Storia di un'anima - 20

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un mistero.
Le cellette mortuarie di stile gotico c'invitano colle loro linee
severe, colle reliquie degli affreschi, coi frammenti delle epigrafi.
Vediamo! Ognuna di esse racchiudeva il monumento di qualche cospicua
famiglia: dove giaceva il pesante avello, a due versanti, coi quattro
orecchioni, o dove si levavano sulla groppa dei lioni le colonnine
torte a reggere l'arche coi tabernacoletti gotici, ai dì nostri
cresce la mal'erba, fra i tritumi e i calcinacci: le muraglie hanno le
tracce dell'ugna del tempo: gli archivolti non portano più le nere
cortine di morte, ma si lasciano addobbare dalle ragnatele. Queste
cellette erano numerosissime: e chi coll'immaginazione sapesse tutte
riedificarle, degradarle in squallida linea, colorirle tristamente, e
fingere dalla porticella del coro la sfilata dei monaci salmodianti,
quegli potrebbe a messer l'abate chiedere l'eterna pace. Si dorme
tanto bene all'ombra dì tramontana, nelle abbazie dei cistercensi,
fra il silenzio degli uomini e della natura!--In una celleita,
Manfredo Archinto supplica Nostra Donna: in un'altra, una lucertola
viva serpeggia sull'ala di una santa morta: in un'altra, san Bernardo,
imprudentissimo, presenta al cielo la Guglielmina boema...
Nel secolo XIII, nella Lombardia, già infestata dalle sètte
degli eretici, comparve la bella Guglielmina. Chi era? La dicevano la
figlia di un re di Boemia. Con chi era? Con un bambino che le morì.
Monaca, fuggita, amante: tantissime se ne dissero. Essa abitò a
Milano, e fu di tale pietà, che i monaci di Chiaravalle e le
Umiliate, e tutto il clero, e tutta la nobiltà pigliarono ad
amarla, compreso un tale Andrea Saramita: e salì, e salì, la
Guglielmina salì fino alla dignità sopranaturale: fu della
quella che salverebbe giudei, saraceni e mali cristiani, fu detta
papessa, santa, divina. Ma umana, morì, lasciando di voler essere
sepolta a Chiaravalle.
Quivi giacque venerata, e ad onore di lei i monaci, in tre
solennità annuali, distribuivano pane e vino. I discepoli rimasti,
una Manfreda, il Saramita, Albertone da Novate, continuarono a
celebrarne i misteri.
Nel giorno di Pasqua del 1299 la Manfreda indossò degli abili
pontificali, e, costituita una gerarchia ecclesiastica femminile,
cantò litanie, predicò, disse messa in casa di certo Jacobo da
Ferno, con epistola letta da Albertone, con vangelo composto dal
Saramita. E vogliono gli storici che queste adunanze finissero con
scandali tali e tali criminosi piaceri, sì che la inquisizione di
Sant'Eustorgio col fuoco volle _purificare i corpi et le anime
inquinate_. Si fece un gran processo, arse la catasta in piazza della
Vetra, e Guglielmina si trovò scacciata dal paradiso e buttata
all'inferno.
Chi parla della Guglielmina finisce sempre così:--È da
domandarsi se era veramente colpevole la Guglielmina, o se solo lo
furono i suoi seguaci. È questo un problema la cui soluzione merita
un attento studio di storico imparziale.
Ma se sapessi dove sono i documenti!


MALINCONIE
DI UN ANTIQUARIO.


NATALE IN FAMIGLIA.
_Warum ein unerklärter Schmerz
Dir alle Lebensregung hemmt?_
GÖTHE.

Dinnanzi alla villa barocca, tutta fradicia di pioggia e tutta chiusa,
come un sepolcro, si stende un gran viale allagato, e di fianco le due
siepi di carpini si perdono giù giù, fino a confondersi colle
loro tinte brunastre nei colti uniformi, su cui la triste giornata del
Natale addensa un torpido coltrone di nebbiaccie.
E un povero rampichino tra quei negri viluppi di stecchi, che un dì
erano piante squadrate a piramidi ed a vasi, di ramo in ramo; svolazza
salticchiando, la testolina in basso, il pennacchietto arruffato, le
piume impacciucchiate, e viene e viene, e viene qua ai cancelli
panciuti della corte, alle tortuose scalee dei terrazzi, alle fredde
fenditure delle imposte, da cui il verno scolla le vernici
squammate...
Ecco la facciata della villa. Un Giusepp'Antonio Castelli la ideava
con tutta la tracotanza e il fasto dei Tiepoleschi: un gran parruccone
sporco la approvava col cipiglio arcigno e la penna d'oca alzata, come
un ritratto dell'Ospedale. Ecco le finestre avvolte nei cartocci; le
finestrette tonde con un contorno da maniglia o con davanti ciascuna
un busto di Cesare romano; le mensole sbrodolanti il gesso dalle
arselle; i cornicioni spezzati dalle curve e dalle volute di cento
contrabassi; le inferriate gremite di viticci e di nodi e di
fogliaccio; i pilastretti a gozzi aggrappantisi su alla gronda; le
nicchie sgangherate colle statue delle virtù araldiche che
somigliavano alle buone ciambellane di Filippo V di Borbone; e
l'attico gibboso e tormentato sotto il peso di uno stemma in cui
c'entravano quaranta _maggioranze_ di Castiglia e di Leon.
E il povero rampichino, frugacchiando alle fredde fenditure delle
imposte, si lamenta co' suoi zilli capricciosi che si perdono contro i
vetrucci rotti, i piombi caduti, il vano oscuro della finestra.... È una
formica morta assiderata due mesi fa, quando la strascinava una gran pula
di frumento? È un vermiciattolo ch'era giunto la notte prima dalla
peschiera a musaico alla pozzetta d'acqua fra due mattoni spezzati? Che
cos'è? che cos'è che becca il rampichino?... Becca, si fa sottile, becca,
s'appiatta e s'arruffa, becca, ficca la testa sotto ai bilichi, e trova
un posto ove la soglia è corrosa dalle antiche pedate, ed entra nel buio.
* * *
Oh come i morti s'obliano nello squallore, giù nei saloni del vasto
appartamento! V'è una semiluce che piove solo dalle finestrette ad
occhi di bue, dietro le schiene degli Augusti in pietra arenaria:
v'è il silenzio che là là sembra ingoiarsi con un freddo da
cantina per le porte spalancate: v'è un abbandono che scolora tutto
cogli strati di polvere e di muffa, e che dà a tutto un aspetto di
remoto, di sconfinato, di sepolto, colle tristi simmetrie
dell'immobilità e del sonno. Una sala s'apre nell'altra, l'altra
nell'altra, l'altra nell'altra, via, via... Da questo capo a quello
del palazzo la fuga di quei sepolcri fastosamente rococò è
infinita: tutte le finestre chiuse: scorciano i vani delle porte, come
un lungo corritoio fra i scenari di un palcoscenico deserto, e i
sopraornati confondono i loro fogliami flaccidi, i loro motti
sbiaditi, i loro canestri pastorali, i loro trofei militari, le loro
donnaccie nude, come una fila di grotteschi cartelli d'anniversari nel
magazzeno di una cattedrale.
E il rampichino salticchia verso un'alcova. Nella prima sala vi sono
le pareti bianche, il soppalco colle travi e i contentini dipinti a
sfogli e reticelle a gesso e colla, intorno allo zoccolo di finta
Macchiavecchia quaranta seggiole coperte di una bazzana con una ninfa
in guardinfante, e nell'alcova coi putti di stucco, fra due canterali
a pancia gravida, un lettone sui cavalletti e tutto giallo a passamani
d'argento.
Lì, o uccellino, in mezzo secolo non è mai sonata una parola di
vita. La marchesa vedova, quella che aveva aggiunto all'attico della
villa lo stemma colle quaranta _maggioranze_ di Castiglia e di Leon, vi
giaceva ammalata fradicia da sette anni non parlava più del marito,
se non per consolarsi che, a conto di messe, era già in luogo di
salvazione: facendo chiamare dalla vecchia nutrice i tre figli ogni
sera per benedirli, al primo diceva «marchese Asdrubale,» alla seconda
«donna Ines,» al terzo «don Apollonio.» E, raccogliendosi tutta nei
suoi pensieri, taceva sino alla sera del giorno appresso: a meno che
le arrivasse qualche corriere di Spagna con una lettera di un principe
di Madrid che le annunciava la prossima gravidanza della moglie, o
qualche procaccio da Milano colle benedizioni dell'abbadessa vecchia
di Santa Radegonda o dell'arcivescovo capo-rito di Sant'Ambrogio.
Taceva lei per delle settimane: ma susurrava qualche servo del morto
padrone che quel malore che le rodeva l'ossa era come, che so io, come
uno struggimento per una grande passione ambiziosa insoddisfatta: e
che il marito non aveva voluto un certo dì ch'ella seguisse re
Carlo II (Dio lo riposi) a una caccia presso la Bellingera e che il
futuro marchese, il primogenito Asdrubale, fosse già stato promesso
ad una principessina madrilena che non era nata...
Basta: in una sera di Natale, in quel lettone, quella madre... (madre
la direte?)... quella squallida ammalata, moriva rassegnatissima,
togliendosi dall'anulare un anello coi cinque suggelli dei cinque
feudi della famiglia, e ponendolo sull'indice del suo primogenito: con
una carta piena di ghirigori istituiva il maggiorasco: al marchese
Asdrubale ordinava la seppellissero nel palazzo, e fissava le libbre
milanesi della cera: a donna Ines e a don Apollonio raccomandava, loro
vita natural durante, di pregare per lei... che era morta.
E il rampichino salticchia verso un crocefisso. Nella seconda sala
ancora le pareti bianche, il soppalco colle stesse dipinture, intorno
allo zoccolo di finto Belgiazzo, due tavoli dorati a gambe di capra, e
trentadue seggiole coperte della solita bazzana con una Venere allo
specchio, e nell'alcova con una santa gesuitesca in marmo nero, ai
piedi di un lettone, come il primo, una seggioletta impagliata, e un
inginocchiatoio col grande crocefisso.
Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di speranza. La
triste secondogenita, che nella sera di Natale rammentava quell'altra
notte, quando la madre le moriva, e che contava ancora angosciosamente
i pochi mesi, i mesi tormentosi della sua libertà, prima d'entrare
nel monastero, si contorceva sotto le coltri, si strozzava il pianto,
udiva le campane per la pianura buia, s'immaginava i babbi e i bimbi
che si avviavano alla chiesa, i bimbi! i bimbi!... E il povero
crocefisso fu trovato alla mattina dalla nutrice dischiodato dalla
croce e con alcune chiazze di sangue recente sull'avorio.
Donna Ines è morta abbadessa di Santa Radegonda.
E il rampichino salticchia verso un gran librone. Nella terza sala
torno torno alle pareti quattro macchinose scansie che dalle
graticciate di rame lasciano vedere tutti i volumi giallacci della
teologia seminaristica, la volta, in gloria, dipinta con una Fede
seminuda e cicciosa, un solo tavolotto con carta, penna, calamaio,
spolverino, e un solo seggiolone colle orecchie al dossale: il gran
libro è su un leggìo da coro.
Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di fede. L'infelice
terzogenito, che rammentava quella notte di Natale, quando gli moriva
la madre, e quella mattina, quando avevano veduto il crocefisso della
sorella colle macchie di un sangue caldo, e che aveva sfogliato tutti
i libri più devoti per sapere com'erano orrendi i tormenti
dell'inferno, lì, sul seggiolone, quando tramontava il giorno e gli
pareva di udire i canti delle mamme... sì, sì, una folata di
vento gli portava dagli alti finestroni della chiesa un ronzio di voci
felici, credenti, devotissime a Dio... Quando calava la sera sui campi
e la pace sulle mamme e sulle bambine, egli, di sotto al San Tomaso
in-folio, traeva un pugnale aguzzo e... E il povero librone fu trovato
alla mattina dalla nutrice divelto dalla copertura e con un buco che
lo passava irosamente parte a parte, come una cornata del diavolo.
Don Apollonio è morto cardinale di Santa Prisca.
E il rampichino salticchia verso venti, quaranta, ottanta quadri di
antenati e di battaglie e di assedi, verso un pellicano impagliato,
verso una spada d'argento di Filippo V, verso un trono di feudatario,
verso un tronino di Dio... Tutto l'appartamento ha le porte spalancate
e le finestre chiuse: il silenzio si fa sempre più oblioso e il
verno più sconsolato.
Nella quarta, nella quinta, nella sesta, in tutte le sale continuano
le mura bianche e i soppalchi dipinti o le vôlte stuccate, le
seggiole a gambe di capra e le poltrone a ranocchio, e le alcove
deserte. Ecco qui nella galleria pendono gli antenati di toga, di
spada, di rocchetto, tipi cipigliosi del Tanzo, del Nuvolone, del
Porta, ma tutta gente che si era fatto onore per la famiglia: le
antenate coi guardinfante o colla tonaca, faccie lunghe del Cerano e
del Legnani. ma donne benedette dal Signore nella prole o nelle
visioni. Ecco nella sala delle battaglie, sulle tele crostose di un
Borgognone di terza mano, dinnanzi alle fantastiche bicocche dei
turchi, i guerrieri indiavolati e nel fumo dei cannoni cristiani i
nemici che se la danno a gambe. Ecco nel museo le bestie impagliate
che vissero nel parco: il pellicano ha una scansia di vetro colla
cupola: un Crivellone ha abbozzato, nero e rosso, intorno alle pareti
i cani che leccano il sangue, i cinghiali che ruzzano a salmontone,
gli uomini che muoiono sbudellati. Ecco nell'armeria, fra le labarde
dei servi d'anticamera, una spadina _a zuccotto_, donata nientemeno che
da un re, il quale non sapeva tenere la penna ad Utrecht. Ecco nella
sala delle udienze un gran trono, velluto cremisi ed oro, per
assidersi a dopo pranzo a giudicare, con diritto di vita e di morte, i
vassalli famelici tutto l'anno. Ecco nella cappella un tronino
barocco, offerto al buon Dio a peso d'argento, perchè a un tanto
per oncia rimetta i peccati a tutta la prosapia.
La gloria dell'appartamento incomincia dal santo alcova della vecchia
testatrice e finisce col confessionale pagato dall'unico erede dei
cinque feudi.
In questo regno, o rampichino, non è mai sonata una parola di
gioia.
Eccolo il marchese Asdrubale!... Ebbe ventimila pertiche di terra
grassa, questa villa, un palazzo ionico in Milano; creò cinque
benefizii per cinque oratorii dei morti, sciolse dai livelli due
monasteri, istituì varie messe pei poveri giustiziati a San
Giovanni _alle Case rotte_; ebbe perfino trenta cani bracchi, segugi,
mastini, da leva, da ferma, dodici amici senatori, una moglie
infeconda e che gli visse accanto circa settantotto anni, sette mesi e
qualche giorno. Eccolo il vecchio Feudatario di Filippo V, di Luigi I,
ancora di Filippo V, e poi di Ferdinando VI, e poi di Carlo III!
Largo! fate ala! rendetegli l'omaggio!... Viene dal tronino di Dio, e
passa innanzi al suo trono di feudatario, alla spada d'argento del re
Borbone, al pellicano impagliato, ai venti, ai quaranta, agli ottanta
quadri d'antenati e di battaglie e di assedi.... Largo! fate ala!
rendetegli l'omaggio!... Ma se non si muove alcuno per le sale!... E
lui, da un capo all'altro del palazzo, procede vestito di nero e con
quell'anello in dito.... Non c'è più nessun mascherone dei
Tiepoleschi che, ghignando, racconti altre istorie, dopo quella della
mamma, dell'abbadessa e del cardinale.... Il vecchio si fa innanzi,
barcollando, viene, viene, passa dalla biblioteca, passa dal secondo
alcova, passa dal primo alcova, viene, viene, cercando un primogenito
anche lui.
Il marchese Asdrubale è morto grande di Spagna.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Si è fatto sera. La vecchia e
i tre figli sono tutti sepolti nello buca gentilizia della cappella,
in quattro cofani di velluto nero, tutti e quattro distesi su quattro
seggioloni disusati, sotto una pietra incisa coi cranii e le clessidre
e gli svolazzi che annodano le tibie.
È la sera di Natale. La madre e i tre figli sono tutti seduti nel
salone della festa al così detto pranzo di famiglia, sulle seggiole
di seta rossa, chinati sulla trapunta tovaglia di Fiandra, sotto la
luce di una gentile lumiera di Murano, e fra i calici arrubinati e le
argenterie scintillanti.
È la notte di Gesù piccino. La vecchia guarda mestissima il
marchese Asdrubale.... È l'ora delle gioie di Natale. E la badessa
donna Maria Ines di Santa Radegonda racconta la sua amorosa gloria di
mamma, quando le era nato quel bambino biondo, come quello del
Signore. E il cardinale Don Apollonio di Santa Prisca racconta la sua
tranquilla felicità di babbo, quando la sua gioconda, la sua bella,
la sua fanciulla sorridente gli porgeva a baciare le due bimbe così
rosee e ricciutelle, come le angioletto sulla capanna di Betlemme.
La vecchia tornava nella buca: e il marchese Asdrubale scagliava via
l'anello.
* * *
O rampichino, o rampichino timido e santo, quand'esci all'alba dal
palazzo e per i rami dei carpini ti avvii giù là in fondo ai
campi e al paesetto, o rampichino, o rampichino modesto e gentile, non
raccontare le istorie delle sale barocche abbandonate, non raccontare
le ciarle del convito di Natale....
* * *
Alla mattina del Santo Stefano, il piovano di ****, che aveva da' suoi
antecessori ereditato l'obbligo di benedire a Natale _li defonti_ del
palazzo, perchè un marchese Asdrubale aveva lasciato, con decima di
miglio, di avena, di frumento, un beneficio alla confraternita della
Buona Morte,--alla mattina un poco tarda, il piovano, aprendo con una
chiave irrugginita la cappella sepolcrale, trovava sulla pietra un
uccelletto morto di freddo, lo spazzava via con una pappuccia, e,
guardando per un corritoio una fuga di saloni e di saloni,
incominciava a dire, stringendosi nelle spalle:--_Requiem æternam
dona eis, Domine...._


NATALE.
(FANTASIE)
Whilst thou art fair and I am young.
BYRON.

Giù, giù, sui campi mestissimi della nostra pianura lombarda,
s'intorbida la pallida alba del Natale.
Ecco i colti, qua aggelati nelle tinte verdi umidiccie del frumento in
germoglio, là a cinquanta passi addormiti nei lividi nebbionacci
del verno e dei concimi: i solchi colatoi bianchi di brina e giù
inzuppati da pozzatelle di pioggia: i gelsi coi tronchi neri e le
capitozze goccianti, in filatere allineate, come i morti a guardia di
un immenso camposanto obliato: i capannotti col tettuccio di sagginali
fradici, l'acciottolato fangoso e il sentieruolo senza più l'aia: i
pagliai col cappuccione ammuffito e sullo stocco la crocetta che si
scorteccia: le strade sepolte nel molliccio, colle rotaie allagate, e
i fossatelli pieni del mosaico giallastro delle foglie flagellatevi
dagli acquazzoni.
Ecco là un paese su uno sfondo tutto cenerugiolo e senza misura: i
muricciuoli di una pallidezza sucida da cenci immollati: gli orti
bruni, senza più una siepicina, tutti a stecchi ed arruffaglie: le
finestre ingozzate di fogliaccie: le casette rattrappite l'una
sull'altra, come chi si stringa nelle spalle: i palazzotti, su alti, a
grandi fioriture nere, coi solai abbandonati: e le chiese, più alte
ancora, coll'aspetto più freddo del nudo mattone e i vani più
bui delle arcature dei tetti: e, più alti ancora, i campanili, nudi
e soli, che sguardano cogli occhioni abbacinati nelle nebbie....
E su tutto, sui campi infiniti e sui paeselli perduti, un umido
intenso, una tristezza plumbea, una distesa persa, che non chiamiamo
cielo, ma chiamiamo oblìo.
E si intorbida sempre più la squallida alba del Natale.
Là, in fondo in fondo si accende un lumicino, una lucciola oleosa,
un occhio giallo e sonnolento, e poi là, dall'alto dall'alto, si
ode uno scricchiolìo: lo strido di un ceppo scheggiato, un rantolo
pesante e brontolone.
Il curato si veste: e il sacrestano incomincia a pigliare la fune
della campana....
* * *
O colombi, che con volo obliquo e soavissimo calate innanzi alle
scalee delle misteriose ville rococò a bere dolcemente nei cavi
della vecchia arenaria le piogge del dicembre infecondo: o passeri,
che, stormeggiando bellicosi, vi affollate sui santi cornicioni delle
chiese smattonate a beccare protervamente le lolle sospintevi dai
venti: o rampichini muraiuoli, che col capo in giù vi aggrappate ai
sagginali che tappano le finestruzze, arruffando lo spavaldo
ciuffetto, per cacciarvi in una stalla piena di marmocchi, di
contadine e di fole: o reatini, reatini minimi, che nei rosai brinati
dei cimiteri sbattete l'ali rapidissime, quasi cercando i nonni ai
radiconi del campo e ai cataletti del beccamorto, i nonni aggelati
che, come voi sono i simboli del verno:--o miei amici, amici della mia
casta infanzia e della mia trepida giovinezza, gentili poeti dei voli
e dei susurri, poveri uccelli che avete sete, che avete fame, che
avete freddo, che avete le nebbie nell'animuccia, venite alla mia
finestra in quest'alba sì mesta, venite ai miei vasi di fiori,
venite alla mia stanzetta.
Voi bevete le lagrime degli infelici? Voi beccate via le pule delle
nostre speranze inaridite? E vi tenete caldi sui nostri cuori e dentro
vi covate ancora le nuove illusioni della vita? E foracchiate ancora
nelle case di chi ha amato, cercando sempre le agugliate di refe della
massaia per i vostri nidi e le briciole dolci dei nostri bambini per i
vostri zuccotti senza piume?
Povera finestra, sempre quella, da cui non entrano più le
tranquille visioni dell'alba, e le placidezze amorose dei plenilunii:
poveri fiori della mia vecchiaia, che vi siete disseccati sulle
radicine delle più soavi viole del pensiero: povera stanzetta della
mia morte, senza una culla, senza un ritratto di donna, senza un
ricordo della mia giovinezza!
Venite voi, amici, che non ci abbandonate nei verni.
* * *
E vi dirò.
Era bello il mio bambino roseo: era santa la mia Madonna bionda: il
presepio tranquillo, la mia casetta, la casetta del povero poeta.
E lui aveva due occhioni a gemma, pieni dei riflessi del più
azzurro cielo; una boccuccia a pozzette che balbettava i nostri nomi
felici in terra; due mani a guancialini che rubavano già i
pesantissimi grappoli dorati della nostra vite sul portichetto. Lei in
quelle pupille specchiava le sue tanto dolci; a quelle labbra si
pendeva, succhiando colle sue, inebbrianti di baci; tra quelle dita
intrecciava le sue, così belle e così carezzose. La casetta,
quella dei babbi e dei bisnonni, piena di fiorelli campestri, di
specchi pallidi, di mezz'ombre pacifere.
Sì, sì, era il mio bambino bello, anche quando su un occhio
aveva una gran toppa di carta turchina odorante di aceto; o quando
gustava la boccuccia impacciucchiata di vinaccioli e di mocci; o
quando colle manine, impudicissimo, si teneva un piedino grasso, come
un tomboletto, sgranandone le dita, come coccole di burro.... Era la
mia Madonna santa, lei che piangeva da medichessa, lei che smoccolava
quel nasino, lei che toglieva il pannicello per vederlo tutto nudo, il
suo ometto peccatore!... E sul mio presepio gli angioli del cielo non
scendevano coll'ali a porre la bindella spiegazzata col _pax hominibus
bonæ voluntatis;_ ma nemmanco i notai della terra erano venuti coi
parrucconi ad aprire i volumacci delle ipoteche: ed era piccino, ed
era disadorno, ed era soffogato dai ciliegi e dai mandorli; ma un
bisnonno l'aveva chiamato _Palazzetto del ritiro_, un nonno vi aveva
messo i mobili del Maggiolino, e il mio babbo aveva piantalo per me
quegli alberi che s'erano fatti grossi pel mio bimbo.
Desideravamo l'autunno, la stagione più cara, più intima, più
dolce per la nostra lunga contemplazione amorosa. Era forse una
foglia, la prima che si staccava dal ramo, che ci diceva quanto noi
potevamo essere felici? Desideravamo i crepuscoli rosei, colla mitica
stella di Lucifero, colla sottile falce della luna, coi cirri
spolverizzati d'oro: e quando voi, o colombi, stendevate il volo su
quel terrazzo fiorito, là dove, infelicissima e peccatrice,
bisbigliava quella dama infeconda con quel cavaliere, più volte
babbo: e voi, passeri pendenti ad un ciuffo di parietaria, dal rosone
della facciata spiavate giù nella chiesa tutta calda di lumi i
poverelli, famelici fra le nidiate dei bimbi che cantavano le lodi
ambrosiane del Signore: e a voi, rampichini muraiuoli, intricati nei
garofani delle finestrette, giungeva il guaiolare degli orfanelli
dell'Ospedale: e a voi, reatini, salticchianti sulle rose innanzi le
croci cadute, taceva sempre impassibile il silenzio di chi nella fossa
dei vermi aveva sognato il bel paradiso d'oro:--noi, piegati su una
culla candidissima, rattenendo il respiro, come l'unica necessità
che accusasse la nostra vita del corpo, noi ci sentivamo
purissimamente degni di compiacerci per gli occhi giù fino in fondo
dell'anima, ove stava il segreto religioso della nostra giovinezza:
noi, affaccendati innanzi ad una seggiolina, versando il latte
butirroso in una scodella, ci dicevamo tanto ricchi e pasciuti che
avremmo dato tutti i nostri pani a tutti i poverelli e le briciole del
nostro bambino a tutti gli uccellini: noi, inginocchiati nel
portichetto dei nonni, udendo le leziose impazienze di quella
boccuccia che, tartagliando i nostri nomi, pareva comandasse al
destino di non dividerli mai, su tutta la terra, credevamo ad un Dio
che apparisse nei sogni agli innocenti e nei sorrisi agli amorosi:
noi, semi-addormentati allo spegnersi dell'ultime luci del giorno,
compiangendo tutti i libri luciferini che indagavano il nulla eterno,
l'avevamo dinnanzi la nostra vita, tanto sicura e tanto in pace!
E l'avremmo vissuta tutta! Desideravamo che l'autunno si avanzasse a
morire nel verno, la stagione carissima, intimissima, dolcissima per la
nostra eterna contemplazione amorosa.... Eterna?... Erano forse le
foglie, le ultime foglie che coprivano la terra, che ci dicevano come noi
dovevamo essere felici?... Desideravamo le serate lunghe....--Com'è di
fuori?--Dai vetri sudati non spiavamo nè tenebrore, nè stelle, nè luna,
nè pigre nuvolaglie. Oh volevamo la nostra stanzetta, piccina, come la
nostra ambizione, calda come un nido, illuminata come un santuario!
Volevamo essere noi, noi soli, coi nostri ricordi, colle nostre ciarle,
col _suo_ balbettìo, col _suo_ respiro, co' _suoi_ starnuti, col nostro
bimbo che ci aveva dato tutta la pace! Ci amavamo! Ci amavamo, perchè
nessuno era venuto a soffiarci il gelo dei sapienti nell'anima! Ci
facevamo indietro indietro nella memoria a trovare le prime paure e i
primi rossori, i mutui sguardi e le feconde religioni dell'amore
ricambiato! Misuravamo giubboncini e camiciuole! O bimbo, quando credevi
di fare il tuo discorsone, pensavi alla mamma? quando tu dormi, ti sogni
di lei? quando starnuti, non ci dici _grazie?_ O piccino! O piccino!
Eravamo tanto egoisti che sobbalzavamo di scatto, scacciando l'idea e la
domanda:--Dove saranno i colombi? e i passeri? e i poveri rampichini? e i
poverissimi reatini?--Eravamo di dentro, con un lettuccio tutto morbido
di coltroncini, colle cucchiaiate fumanti di pappa, con un cosetto
d'avorio pacciucchiato, e, Dio mio! con un libro gualcito al capitolo più
serio e più sociale....--E i villeggianti pieni di galanterie? E i
contadini che hanno fame? E gli orfanelli dell'Ospedale? E i morti?--Oh
eravamo di dentro, colle fila d'oro dei destini in mano, colla gioia di
tre vite tutte felici, colle speranze di tre cuori tutti innamorati!... E
si fantasticava, si fantasticava.... Era un mondo senza oro e senza
pensieri....
Sì, sì, che affrettavamo i minuti e i desideri!
Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno.... O mia cara,
i suoi piedini battono già risoluti sulle tue ginocchia: ed ecco le
gambette le affagottiamo in due gran calze rosse, e le calcagna le
affondiamo in due scarpine piatte: e, ondeggiando, come un nonnuccio
senza bastoncello, e brancolando, e due, tre volte acculattando d'un
botto (ti sei fatto male?) ecco, eccolo.... ahi!... Piccino, tu corri
troppo! Eccolo da una canestra piena di guancialetti da popattola e di
cuffiette a mezzi gusci d'ova, eccolo a uno scrittoio ingombro di
carte, senza una sola poesia stampata: da te a me.....
Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno.... Diventiamo
vecchi anche noi? Oh i bei vecchietti!... Mia cara, ecco finalmente
s'imbianca un'alba di dicembre. Pel buio della pianura suonano le
campane gioconde: dicono che in cielo cantino gli angioli, mandando
giù le parole latine a tutti i presepi delle monache e dei
marmocchi: per le viuzze del paese alla chiesa s'avviano i contadini
puzzanti di frustagno: di là, di là, di là, dalle contrade
polverose della storia sacra si mettono in carovana i Re Magi coi
carrioni d'oro e colle barbe d'argento....
È Natale!... Mia carissima, ecco che il grand'omino, cogli occhi
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