Storia di un'anima - 18

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gli regge religiosamente il _narguilè_ e s'abbatte coll'ambasciatore
russo: una signorina francese che fuma la sigaretta getta uno sbuffo
che va a sfioccarsi fra le tese di un tricorno da piovano bergamasco:
un professore col cappello a tuba cede la destra ad un _musseto_ che
trotta colla sua greppia: due dame che combatterono per la toletta, si
passano vicino e la gonna della trionfatrice fruscia ironicamente
sulla coda della vinta: un giovanotto _incendiato_ ed ardentissimo
s'incontra col _Pompiere_ del _Fanfulla_ e, guardate combinazione! una
signorina accetta il braccio e il bisbiglio di un signorino. Ma chi ve
la dipinge tutta questa folla! Sul piazzale si addoppia la vita alle
prime battute di una quadriglia. Il prezioso filo d'acqua del conte
Lelio Piovene, là sotto un portico del settecento, nella nicchia
umida, ferrugginosa, magnesiaca, con un lumino scoppiettante a lato,
sembra piangere di dover colare giù nelle bottigliette che si
spediscono a Milano, a Venezia, a Verona, lui che la salute la
vorrebbe regalare _in luogo_, accompagnato dall'allegria e dal corteo
degli asinelli. Il ringhioso leone repubblicano, dagli archi bugnati,
guarda giù, come un protettore, e se a vece del messale di San
Marco, stringesse l'altro storico di Recoaro lo dovrebbe aunghiare un
po' meno crudelmente, perchè ci sono pagine di color roseo e
celeste. La folla si versa nel salone del Vicentino; là la tombola,
i lancieri e le ciarle. E l'amico milanese, che non ha osato guardare
le teste femminili, là le vedrebbe innondate di luci e di sorrisi,
contornate da capelli biondi, neri e castagni, tante volte adorne
nobilmente di mazzolini di _edelweiss_, di ciclami, di margherite, di
grappolini di sorbo! E la cura? la cura felice, per cui s'è mosso
l'amico, affrontando sette ore di ferrovia, i pericoli di un tramway
snodato come una biscia, le scosse di una vettura a capponaia? La cura
non ha orario e non ha metodo e non ha noia. Bevete e bevete.
* * *
Uno sguardo all'elenco dei forastieri ed ho quasi finito. Abbiamo
avuto qui tanto corone da far invidia al fondatore dell'archivio
araldico del Vallardi: i nuovi venuti da Milano sono il marchese C., i
conti T., la nobile B.; da Torino, la contessa B. di G. e il
commendatore V.; da Bologna, la contessa A. Volete anche della
politica alle acque? È arrivato quel nostro insigne concittadino,
che è il senatore G., prefetto di Verona, l'onorevole O.,
l'onorevole R., e il nostro marchese V., se pure egli non desidera
d'essere posto fra i filarmonici.
* * *
Proprio l'ultime righe e ho finito. A Vicenza ebbi il piacere di
conoscere quel cesellatore famoso, queir ageminatore, quello
sbalzatore, quell'incisore che è il Coltellazzo. Come a lui,
così a voi non nascondo un mio schietto convincimento: il nostro
Gaggino a Milano è più amoroso dell'antico, è più ingenuo,
è più fino; ed oltre all'arte del fare, conosce gli accorgimenti
sagacissimi dell'irrugginire e dello sdrucire. Il Coltellazzo è
creatore e libero: il Gaggino è archeofilo. Concludo dicendo che
tra questi monti, a Valdagno, ho conosciuto un dotto istoriografo
della vallata, il signor Giovanni Soster, il quale raccoglie
documenti, pubblica monografie, incetta cose antiche, sì che la sua
casa può dirsi un piccolo museo di memorie locali.
DA SCHIO
(NOTE COL LAPIS.)
20 agosto 1880.
Da Recoaro, per Rovegliana e i sentieruzzi montani, l'arrivare a Schio
sul dorso di una somarella orecchiuta, coll'armoniosa compagnia di un
_mussaro_, che, menando botte da orbo sulla groppa paziente della
_barberina_, fa rimbombare anche la nostra carcassa di ventiquattro
costole; e lo sdrucciolare di sella colla disinvoltura di un pievano
che stringa sotto le ascelle il parapioggia di cotone rosso e finisca
di sonnecchiare sull'eterno salmo dell'eterno breviario non deve punto
garbare alle mie gentili signore, che conoscendo già Schio, non
possono soffrire di vedermi tanto goffo e impacciato da non rispettare
i civili costumi di questa città dell'industria, sì moderna e
sì famosa. Accetto il consiglio: _Wer reisen will, tret'an am
frühen Morgen und lasse heim die Sorgen!_ rinuncio agli sproni e
alla nobile gualdrappa, prendo a nolo una prosaica carrozza, mi ci
accomodo poltronescamente, e mi lascio trascinare sulla strada
maestra, che corre ai piedi dei monti, fra colti e vigneti; dolcemente
passa un _colle_, per selvette cedue di castagni e massi lucenti di
micaschisti, e, per valloncelli e distese di campi, attraversando i
paesi di Malo e di San Vito, ci conduce a Schio.
* * *
Malo, con circa 3000 abitanti, presso la sinistra riva del Torlo,
antico feudo dei vescovi di Vicenza, è un paesotto lungo lungo, che
qua e là presenta qualche facciata di casa a linea severa, qualche
finestra coi vetrucci tondi, qualche porta di tipo schietto, insomma
qualche dettaglio che sa meritarsi uno sguardo da noi, avvezzi
all'uniforme e merciaia pezzenteria di tante nostre borgate, a cui la
ferrovia portò la secchia dell'imbianchino e i portenti artistici
del ferro fuso. Se Malo sia proprio stato costrutto nel secolo VI dal
gotico Amali e se la classica chiesa parrocchiale sia fondata sulle
mine di un castello, lo domanderei al gentilissimo signor I. Rossi dei
Club alpino italiano, a lui che mi fece imparare per queste valli
tante belle cose antiche, ed io tutte le perdetti di memoria, quando
sì fieramente e sì potentemente sussultai di gioia e di
meraviglia nell'opificio di Schio. Così pochissimo so dirvi di San
Vito: che sia stato percosso dalla peste del 1630 lo lessi in una
lapide nel muro del cimitero: che conservi nella chiesa parrocchiale
alcune pale del Maganza, lo credo benissimo, giacchè lo trovo in un
libro stampato.
* * *
Schio, con circa 10,000 abitanti, con giurisdizione distrettuale su
quindici comuni, giace lungo il torrente Leogra: a nord ha i monti
Novegno e Summano; ad ovest, il Corneto, il Bufelan, la Cima di Pasta;
a sud-est, la pianura veneta. Il Leogra, unitamente al Gogna, per
mezzo di un canale, detto la Roggia, dà ai terreni una rete
irrigatoria per più di 700 ettari, e agli opifici una forza di
oltre 800 cavalli. L'agricoltura qui non spiega alcun sistema
particolare: anzi, il lombardo che è abituato ad ammirare
meritamente i propri latifondi, come una mappa, sì ordinati,
geometrici, proficui, qui si scontenta nel vedere le viti inacidire i
grappoli, nascondendoli nelle chiome amiche degli olmi, il grano-turco
soffocato nell'ombre, i gelsi lasciati egoistici padroni dell'aria e
della luce, le falde delle montagne improvvidamente disboscate. Ma il
visitatore tace quasi a sè stesso il suo malumore, perchè al
disopra di questo arruffio di verde e sullo sfondo delle montagne
denudate, vede sorgere le immense torri che sbuffano il fumo del
carbon fossile e l'alito possente delle macchine a vapore. È Schio!
Quando si pronuncia il nome di questa città, non pare possibile si
possa dire _Schio antica_ e _Nuova Schio_. Schio antica? mi osserverete
anche voi con fare dispettoso. Ho capito benissimo. Lascio quindi ai
foglietti del mio taccuino le annotazioni su alcuni particolari dello
stile gotico-francescano (secolo XV), sugli stalli di legno (1504) e
sulla Vergine del Verla (1512), che vidi nella chiesa di San
Francesco; certe altre sul San Nicolò, nel 1536 dato ai cappuccini,
sulla Santa Trinità (secolo XV), sull'antica rocca, distrutta nel
1512, e sul tiglio secolare. Ricordo solo il nome del domenicano
Giovanni da Schio, morto verso il 1266, il predicatore alla famosa
pace di Paquara; quello di Gerolamo Bencucci, benemerito a Giulio II,
Leone X, Clemente VII; quello di Giordano Pace, precettore d'Ippolito
Aldobrandini; di Francesco Gualtieri, pittore; dei due valorosi
Manfron: di Bernardino Turinzio, letterato e fondatore dell'Accademia
olimpica di Vicenza; di Francesco Grisellini, che fu nel secolo scorso
segretario della nostra Società patriottica... Chiudo i fogli del
mio taccuino, condannando al vostro oblìo tanti altri nomi
illustri, perchè voi, le mie signore, vi spazientite quando io
piglio la penna d'oca del professore, e, badate! torcete anche la
faccina dal muso riccioluto di messer Nicolo Tron, patrizio veneto,
che, col busto sì impettito, dalla sua nicchia rococò sul
palazzo municipale, guarda giù la Schio nuova, come un nonno la sua
nipotina diletta. Ma io vi condanno a prendervi l'inscrizione latina e
il numero romano. _Nicolao Trono, equiti divi Marci, utilium artium
patrono scientissimo, primi Scledi mercatores m.h.p.p.a. MDCCLXXII_.
Questo magnifico signore, per la Repubblica ambasciatore in varie
contrade d'Europa, dall'Inghilterra, dall'Olanda, dalla Francia,
imparò a conoscere e a derivare macchine, sistemi opranti per
l'arte della lana, che, stabilita in questa vallata nel secolo XIV,
subiva le fortunose vicende della vita politica italiana. Per opera
sua principalissima, nel 1738, sotto la firma Stal e Conig, coi
capitali di vari soci, sorse un opificio con 44 telai, 500 impiegati
nell'arte, su 4000 abitanti di Schio, nel luogo ora occupato da parte
della sezione Rossi del Lanificio, verso il giardino, sulla via
Palestro. Subite varie mutazioni, l'opificio di Schio, nel 1818 pel
prezzo d'it. L. 7800, era arricchito del primo apparato di macchine a
cardare, per opera del benemerito signor Francesco Rossi, il padre
dell'illustre senatore Alessandro, unitosi allora in Società col
signor Eleonoro Pasini, padre del geologo fu senatore Lodovico. Per
parlarvi dell'industria dei pannilani dovrei farvi un grosso libro di
economia e di meccanica industriale: e in mezzo a quei mastri di
Mercurio tra un fragore di Vulcano, coll'entusiasmo mezzo artistico,
mezzo poetico, tutto italiano, di un giovane che si sente trascinato
ad inneggiare alla strapotenza del progresso, come raccapezzare
un'idea? I magazzini sembrano una dogana di città mercantile, le
macchine a vapore con ritmo possente scuotono le gallerie, i telai
danno una completa immagine della celerità, dell'ordine, della
perfezione; gli operai hanno l'aria severa di chi sente la coscienza
del primo dovere dell'uomo, il lavoro. Più di 500 persone, dice il
signor Rossi, sono occupate, nelle due vallate del Leogra e
dell'Astico, per l'arte della lana, e in massima parte dalla
Società del Lanificio, fondata nel 1873, per iniziativa del
senatore Alessandro Rossi, col capitale di 24 milioni di lire. Ed
eccomi coi nomi del Tron e dei Rossi, a parlare della _Schio nuova_. Lo
scopo del fondatore di questa città del progresso fu di rendere
possibile all'artiere di diventare proprietario, a poco a poco, di una
casa sana, comoda, libera, costruendogliela o cedendola al costo.
Così, 16 ettari di terreno sono per più di metà occupati da
costruzioni, o isolate, o unite, od aggruppate, con orti, corti,
giardini; e non c'è quella monotonia che incoglie nella città di
Sir Titus Salt, Saltaire, dalle larghe strade, dalle piazze ornate di
sontuosi edifici pel culto e per l'istruzione, dall'elegante parco.
Monotoni non saranno i quartieri ad Essen, ma ivi, come a Saltaire, le
case, date a pigione dalla ditta industriale, non sono acquistabili.
Oggidì a Schio le case nuove sono presso a 100; gli abitanti 500,
di ogni condizione. L'illuminazione è bastante, copiosa l'acqua; le
vie macadamizzate, e, tranne la principale che è comunale, son
tuttora in manutenzione privata.--Così si espresse il signor
Francesco Rossi nel 1878: come io debba modificare i suoi dati non so
precisamente: certo è che Schio nuovo, sulle cui mura è
scritto--_il lavoro e il risparmio nobilitano l'uomo_--cresce e
crescerà e starà a modello di civile progresso e di vera morale
educativa. Non vi sono taverne col tanfo del vino e dell'acquavite,
nè gazzette colle acri fermentazioni dei romanzi e della falsa
declamazione, nè spassi romorosi che facciano perdere la
tranquilità dell'onesta vita dell'artiere. Ma vi sono le Scuole
elementari, l'asilo, l'ospizio di maternità, la Palestra, il Bagno,
il Lavatoio pubblico, il Panificio, ecc., ecc. Il sentimento che si
prova visitando questi luoghi è tutto di dignità e d'amore.
L'Asilo solo meriterebbe un libro popolare che lo illustri: la
direttrice è la madre dei bimbi, le signorine istitutrici ne sono
altrettante sorelle, la educazione, mirando tutta al cuore, sembra la
più facile, la più persuasiva, la più proficua, per questi
figli d'operai che sino dai tre anni sono avvezzi ad aver sottocchio
il Nazzareno soave che invita a sè i piccini, e che grandicelli,
nell'opificio tergendosi il sudore, leggeranno la scritta della
massima morale, civile e religiosa:--L'operaio e il padrone sono
eguali dinnanzi a Dio.


SANT'ANNA.

(Cannobio) 10 Agosto 1881.
Ecco, sbarco dal piroscafo, attraverso la piazza dell'_imbarcadero_ vedo
sì e no il nostro Conte Gilberto Borromeo, il nostro giovane
letterato, l'E. B. e senza voler interrogare se c'è ancora sotto
questo cielo quella gentilissima signora milanese, la L. C., dalle
trecce nere, e quella bionda figlia di Genova la superba... (Niente!
niente per ora!)... e senza voler sapere, dico, se i bagnanti alla
Salute siano proprio oltre il centinaio,--salgo su pei viottoli del
Cannobio... Al monte! al verde! all'azzurro! E la strada dopo i
colatoi fra casetta e casetta, i portici semibui, le faccende delle
botteghe, l'umida tenebria di un lavatoio e le spavalde accigliature
di un torracchiotto, la strada esce fuori a sgranchirsi tutta al sole
e a distendersi nella valle, qua ombriata da un profluvio di verde,
là sciacquata quasi dai torrentelli colla sabbia argentina....
Passo dinnanzi allo stabilimento, dò un'occhiata alle muriccie su
cui siedono cinque o sei giovanotti, ascolto un nome di un bell'astro,
sbircio un lembo di paradiso fulgido e gaudente in gonnella e un mondo
sciancato, sbillicante, riottoso al moto, e su e su e su... vado a
sciogliere il voto alla mia Sant'Anna di Traffiume.
* * *
Sono solo.
Ecco il paesaggio mi si allarga dinanzi. Monti a destra, monti a
sinistra, monti di fondo. I frassini, i tigli, gli aceri verdeggiano
in sinfonia sul davanti e si fondono cromicamente colle nebbie
azzurriccie della valle Cannobina: alle falde, qualche striscia di
sentierucolo nei colti, qualche bugigattolo nelle vigne, qualche tocco
di rosso in una macchietta all'ombra d'una siepe: su nel folto del
bosco, le linee taglienti delle strade alle valli. E in alto il riso
azzurro di un cielo profondissimo.
Allo svolto di un muretto, dove finiscono gli scheggioni ammucchiati
del viottolo e cominciano le fughe serpeggianti delle scorciatoie sui
pratelli; ecco un suono di campana... O Sant'Anna benedetta!
Nello stesso paesaggio di toni verdi e freschi ecco uno specchio
lucente su un fondo translucido e sabbioso, di qua una parete di rupe
a picco e bruciacchiata dagli uragani, di là un'altra massa
fantastica di torracchiotti, di gobbe, e di arruffaglia, nel mezzo un
anfratto nero, come la portaccia dell'ignoto, e su a cavalcioni
dell'abisso, un ponticello bianco, due ciuffi di verde, e una
chiesuola--la mia chiesuola col suo campanile a berrettaccio di mago e
la sua voce tutta santa, tutta cara, tutt'ingenua, come la preghiera
d'una mandriana.
E su, e su, e su. Dal ponticello si spia giù quell'orrida spelonca
dei primi e mostruosi misteri tellurici: le pareti levigate dalla
rabbia delle alluvioni, gli spacchi angolosi dei terremoti, i morsi
giganteschi delle bufere, le bave isputacchiate dall'acque e le rogne
dei licheni, i rovai dalle foglie sanguigne e la cupa opacità delle
caverne, e il torrente senza colore, senza pace, senza pietà, che
si storce, si gonfia, si avalla, si morde, si flagella e rimugghia con
una sola nota di tinta e di suono--lo spavento.
* * *
Sono solo.
E quando la campanella ha cessato i suoi rintocchi, per raccogliersi
pensierosa come negli echi della vallata, mi pare.... È o non è?... Mi
pare e non mi pare di udire una cantilena che vien giù dal bosco, un
suono basso di accordi e un suono argentino quasi di lamenti... È una
preghiera... Sì, sì... Ed ecco qualche cosa che si fa spiare dall'occhio:
un brulichio lungo, lentissimo, a pochi colori. È una processione. Sì,
sì, una fila, due: c'è qualche lume abbacinato, qualche crocione d'oro,
qualche cotta scialba di pievano, e qualche giubba verde di sindaco o
qualche stendardo rosso...
Sono dugento povere donne montanare, bronzine, robuste, nei loro abiti
scuri e colle scarpaccie di panno: sono altrettanti mariti e padri e
fratelli e figli, abbruciati, tozzotti, colle tonache delle
confraternite a zone rosse e gialle, a zone verdi e nere.
Sono alpigiani di un paesello della Val Vegezzo. Da quasi un mese si
è inaridito il filo d'acqua vicino agli scheggioni delle loro
capanne, e per sè e pei bimbi e per la mandra vengono giù ad
implorare una Madonna del Gaudenzio. Non hanno più schiuma nei
torrenti delle valli native, e per non cadere ancora sfiniti colle
otri sulle spalle pei sentieri calcinati dal sole, arrivano colle
gonne groppose e sudate e colle croci sulle spalle e le croci nel
cuore, a strisciare contro le vostre sete profumate e i nostri
paraseli di pizzo...
Oh che dite le mie signore, che sorridete, il dito mignolo in aria e
l'anulare carico di gioie, frugando con una pagliuola nel fondo di una
tazzona ghiacciata?
* * *
Non son più solo.
Una signora si fa portare una seconda tazzona e fra un sorso e l'altro
mi dice che alla Salute c'è la gentile nostra contessa Dal Verme,
la bellissima Signora P. A., la augusta signora T. M., e ci fu là
brillante nobilissima L. C., e in un crocchio a lodare il mio amico
architetto Giachi per le sue opere edilizie intorno alle doccie, le
signore M. C., F. A., E. B. L'egregio nostro barone Galbiati mi
racconta che lo stabilimento è pieno zeppo e la vita che vi si
conduce è molto quieta di giorno, la cura e i lamenti pel caldo...
e qualcuno dice anche per le bistecche; a sera un po' di musica,
qualche trillo di fanciulla dilettante, qualche commento solitario ad
una romanzetta in _core e amore_, alle 10 1/2 a letto. E tutto è
finito. Vedrem.


IL CONVENTO DI PONTIDA.

Ritorno ancora colla mente all'antico convento: e m'aggiro in que'
luoghi, cercando un posto solitario ove raccogliermi ad ordinare ed
esprimere le mie vive impressioni.
La storia vi lasciò il dignitoso suggello delle memorie: il genio
dell'artista desta gli echi del passato col fremito del presente.
Così è: la polve giace polve, ma la favilla dell'Arte risuscita
le anime e riscrive nel volume della vita dell'oggi le passioni delle
remote età. I grandi avvenimenti sono come grandi colonne, travolte
nel fiume del tempo: le acque passeranno e passeranno, e l'oblìo
cancellerà sempre i languidi profili del passato: ma a chi si
affaccerà a contemplare la immensa massa dell'acqua, fremeranno
sempre, rigurgitando, almeno colla spuma, le onde, sovra i ruderi
sepolti.
L'uomo può dirlo?... Ohimè! egli lo spera! L'uomo è l'atomo
turbinato dal tempo: e la Vita, grande poetessa con una missione, o
inconscio giullare del caso, sembra compiacersi a creare i contrasti.
Il convento di Pontida venne edificato da Alberto di Sogra, in
occasione che si ricostruiva la chiesa del villaggio, che è pare la
presente. Alberto stesso ne fu primo priore, e per consenso dell'abate
di Cluny vi fece osservare la regola cluniacese. Nel 1121 vi morì
prete Liprando, il prete famoso, il quale nei tumulti avvenuti in
Milano per la quistione del celibato ecclesiastico, ebbe mozzi naso e
orecchie: lo stesso che per provare la _simonìa_ dell'Arcivescovo
Grossolano si offerse di passare in mezzo al fuoco,
Nell'anno 1119 il Comune di Milano ampliò notevolmente il convento,
e vuolsi vi aggiungesse un ospedale. Nel 1167 vi fu giurata la santa
lega: io ne vidi le lapidi memorande: sembravano scolpite colle punte
delle spade: _Foederatio longobarda Pontidae.--Monaci posuere_. Nel
1372, divenuto asilo de' guelfi bergamaschi, fu assediato e distrutto
da Barnabò Visconti. Nel 1492 i Benedettini di Santa Giustina di
Venezia subentrarono ai cluniacesi, obbligandosi a pagare annualmente
alle Procuratie 150 ducati aurei. Nel 1798 fu soppresso e fatta la
vendita de' beni.
A' nostri dì, in quel convento, pei corritoi e per gli androni
strillano i bimbi, e dalle porte delle celle vedi le mamme curvate sul
paiuolo bergamasco, impugnando il matterello, lo scettro della
famiglia, e tramestando la polenta d'oro.
Sotto gli archi Sansoviniani del solitario cortile, cantano le allegre
setaiuole, variamente affaccendate: e la fanciulla che tira su la
secchia all'orlo del pozzo de' frati, sorride, contemplandosi in
quello specchio d'acqua oscillante.
Si trova bellina: e il damo de' monti le ha già regalata la collana
di coralli. Ahi! il curato l'ha già vista rossa in volto...
Nelle quattro gallerie, sull'istesso cortile, nelle quali il nome
_Biblioteca_ intagliato su un cappello di porta, richiama alla mente il
vecchio sapere scolastico, senza fremito di vita _«de omnibus rebus et
de quibusdam aliis_,» nelle gallerie regna la sola scienza del
guadagno, e modernamente signoreggia coll'abbondanza di bozzoli
ammucchiati.
--Erano più felici i nostri vecchi? Siamo più felici noi?--Lo
domando al soprastante.
E questi mi risponde.--Colla seta si fanno aspate, faldelle,
trafusole, matasse e matassine, per mettere in commercio.
In uno stanzone vanno e vengono le fanciulle, in un altro squilla
incessante un campanello applicato a quel congegno, per cui si passa
la seta al provino per ben valutarne il tiglio; in un altro fra i
libri mastri, le corbe, i robinetti, le lucerne da filanda, gli
schioppi, i vagoni e le gabbie da caccia, canta tuttodì un merlo
vivace, a piena gola.
Dappertutto è vita: la prosa efficacissima e necessaria si è
sovrapposta co' suoi strati moderni alle lapidi poetiche, illuminate
dalle luci dell'Arte.
Ma dove lascio te, povera chiesetta del convento? È una cosina
graziosa, di stile puro, colla facciata a finissime modanature: la
porta rettangolare, e le due eleganti finestre, dimezzate da un agile
pilastrello a reggere gli arconcelli egregi, rispondono nel cortile
Sansoviniano: due altre finestre, assai semplici fra la semiluce che
accresce il rispetto alle cose antiche, di tratto gettano nell'anima
una corrente di vivissimi pensieri, perchè dai loro bruni telai
lasciano vedere uno spicchio di cielo sereno, smagliantissimo, e
l'allegro fogliame di un orto innondato di sole. Cosicchè peni a
vedere lo sconnesso pavimento, su cui si prostrarono i frati, e sotto
al quale, sopra i loro seggioloni disfatti, immagini gli antichi
scheletri, confusi nelle tetre ironie della tomba: nè puoi godere
il bell'affresco dell'altare, un po' secco, ma sentito; nè la
ricchissima fascia che ricinge di ornati, di figurine, di fantasie, di
colori, le somme pareti della chiesetta.
--Ove saranno tante anime? Quando, proprio qui, dov'io sorrido, elle
supplicavano, si sentivano più forti dell'oblìo e del tempo?...
Ove saranno?... Così a me sempre piace interrogare il mistero.
Rispondono dalle grandi stie allineate lungo i muri i polli chiassosi,
beccandosi acerbamente, perchè l'uno ruba all'altro il posto a
mangiare. Se quei polli mi rappresentano la _folla_, ciascun di essi
è veramente _filosofo_.
Alla bellissima porta si presenta un figuro lungo, un chierico di
sessant'anni, bianco, cogli occhi orlati di rosso, il quale, facendo
dondolare una cotta grigiastra al disopra di un soprabito abbondante,
ci domanda in bergamasco:--Hanno detto che vogliono vedere la chiesa
grande?
--Andiamoci.
Proprio in quel momento dal campanile, che sembra pesare sulla corte,
dal manto del San Giacomo di rame, scoccano gravemente le ore, e il
ronzio si perde sotto gli archi e nel lungo corritoio.
Questo mette capo allo scalone del convento, un convento esso stesso,
amplissimo, solitario, colla sbarra cadente, coi gradini, che, a
volerli popolare di macchiette, esigerebbero una processione da _Corpus
Domini_, a' tempi de' buoni Comuni, nè più, nè meno.
Siamo alla chiesa. Venne fondata nell'anno 861, da Aganone, vescovo di
Bergamo, e ricostrutta verso il 1087. È grave edificio di
architettura gotica, a tre navate, con maestosi piloni, spaziosa, con
un quadro che vuolsi del Palma, ed altri grandissimi. Ma
sgraziatamente fu tocco dalla manìa del nuovo: quindi è discorde
di stili, appesantito nelle volte da poche opportune pitture di
trafori, ripulito dalle memori tracce dell'antichità.
La sacristia risponde alla chiesetta del convento, ed è, com'essa,
bella, elegante, colle linee graziose dell'arte risorta. In un andito
si vede in bassorilievo l'arcigno e potentissimo Lione di San Marco; e
due marmi a rozze figure del disperso sepolcro d'Alberto (1095).
Confesso: in tutti i luoghi percorsi non ho avuto un pensiero che
fosse mio, proprio mio, sempre frastornato da traffici moderni.
Ma c'è nel convento un angolo romito, dal quale l'occhio, posandosi
sul verde de' monti o sul cielo di crepuscolo o sulle abbandonate
aiuole di un orticello, chiama e richiama dall'Ignoto il seducente
bianco fantasma della meditazione: e la Poesia induce nell'anima la
dolcezza dell'assopimento.
C'è un loggiato dove vorrei la mia sosta tranquilla. Un
portichetto, a quattro o cinque colonne, sporge sul melanconico
terrazzo: l'erba cresce sui sentieruzzi, segnati solo da qualche
gentile orma di piede piccino che va ad una siepe di lamponi: un fusto
di colonnina col capitello sorge a vetustissima memoria: una vasca
d'acqua nel bacino immoto e nerastro riflette le foglione di una
zucca: i ragni tessono i loro fili d'argento. Di fronte il Canto, a
monotoni castagni: lì basso biancheggia, con dolcissimo fascino, la
quieta e rolonda cappella per la Pace: di fianco si allarga la valle,
e il bagliore dorato di un tramonto di settembre involge lutto in un
amplissimo velo da fata...
Come lo ricordo!
Vorrei un seggiolone a grandi borchie, colla pelle che s'accartoccia a
lasciar sfuggire l'imbottitura, vorrei un coroncione da frate sul
dossale, e un arazzo a' piedi, e un liuto con una corda spezzata, e
due fiori appassiti. Vorrei stancarmi nel contemplare e nel pensare:
vorrei chiudere gli occhi a poco a poco, e aprire l'anima ai sogni e
sentire una musica che blandisce, ed odorare un profumo. Strana cosa
è il sonno!... Sento una calma, un riposo, una vicina oscurità.
Non è poi strana cosa la morte!... Che è?... La oscurità
incombe. Chi ha spezzato le corde al liuto? Quelle rose non erano
fresche al mattino?... Nessuno risponde.


FONTANELLA.

Fontanella è una chiesa, assai antica, in onore di santo Egidio,
alla falda meridionale del Canto. D'ogni parte circondata da solitarie
selve di castagni e da vigneti, su un ermo piazzaletto fra la più
triste poesia, sorge il rozzo edificio di carattere robusto, colle
finestre che sembrano feritoie di castello, col campanile che è una
vera torre feudale. Il tempo l'ha dipinto colle indefinibili tinte che
sono sulle sue ali. Lungo il fianco sinistro della chiesa, un
portichetto deserto sfonda con melanconiche linee e con un buio
fantastico: qui sotto si allogherebbero tanti seggioloni tarlati, e
qui si aprirebbe un libro da coro, e si indovinerebbero sul pavimento
gli ammuffiti avanzi della stola, delle pianete, delle cocolle, e le
gocce di cera de' funerali, e gli asperges e i secchiolini: su due
mensole al muro posa, polveroso, semiaperto, sconnesso un cofano da
morto... ricordo forse del vicino ossario... Niente di antico qui
sotto; vecchio il loggiato, vecchi i pensieri, cioè coll'uggia
dello squallore. Antichi invece sono gli avanzi di case, sotto un
tappeto d'edera, a destra della chiesa: e antico è l'avello che
giace pesantemente, scaldando al sole il granito, serrando l'ombra e
l'immobilità: non un nome... E la Natura ci irride crescendo
intorno le ortiche dell'oblìo.
--Che cosa è la vita dell'uomo?...
Chi requia qua dentro? Fu felice o infelice? Fu uomo o donna?... Si
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