Storia di un'anima - 01

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AMBROGIO BAZZERO
STORIA DI UN'ANIMA
ANIMA.
SCHIZZI DAL MARE, ACQUERELLI.
LACRIME E SORRISE--CORRISPONDENZE.
MALINCONIE DI UN ANTIQUARIO.
MILANO
FRATELLI TREVES EDITORI
1885.
AMBROGIO BAZZERO
Erano i tempi della nostra _Vita Nuova_.
Con questo titolo uscì nel 1876 a Milano un giornale letterario
sostenuto in parte dai raminghi scrittori dell'antica _Palestra
letteraria_ e da altri nuovi venuti. Furono e l'uno e l'altro due
bagliori, più che due fuochi, ma a quella vampa molti giovani si
conobbero a tempo, molte volontà si sgranchirono, molti ingegni si
accesero. Poi venne la vita vera per alcuni, l'oblìo per altri, la
morte per i migliori.
Fu in quell'anno ch'io conobbi Ambrogio Bazzero, il primo dei nostri
morti,
Non molto alto di persona, di capelli rari per grave malattia sofferta
qualche anno prima; con bei baffi rossicci, di fattezze regolari,
parlava con una voce chiara, ora argutamente, ora in tono di profonda
tristezza. Mobile, nervoso, fuggevole, caro, fu il più attivo, il
più ordinato, il più candido di quella babilonia che si diceva
per burla Amministrazione della _Vita Nuova_.
Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca
famiglia. L'essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che la
troppa fortuna confonde e stanca, perchè il denaro non gl'impedì
mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.
Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato di
consultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osava
far male a una formica. D'inverno spargeva miglio e briciole di pane
sul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli che
venivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne' suoi gusti
che un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito la
sua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.
Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiando
con lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello e
il grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d'un
passerotto sull'erba, o nel subito atteggiarsi d'un gatto, o nei
ghirigori d'un'inferriata, o nella frase volante d'un vetturale, o in
un proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare la
cadenza e i fiori del linguaggio.
Dopo il Liceo, in cui fu suo caro maestro Leopoldo Marenco, studiò
legge privatamente, cosa di cui si lamentava sempre per non aver
potuto apprendere nel libero consorzio universitario la scienza della
vita e una maggiore sicurezza di sè stesso. E veramente in lui a
trent'anni tremava ancora il fanciullo.
Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questo
squilibrio di forze, fra l'occhio che vede e la mano che non osa, egli
si querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere a
Firenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, che
è la storia dell'anima sua. Più che i codici amava le sue armi
antiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le sue
spade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Nè
minore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d'anticaglia,
mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda,
come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimento che gli
faceva credere d'abbracciare in quelle cose lo spirito di più
generazioni. Alle anime generose è poca soltanto una vita.
Io me ne accorsi in quel nostro viaggio del 1876. Era la prima volta
che si spiccava il volo dalla casa, e freschi entrambi di studi e di
affetti, corremmo a contemplare le _porte del paradiso_, il campanile di
Giotto, e poi San Marco e la laguna. Quali giorni nella mia vita e
come sento che molta parte della vita di lui è rimasta come
trasfusa in me! Quando entrando nella sala del Bargello a Firenze,
vide una stupenda raccolta di fucili d'ogni tempo, egli gettò un
grido di gioia e per poco non mi abbracciò, senza chiedermi pure se
io avessi mai letta la sua monografia: _Sopra gli archibugi a ruota_
ch'egli aveva pubblicato a vent'anni.
Nella sala della _Morte_ a Firenze, volle provarsi la veste, il
cappuccio e la buffa della compagnia. A Parma pagò il chierico
perchè si lasciasse mettere in testa l'elmo e brandisse la spada di
Alessandro Farnese, giù nella cripta al chiarore delle torcie. A
Ferrara, entrando nella celletta di Sant'Anna, mi accorsi ch'egli
tremava di commozione, e pallido lo vidi uscire dal carcere ove fu
chiuso il povero amante di Parisina. E intanto preveniva nuove
emozioni desiderando, sognando Venezia e i quadri del suo Tintoretto,
sul quale aveva due anni prima scritto il suo prediletto dramma.
Non so dire se più dell'arte egli amasse la libera natura, Fin da
fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate
e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona
dell'alto Milanese, luoghi di caccia una volta e di sontuose
villeggiature, oggi ingiustamente abbandonate. Per quei boschi, nati
nell'ingrato solco della sodaglia, i sentieri si avviluppano in un
inestricabile labirinto di selve, fra eserciti agglomerati di
conifere, sottili, diritte, vicine, che quasi si toccano, che tolgono
la luce del cielo o la lasciano solamente biancheggiare fra ciuffo e
ciuffo pallidamente. E scendono e salgono le viottole in un mare di
eriche e di felci. Stride la gazza, passa a volo, e va squassando le
ali a posarsi sull'orlo d'un laghettone, in cui la piova del bosco si
riversa in uno stagno viscido e giallastro che dorme nel silenzio
verde della pineta. Tu vai e vai per miglia e per ore e non trovi che
solchi, avvallamenti e nuovi eserciti di pini scaglionati su una
vetta, talchè ora ti pare d'essere a un valico alpino, ora in un
parco reale, ora in un deserto. Non una voce odi, non un fiato, se non
è quello del vento che passa al disopra: o tutto a un tratto lo
scoppio aspro d'un fucile e il frascare d'un cane. Vai ancora. Il
bosco si schiarisce.
Al di là scorgi un non so che di bianco. È un cimitero
abbandonato, sepolto nel verde, dove vorresti sdraiarti tutto supino,
colle mani in croce, e chiudere gli occhi, e dormire, dormire nel seno
molle della madre terra.
Fra questi boschi era solito errare il giovinetto colla mente accesa
dai tanti romanzi storici che noi tutti in quegli anni abbiamo
avidamente cercati. E il bosco a lui pareva d'un subito che si
popolasse di cavalieri erranti, armati di ferro, di donzelle bionde e
di tutti i più bei fantasmi che uscivano soltanto al tocco degli
antichi liuti.
I boschi non soffrono d'anacronismo e a chi le chiama bene vengono
incontro anche le vergini amadriadi.
Il romanticismo vinceva negli anni che corrispondono alla giovinezza
d'Ambrogio Bazzero le sue ultime battaglie, accompagnando il frastuono
delle battaglie vere per la patria. Tutti abbiamo avuto, qual più qual
meno, qualche castello nel cuore e una spada di Toledo nel pugno. I
più giovani, i più timidi erano i più leggieri alle immaginazioni. Il
Bazzero, d'ingegno facile, senza le noiose distrazioni del bisogno,
con un'anima semplice, con tanto medioevo appiccato alle pareti del
suo studio, potè meglio di molti altri ricreare quel mondo morto
intorno a sè. Nè lo ricreava per sola vaghezza d'antiquario, come si
disse, ma perchè gli pareva che in quel mondo astratto i suoi sottili
ideali respirassero meglio che nell'aria grossa della realtà pregna di
cose. Da questo raccoglimento uscì il suo _Buondelmonte_, l'_Angelica
Montanini_ e l'_Ugo_, in cui la conoscenza dei tempi e dei costumi è
così ricca e precisa e i rapporti così studiati nella lontananza dei
tempi, che il lettore moderno, sorpreso dal gran numero delle
evocazioni rimane confuso, e accusa d'oscurità e di confusione un'arte
che ha il difetto di essere troppo minuziosamente precisa.
Ma chi ha tanta pazienza di rileggere e d'aspettare che l'impressione
si snodi trova cento luoghi d'ammirare e finisce col sentire in sè
la forza e l'anima dei tempi. Nell'_Ugo_ specialmente, romanzo che
stancò lo stesso autore, l'impressione finale è propriamente
quella di sentirsi sotto il peso cupo del più cupo secolo della
nostra storia, il decimo.
Chi più di tutti sentiva il fascino di queste risurrezioni era
l'autore, quando si svegliava dalla sua meditazione con tutte le prove
vive e parlanti intorno a sè dell'opera sua.--Chi può capire la
potenza di certe mie pagine?--scriveva nel libro dell'_Anima_, in un
sincero abbandono con sè stesso; non fa meraviglia, quindi, che al
vedere gli amici suoi impassibili o indifferenti, il pubblico non
curante, la critica scempia e ingiusta, provasse tanto dispetto da
buttar via la penna, da chiudere i libri negli scaffali, da maledire
le sue armi, le sue notti perdute. Erano i mesi dello sconforto: poi
ritornava da capo, e avrebbe vinta la partita, son certo, se la morte
non avesse voluto vincere prima di lui.
* * *
Di questi scritti che non fanno parte del presente volume, e che bene
o male appartengono già al pubblico da molti anni, dirò soltanto
quel che importa per la migliore conoscenza dello scrittore, augurando
che la devozione di chi volle raccolti questi primi fogli consigli a
tentare una nuova raccolta anche di quelli.
Lasciando stare qualche piccolo tentativo troppo giovanile e troppo
acerbo, ch'egli pubblicò in privata edizione, mi pare che
coll'_Angelica Montanini_ tentasse veramente di scendere nel campo
letterario(1).
L'azione di questo dramma ha luogo a Siena alla fine del secolo XIV,
durante la guerra di Siena contro Firenze. Il dramma è dedicato a
Leopoldo Marenco, che con una parola d'affetto aveva cambiato, come
dice la dedica, in speranza il tormento ineffabile dell'arte. Molte
sono le esuberanze e le inesperienze in questo lavoro, che è
congegnato sopra un odio di parte e sopra una spada, e manca in molte
parti quella chiara prospettiva dei caratteri e delle cose che è
tanto necessaria sulle scene. Evidente è l'imitazione del
Guerrazzi.
Al Guerrazzi, per le lettere sue all'autore, è dedicato il
_Tintoretto_(2). La tela di questo dramma è più distesa, più
ben dipinta e qua e là tocca ad una larghezza quasi di poema
storico. Chi lo giudicasse soltanto dal punto di vista della
_teatralità_ potrebbe trovarlo anche una meschina cosa, ma noi
sappiamo da un pezzo che _teatralità_ è parola volgare, buona per
un successo, e che quasi sempre finisce là dove l'arte comincia,
mentre non c'è parola nei drammi de Bazzero, che non sia collocata
senza una sicura convinzione artistica. Quei grandi artisti del
cinquecento, voglio dire il Vecellio, il Sansovino, lo Schiavone, il
Tintoretto e quel grande ludibrio che fu messer Pietro Aretino, si
muovono in una scena sfarzosa, piena di colori, e parlano un
linguaggio che arieggia il classico del Vasari e del Cellini. Nel
_Tintoretto_ ha voluto il Bazzero rappresentare gli sforzi d'un uomo
alla conquista delle due più grandi gioie della vita, l'arte e la
famiglia, contro tutte le minaccie della fortuna e della volgarità.
Al Tintoretto vien sciupato il nome dall'Aretino, e tolta la figliuola
diletta dalla peste. Eccone le ultime scene:
Infierisce la peste in Venezia. Due commessari di sanità vestiti in
nero e sdrusciti, salgono dal mare al terrazzo ov'è la casa del
Tintoretto:
PRIMO _(salendo, grida al basso)_. Ohe, maledetta ciurma, legate la
gondola chè l'onda non la rovesci.
SECONDO. È tanto piena! Pescare i morti non s'è mai dato.
PRIMO. Pesca i vivi, pesca i morti, è tutt'una; quello che non si
è mai dato in dieci notti che faccio questo mestiere da corvo, si
è pescare qualche borsuccia d'oro.
SECONDO. Senza il fiasco e la gonnella fanno pietà anche i morti.
PRIMO. Orsù, ci hanno chiamato con tanta furia _(ridendo)_. Date
qua..... _(si avvia alla porta del Tintoretto, e vi dà un calcio)_.
Messeri e madonne! _(apre ed entra cantacchiando)_.
SCENA V.
TINTORETTO _e i due_ COMMESSARI.
TINT. _(stringendosi alla figlia)_. Chi siete?
PRIMO. _(accennando la morta)_. È questa sola? _(al secondo)_. Togli
su, e fa presto.
TINT. _(con feroce lamento)_. Voi non me la toccherete!
SECONDO. Tutti matti così questi pittori! _(gli fanno forza)_.
PRIMO. Guarda, se c'è qualcosa.... _(dà un piede nella cesta di
fiori e la rovescia)_.
TINT. Indietro, villano barattiero!
PRIMO. È il mestier nostro così!
TINT. Tu vuoi rubare? Ruba, dà fuoco, saccheggia, ma lasciami la
figlia! _(ruggendo, s'accinge alla disperata difesa dell'amatissimo
corpo)_.
SECONDO. Noi siamo ai servigi della Repubblica. Mettete senno, o vi
chiamiamo due alabardieri _(s'avvia all'uscio)_.
TINT. La violenza a me?
PRIMO. È tempo sprecato _(cinicamente)_.... Ci chiamerete voi, quando
vi accorgerete che vostra figlia ell'è come tutte le creature di
carne ed ossa, destinate alla terra. Adesso le fate mille baci, ma
domani....
TINT. _(come chi scopre una terribile verità)_. Domani?... Ah!
PRIMO. E non so se avremo tempo.
TINT. Fermatevi!... _(va al letto di Maria, e la guarda e la tocca con
ansia paurosa)_.... Quel pallore è tremendo!.... _(imprecando e
supplicando)_. Natura tristissima, che crei questi angioli per disfarli
nel modo il più sozzo! Una figlia farà ribrezzo al padre? _(ai
Commessari)_.... Voglio tenere il mio tesoro, finchè potrò
_(baciandola sicuramente)_.... Ora posso ancora baciarla.
PRIMO. Ripasseremo ancora.
TINT. Quando?
PRIMO. Domani.
TINT. No!... (Anche la lupa, che vegliò il lupicino trafitto,
abbandona la tana ai corvi! Io fuggirò'?...) _(combattendo fiera
battaglia, facendosi per crudelissima necessità mansueto)_. Io
stesso la recherò sulle mie braccia, le farò posto nella
gondola, l'adagerò tranquilla.... Le conserverete i fiori e il
drappo bianco?... Io l'accompagnerò fin dove andrete: poi quando il
commessario mi scaccerà... apparecchiate due fosse vicine....
PRIMO. Messere _(gli tende la mano....)_
TINT. _(si china, cieco dal dolore, toglie dal cofanetto una collana,
fa per darla al commessario)_.... No!... È la collana di mia figlia!
Ed io non sono degno di baciarla!... _(va ad una cassa, con subito
pensiero toglie una borsa)_. Prendete: è l'oro di re Filippo.
Regnate nella taverna e sulle donne vostre!... _(i Commessari
soddisfatti, escono sul terrazzo, e discendono al mare)_.
SCENA VI.
TINTORETTO _solo_.
_(baciando la figlia)_ È l'ultimo bacio nella casa dove se' nata! _(la
compone, le si inginocchia vicino, si solleva)_. È l'ultima alba!...
Guarda se ancora luccica la tua stella!... _(la drizza sui guanciali,
le alza la testa, e fissa pel finestrone.... Dal terrazzo si vedrà
sfilare sull'acqua un'immensa processione di lumi, lentissima,
imponente)_.... Che è?... È il funerale di Tiziano! _(chinandosi
sulla figlia)_. Tutto è finito! Famiglia ed Arte!
SCENA ULTIMA.
MARCO(3), _dalla scala di terra, sale al terrazzo, lo attraversa
frettolosamente e giunge all'uscio: sta in sospeso per la gioia: trova
semiaperto ed entra.... Il_ TINTORETTO _gli viene incontra, reggendo la
figlia sulle braccia._
TINT. Non è più tua! Ella è d'Iddio e dei posteri!
* * *
L'_Ugo_, che l'autore dedica alla sua prima amarissima delusione, è
la prima parte d'un romanzo sul secolo X, che vide la luce nella _Vita
Nuova_. Il genere astruso dell'argomento e dello stile stancò i
lettori del giornale abituati al facile leggere. Raccolto poi in un
volume, la critica l'addentò colla sua solita inconsulta
voracità(4). Il Bazzero ne restò tanto conturbato che non volle
più continuare. Rileggendolo in questi mesi ho risentito ancora il
sentimento faticoso della prima volta, ma se l'affetto non mi fa velo,
credo che vi siano in queste 130 pagine, cinquanta almeno degne d'un
grande scrittore. E non sarebbero poche per un libro! Che tempi
fossero quelli ch'egli vuole descrivere, ce lo dice presto in un modo
vivo e incisivo:
"Erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio,
le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure
sbagliava in un sopranome a quegli arnesi e forse forse moriva senza
tutto avere appreso il _paternoster_ dalla bocca della madre o del
chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa
su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato
a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e
per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse
mostruoso cimiero. Io non so se ancora allora i bambinelli si
tormentassero colle fasce: se così fosse stato, non mi sarebbe
punto di maraviglia se anche trovassi nelle cronache che la madre di
Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo
figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre
di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della
sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a
colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai
nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza
camicia che vestiva nella _torre della fame_. Messer Adalberto era
primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come
quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i
suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono
ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale
fa il mestiere, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che
negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo
v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia
dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al
cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato
fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le
dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi:
segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da
cavaliere: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito
immacolato di qualche monistero."
Ugo è un tessuto di scene, una successione di quadri storici, di
figure riprodotte dalle cronache, di atteggiamenti che sembrano
scolture, di truci spettacoli, incisi con uno stile di ferro.
La lettura non ne è facile come dell'elegante prosa del D'Annunzio
e della lucida scuola degli Abruzzesi, ma è una prosa nutrita di
studii e di forti riflessioni, che durerà, io mi lusingo, nel
giudizio dei buongustai, più del tempo che dura una moda.
Ecco come il Bazzero vi dipinge le sue figure.
Dopo aver letto _sono tubae_ il bando pasquale ai vassalli, l'araldo
Guidello e il chierico Ingo, poco lieti delle mancie ricevute, si
allontanano così:
"E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della
_curte_ era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza
fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani
alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno
all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano
chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal
sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze;
sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del
crepuscolo.
I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione
del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.
E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la
pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro
ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o
col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo
ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse
uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto
pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.
Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte
apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i
tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere
sbatacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i
_gloria_!"
Così descrive un pranzo nel castello:
"Come voleva la cortesia delle usanze, i messeri furono convitati.
Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante
di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di
lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio,
allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono
andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere,
perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè
attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio,
affacciando mezza persona, annunziò:--Madonna Imilda.
Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia,
di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura,
cinta su da uno saccheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo
appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole
dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a
sinistra il suo parente Oberto.
Ildebrandino così la salutò:--Valenti, udite: la figliuola mia
sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate
in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi, e la sua
bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci
grazia!
Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì
nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio
per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non
aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il
che era richiesto dal suo decoro verginale."
Notate quanto spavento in questa descrizione d'un assalto al castello;
"Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando
nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si alza in
piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.--I
nemici!--ascolta la voce del vecchio Federigo:--Salvate madonna!--ed
ecco ancora:--Fuoco! fuoco!
La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare,
scongiurando con fiero rimorso:--O Signore, salvate mio padre! Come
vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?--ed ode
ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un
correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una
irosissima che comandava:--Balestrate fuoco nelle finestre!--e
un'altra,--Se tutto arde, che ci rimane di bottino?
--Combattete!--gridava Federigo agli uomini del castello:--Giuratemi!
Alla fantasia della fanciulla si presentò tutto il castello
invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco; e qua sotto
alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi:
qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le
fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri
friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi
precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si
trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito
nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante,
gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione...
Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo
scalone, il corritoio, o stanzone dell'arme....--O Signore! la
fanciulla se li immaginò al lume delle torce incendiarie
nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano,
venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero
già afferrata: ella, si sarebbe trascinata all'altare, chiamando
la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava
quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O
padre! O Ugo!...
La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si
rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.--Non sia vero!
Fu scossa. Di nuovo la voce:--Balestrate fuoco nelle finestre!--E
un'altra:--Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la
cappella.--Ancora la prima:--Sconficcate le inferriate!
Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse
le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per
pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:--E se
vuoi mandarmi la morte, fa che non sia vergognosa!"
Mi duole di non poter trascrivere tutti i punti in cui mi pare che la
vita e l'arte si stringano in una forma tutta di getto. Qualche scena
feroce è tale da far inorridire, come là dove descrive la morte
di Guidinga, che in odio al marito, nuda, oscenissima e sanguinante,
si rotola giù di gradino in gradino, percuotendo quasi a morte il
frutto esecrato che porta nelle viscere: e la vendetta che trae il
marito, mostrando all'antico amante di lei il cadavere della donna
senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! Dicono le
cronache che solesse venire poi la _madonna perduta_ e ripetesse la
condanna: Voi non credete in Dio! Da questa donna era nato Ugo; e
crebbe cupo, angosciosissimo. «In vent'anni tre volte ho
sorriso,--esclama--quando la prima volta su un'altissima cima vidi
all'orizzonte sorgere il sole e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi
raggi; quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi, quando...
Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo
tanto deserto....»
* * *
Come nel Tintoretto, così in molti dolori dell'Ugo il Bazzero
descriveva i suoi. Quell'anima dolce e tenerissima, che non sapeva far
male a una formica, caricò i suoi personaggi di feroci furori e
quasi li incaricò delle sue vendette. È un mistero che molte
pagine del presente volume spiegheranno.
* * *
Anch'egli amò la sua donna, ma noi come tutti gli altri. Amò
troppo castamente, e sacrificò all'ideale più che non sia
permesso alla debole natura umana. Fenomeno strano è questo che in
un tempo, in cui dal languido romanticismo l'arte e con essa il
sentire si avviavano verso il godimento pagano del realismo, strano
fenomeno veramente è il vedere questo solitario rifugiarsi nel
deserto, con un'immagine sola soavissima nel cuore, meno donna alla
fine che luminosa e innocente visione, ch'egli adorò estatico come
quel d'Assisi adorò la Vergine sua, «Vi dirò (troverete negli
_Schizzi dal mare_), che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi
cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, mi ha fatto piangere e mi ha
ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi
francesi e sorrisi di santa Cecilia, l'organista.»
A noi non è permesso di togliere il velo di cui egli volle
circondata Lidia, una bionda straniera, assai colta, che viveva del
suo lavoro, la quale, prima non potè corrispondergli perchè
stretta da un'altra promessa; e sciolta questa, quando forse poteva
farla sua, egli o non seppe o non osò contraddire a un'autorità
ch'era dover suo di rispettare. Poco importa a noi di sapere come
scoppiasse in quel cuore, dopo un'alba ridente d'amore, un tumultuoso
uragano, che lo spinse fino all'orlo dalla morte. Più che una lotta
fra vivi, fu una lotta di fantasimi creati dal desiderio e dalla
volontà in cozzo, sostenuta coll'energia dell'anacoreta, voluta per
forza, inasprita dalle istigazioni feroci della natura. Questa è la
storia dell'Anima, che egli scrisse giorno per giorno, nel silenzio
del suo studiolo, e che noi confidiamo a tutte le anime delicate che
sanno accogliere ogni dolore umano con umana carità. A chi ci
domandasse l'utilità di una pubblicazione di questo genere, noi non
sapremmo rispondere nulla, perchè certe cose si appannano solo a
toccarle colla punta delle dita.
Immaginiamoci invece il fondo della pineta vastissima colle sue ombre
folte: e innanzi al pensiero del vergine giovinetto una immagine di
donna, esule da una patria infelice, Lidia: immaginiamoci il vecchio
cimitero del villaggio con tutti gli accozzi della rovina, e il fido
cane che parla all'amico poeta co' suoi grandi occhi onesti: poi è
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