feste, schizzava con tratti rapidi e
sicuri armi antiche, con una conoscenza di cose unicamente sua, con
tanto gusto che il Pagliano e altri lo consigliarono a pubblicare un
album in zincotipia, che è ancora molto apprezzato negli studi dei
pittori.
Alla pittura ebbe sempre genio, sebbene non vi si dedicasse di
proposito. Amò fin da fanciullo delineare tramonti coloriti,
navicelle perdute nelle burrasche, boscaglie cupe tormentate dai
venti. Della sua dottrina artistica e del suo gusto diede un largo
saggio colle recensioni sull'Esposizione di belle arti pubblicate nel
_Pungolo_ di Milano, l'anno 1881, e in molti articoli illustrativi di
cose vecchie e nuove, che egli regalava ai giornali e che non andranno
perdute. Benemerito fu anche nel riordinare e nell'illustrare le
Armature del Museo Archeologico, e quelle del museo Poldi-Pezzoli.
Sempre disposto a far sacrificio della sua persona nei giorni di
parata, era invece il più tenace e sempre il primo nei giorni di
lavoro; non ebbe, nè dimandò ricompense ufficiali.
A Limbiate, in mezzo ai contadini, egli si sentiva più libero e
più allegro. Quando vedeva una frotta di ragazzi in strada,
chiamava a sè il più grande e gli dava qualche soldone perchè
comperasse e distribuisse con giudizio una manata di zuccherini. La
frotta scalza pigliava la corsa per la piazza come uno stormo di
passeri, gridando: _Viva el scior Ambroeus!_
Egli correva in casa, ridendo, fregandosi le mani, col suo passino
leggiero che non si sentiva, e per quel dì la gioia era con lui e
cogli altri.
Ciò non impediva che il giorno dopo la nostalgia degli spiriti
pellegrini sulla terra non rattristasse di nuovo la sua fronte.
L'amore, l'arte, un nascosto e doloroso desiderio di gloria, un
credere altrove, sempre troppo remota da sè, una felicità che
non esiste che in noi, il sentimento esagerato della propria pochezza
sociale in contrasto con un non proporzionato concetto della propria
individualità solitaria, le continue apprensioni, pur troppo non
false, del suo presto finire, tutte queste erano le cagioni che lo
facevano comparire ora torbido e rinchiuso, ora sospettoso e
incostante,
Da qualche lettera risulta ch'egli meditò più volte la morte, e
vi andò vicino: altre volte pensò di entrare tra i monaci
dell'Ospizio del gran San Bernardo. Fu religioso perchè fu buono e
amò sua madre: ma più ancora perchè fu artista. Ogni passo
verso una perfezione è un passo verso Dio, che sta nei cuori; nè
la Intera Bellezza si può desiderare senza credere a lei come alla
luce. La sua non fu la fede d'un catechismo, ma neppure un delicato
epicureismo che teme, non credendo all'infinito, di rifiutare la
più grande delle umane emozioni. Egli è pio e sincero anche
quando sembra disperato.
Di una tale esistenza non comune, alla quale s'intreccia un delicato
nome di donna, voi troverete nella prima parte di questo libro i
documenti. E il libro anzichè una stonatura, come temono i suoi
amici, crediamo che possa essere un raggio di sole che ritorna e nel
suo complesso un prezioso documento a tutti quelli che studieranno
l'evoluzione del pensiero e del sentimento italiano in quel tumultuoso
periodo che succede alle battaglie dell'indipendenza, quando
l'entusiasmo che le ha compiute diventa il primo imbarazzo del
vincitore. Tutto è disordine ancora, non si sa quel che si vuole,
ma si vuol molto, da tutti. Il linguaggio epico urta colla
necessità ufficiale, il passato ingombra il presente e impedisce
alle giovani forze l'andare avanti.
Ambrogio Bazzero non è solo in questa evoluzione, e per non parlare
che di una piccola scuola milanese, mi pare che i nomi del Rovani, del
Tarchetti, del Praga, del Dossi e del Boito abbiano con lui molti
punti di affinità artistica. A tutti costoro mancò forse una
ricca suppellettile accademica, ma tutti amarono l'arte con geniale
sfrenatezza; la vita uccise i migliori.
D'Ambrogio Bazzero non vorrei che l'antica devozione mi avesse tratto
a dire cosa maggiore del vero. Che se a chi lo conobbe e a chi lo
conoscerà fra poco dovesse sembrare il mio giudizio troppo
infiammato, io non mi pentirò d'aver consumato il mio fuoco a
riscaldare questa cenere benedetta. Da due anni il povero Bazzero
giace sotterra, e più che da due anni giacevano rinchiuse e morte
le ignorate pagine dell'anima sua. Non si risuscita un morto senza un
gran grido.
* * *
Il tifo che l'aveva già colpito nel 1873, lo assalì una seconda volta
ai primi dell'agosto del 1882. Fu una malattia rapida, senza pietà,
che il fratello Carlo descrisse in una potente _Commemorazione_ che ha
scosso ogni cuore. L'anima di Ambrogio aiutò a dettare quelle pagine
così vere e così tremende che narrano un fatto tanto comune, il
morire. Così termina quello scritto:
"Era la mattina di lunedì 7 agosto, il giorno che egli aveva
stabilito per la partenza pel suo giro di svago.
Alle 9 e 45 l'infermiera, fatto il segno di croce, cominciò a
pregare a suffragio dell'anima.
Il suo volto rimase atteggiato ad un dolore sdegnoso, le labbra
sottili strette, l'occhio semi-aperto, io spirito malinconico
abbandonò la terra, lasciando sul volto i segni dell'angoscia,
supremo addio alla luce; si dileguò addolorato così come s'era
sempre pasciuto di segreto corruccio e di desolazioni.
Venni da mia madre, m'inginocchiai e con uno scoppio del mio pianto
feci più violento il suo, che s'effondeva invocando Dio.
Mia madre, mio padre ed io baciammo un'ultima volta la sua fronte
tiepida ancora, e il nostro sacrificio era compiuto."
La notizia della sua morte giunse quasi improvvisa agli amici e fa un
colpo di fulmine. Povero Bazzero! Ci ritrovammo tutti al tuo funerale,
e ci parve che in te morisse la nostra prima giovinezza.
Ho ancora presente quella bella mattina di agosto. La gente riempiva
la strada innanzi alla sua casa. C'erano le rappresentanze della
stampa, della Costituzionale, della Congregazione di carità, gli
amici della _Palestra_, della _Vita Nuova_, dell'_Eco dello Sport_, i
parenti, i poverelli. Pareva che tutti, anche quelli che l'avevano
incontrato una volta sola, affettassero un certo orgoglio d'essere al
suo funerale, per dimostrare in qualche modo d'appartenergli. Due cose
ebbi occasione di osservare nel mezzo della mia commozione: che la
morte è una rivelazione; che i buoni sono forti.
Dal portichetto si entrava nella sala d'armi a terreno, vasto locale
dal nero soffitto, dalle finestre acute a piccoli vetri rotondi, pei
quali la luce entrava fredda a intirizzirsi sull'acciaio delle
armature appese alle pareti. In un angolo un camino con poca cenere, e
un vaso funebre sopra; di qua di là cassoni antichi, d'un colore
cupo, con sopra elmi, e appoggiati agli spigoli delle vecchie targhe.
Nel mezzo era il feretro dell'ultimo amico dei cavalieri, fra quattro
antiche torcie e molti fiori. Al cimitero non gli mancarono saluti
pieni di lagrime. Uno gli disse:--Beato chi anche a trent'anni lascia
un'orma di sè!--Quell'uno era Carlo Borghi, anima e simpatia della
_Vita Nuova_, anch'egli una speranza dell'arte e del paese. Non passò
l'anno che la morte, giudicandolo colle sue stesse parole, le
trascriveva pel suo funerale. Noi crediamo ancora che i morti
s'incontrano in qualche luogo.
In alcune sue _Ultime volontà_ il Bazzero lasciava scritto: «Il
giorno da me tanto desiderato, o miei parenti, è giunto. e non
piangete: è il giorno in cui voi finalmente conoscerete l'anima
mia.» E dopo aver raccomandato la sua donna e le sue ceneri, pregava
così: «Per mia iscrizione queste sole parole:
AMBROGIO BAZZERO
NATO............... MORTO...............
_Tout ce qui finit est si court!_
Erano le parole della sua donna, nelle quali spera di rivivere.
I giornali cittadini di tutti i partiti dissero le lodi del defunto:
la famiglia gli eresse un sepolcro, dove a capo della cassa, pose le
sue intime memorie e le lettere della sua donna. Oggi ne richiama lo
spirito e lo raccomanda sommessamente all'avvenire.

EMILIO DE MARCHI.


ANIMA.
Incipit vita nova.


NEL MIO COMPLEANNO.

Limbiate, 15 ottobre 1876.
AL DESERTO.
L'anno scorso, nel mio compleanno, scrivevo dei pensieri che erano
l'espressione dell'anima mia, e li dedicavo a mia sorella: quest'anno
ancora voglio scrivere dei pensieri e li dedico al _deserto_.
_Deserto_: ecco l'espressione dell'anima mia! Che cosa scrivo?...
Si possono tradurre a parola le convulsioni dell'anima, le contorsioni
di mano, gli stringigola, i groppi, le memorie fallite e le speranze
fallite? Posso scrivere lo stato dell'anima mia?... Eppure voglio
sfogarmi: voglio lasciare un foglietto che attesti questo tristissimo
compleanno. Lo leggerò io? quando? come? Lo leggeranno gli altri?
quando? Quando io sarò morto, quando frugando entro le mie carte, i
miei parenti diranno:--Aveva un po' del matto!--e mi compiangeranno.
Lo leggerò io? Non so perchè, ma fra l'immenso buio che mi ottenebra
la vita, un po' di lume cade su quella scena ineffabile che ho sognato
mille volte:--cioè:--una donna, la mia _donna_, spierà me che
apro il cofanetto di ferro.... Apro e tolgo anche questo foglio. Lo
leggiamo insieme.
Se oltre i trent'anni mi aspettassi l'ineffabile felicità che
sogno! Consento ad _amare poco_ la mia famiglia, ad essere misantropo,
ad essere così scoraggiato, per apprezzare te doppiamente, o mio
ideale, o mio unico segno, o mio _completamento!_ Ti desidero, ti
supplico, ti voglio! Quante volte oggi satanicamente ghignai alla
canna del mio fucile, dicendo:--Dentro c'è la morte!--e guardandone
la nera bocca, e invidiando la suprema voluttà della morte..., mi
sorrideva a un tratto l'idea: Avrai pace, anima! Nel futuro avrai
tante gioie a compensarti i dolori, gioie tranquille, pure,
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