Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 11

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composta. Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il Podestà
tornando poi a casa trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a
deporre nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato,
benchè sembrasse mutarlo affatto e passare dal vino all'economia
politica, ma chi appena osservi la serie delle sue idee scorgerà il
filo recondito che le tiene.
——Che dice, continuò adunque Don Rodrigo, che dice il signor Podestà di
questo spatriare che fanno i nostri operaj?
——Che vuole ch'io le dica? rispose il Podestà: è cosa da non potersi
comprendere. Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto
più se ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi: sono
pecore, una va dietro all'altra.
——Eppure, continuò Don Rodrigo, pare che questa cosa stia molto a cuore
di sua Eccellenza.
——Capperi! veda con che sentimento ne parla nelle gride. Ma costoro,
parte per ignoranza, parte per malizia, non danno retta; armano mille
pretesti, ma la vera ragione si è la poca volontà di lavorare e il
disprezzo temerario delle leggi divine ed umane.
——Ma per buona sorte, disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo, aveva
detto non tutto, ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo
desiderava di essere servito; per buona sorte abbiamo un signor Podestà
che non si lascerà illudere da pretesti e saprà tener mano ferma....
——Mano ferma, signor Podestà, riprese Don Rodrigo, mano ferma: il primo
che c'incappa farne un esempio.
——Io so, disse con gravità misteriosa il conte Attilio, che sua
Eccellenza tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici e
sulla esecuzione delle gride che lo proibiscono, perchè il Conte mio
zio del Consiglio segreto qualche volta, in confidenza, si è spiegato
con me.... Basta non voglio ciarlare; ma son certo che quando, tornato
a Milano, andrò a fare il mio dovere dal Conte mio zio, egli non
lascerà di farmi mille interrogazioni.... In verità, avere dei parenti
in alto è un onore, ma un onore un po' pesante. Non si può parlare
con loro che non vogliano ricavare qualche notizia, non si sa come
sbrigarsene.
——Mi raccomando ai buoni uficj del signor conte, disse umilmente il
Podestà; una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in
orecchie tanto rispettabili....
——È pura giustizia renduta al merito, signor Podestà; però se la parola
ha da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si vegga
qualche dimostrazione esemplare dello zelo del signor Podestà in questa
materia.
——È mio dovere, e starò sull'avviso.
——Oh le occasioni non mancheranno, disse il Dottore, perchè, come
diceva sapientemente il signor Podestà, è una pazzia universale in
costoro. Quindi, prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai
fatti ad una idea generale, continuò: Vedano un po' le signorie loro
come son fatti gli uomini, e particolarmente la gente meccanica, che
non sa riflettere. Comincia a mettersi fra gli artefici questa smania
di sviarsi, di cambiar cielo. La sapienza di chi governa vede il male
e tosto applica il rimedio della proibizione e delle pene. Si può far
di più? eppure, costoro, presa una volta quella dirittura di andarsene
a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno avesse parlato.
Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi. Ma coi pazzi come
bisogna fare? Castigarli.
È facile supporre che con questi ragionamenti il signor Podestà si
trovò disposto a credere poi, o a fingere di credere, alle insinuazioni
incessanti del dottor Duplica e alle deposizioni degli onorevoli suoi
ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride.
Il signor Podestà non si lasciò scappare una occasione gli si era
tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno susseguente, fatte fare
ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo,
gli fece intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo
rilasciò l'ordine di catturarlo s'egli ritornava.
Non importa di accordare quei due ordini: basta che con questi si
ottenesse l'effetto desiderato che era di toglier la volontà a Fermo di
ritornare[184].


IV.
VISITA DI DON RODRIGO AL CONTE DEL SAGRATO——EGIDIO E LA
SIGNORA——RAVVEDIMENTO E FINE DI COSTEI.

Il Griso partì coi due compagni, spiò e raccolse che Lucia era nel
monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora
l'aveva ricevuta per compiacere al Padre Guardiano, che nessuno pensava
che altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda,
giacchè Lucia non le apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel
monastero, ma fuori del chiostro, che si lasciava poco vedere, e sempre
di chiaro giorno: che la madre aveva disegnato di tornarsene a casa,
lasciando Lucia così bene appoggiata. Tutte queste cose riferì il Griso
a Don Rodrigo, il quale, lodatolo e ricompensatolo, si pose seriamente
a pensare quale risoluzione fosse da prendersi.
Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli
non conosceva bene, in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la
Signora e tutto il suo parentado, del quale Don Rodrigo conosceva
molto bene la potenza e la ferocia in sostenere le protezioni una
volta abbracciate, era impresa da non porvi nemmeno il pensiero.
Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza la madre, e a
chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere
le occasioni e per approfittarsene, per evitar i pericoli, l'impresa
poteva forse essere agevole non che possibile. Bisognava dunque
ricorrere ad un alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre
a termine spedizioni di questo genere, e Don Rodrigo si determinò in
un pensiero che gli era passato più volte per la mente, che non aveva
mai abbandonato, il pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del
Sagrato.
Avremmo desiderato di poter dare il vero nome di costui, giacchè quello
che abbiam trascritto era un soprannome, ma le nostre ricerche sono
state infruttuose. Al prudentissimo nostro autore è sembrato di avere
ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome
quest'uomo. Due scrittori contemporanei e degnissimi di fede, il Rivola
e il Ripamonti, biografi entrambi del cardinale Federigo Borromeo,
fanno menzione di quel personaggio misterioso, ma lo dipingono
succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati
che la terra abbia portato, ma non ne danno il nome e nè meno il
soprannome, che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto, insieme
con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a
dare una idea del carattere di quest'uomo.
Abitava egli in un castello posto al confine degli Stati Veneti,
sur un monte; e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di
legge, comandando a tutti gli abitatori del contorno, non riconoscendo
superiore a sè, arbitro violento dei negozj altrui, come di quelli nei
quali era parte, raccettatore di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi
per delitti, quando fossero abili a commetterne di nuovi, appaltatore
di delitti per professione. La sua casa, per servirci della descrizione
che ne fa il Ripamonti, era come una «officina di mandati d'uccisione:
servi condannati nella testa e troncatori di teste; nè cuoco, nè
guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei valletti insanguinate».
E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza, e da
una lunga esperienza d'impunità, era venuta a tanto, che dovendo egli
un giorno passare vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benchè
capitalmente bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di
tromba, passò sulla porta del palazzo dove abitava il governatore, e
lasciò alle guardie una imbasciata di villanie, da essergli riferita in
suo nome.
Avvenne un giorno che a costui, come a protettore noto di tutte le
cause spallate, si presentò un debitore svogliato di pagare, e si
richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore,
raccontando il negozio a modo suo e protestando ch'egli non doveva
nulla, e che non aveva al mondo altra speranza che nella protezione
onnipotente del signor Conte. Il creditore, un benestante d'un paese
vicino, non era sul calendario del Conte, perchè senza provocarlo
giammai, nè usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non
volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei
fatti suoi e non ha bisogno, nè timore di prepotenti. Al Conte fu
molto gradita l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò
irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione,
chiamò un servo, e gli disse: Accompagnerai questo poveruomo dal
signor tale, a cui dirai, in mio nome, che non gli rechi più molestia
alcuna per quel debito preteso, perchè io ho riconosciuto che costui
non gli deve nulla; ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla
quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia tornerai tosto a riferirmela.
Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo
espresse la imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire.
Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma,
punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della
sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora
un vigliacco e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli
non riconosceva il signor Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe
partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al
Conte, il quale, udendola, disse: benissimo. Il primo giorno di festa
la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena
di popolo, che assisteva agli ufficj divini, che il Conte si trovava
sul sagrato alla testa di una truppa di bravi. Terminati gli ufficj,
i più vicini alla porta, uscendo i primi e guardando macchinalmente
sul sagrato, videro quell'esercito e quel generale, e ognun d'essi
spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere, si
rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si
poteva, senza darla a gambe. Il Conte, al primo apparire di persone
sulla porta, si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con
le due mani in apparecchio di spianarlo. Al muro esteriore della
chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj, secondo l'uso
di quei tempi, nei quali gli uomini camminavano per lo più armati,
ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di
fuori, senza custodia, per ripigliarle all'uscita: tanta era la fede
pubblica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si
curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche
i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi un pericolo oscuro,
impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in
difesa. I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si
rivolgevano ciascuno al lato che gli era più comodo per uscire, ma
alla vista di quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta,
e la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a
sbieco che manda un filo solo da un canto dell'apertura. Si affacciò
finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte
al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso
punto col movimento del capo agli altri di far largo. Lo sventurato,
colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla
non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo
separato[185]. Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che
quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto
da cento bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero e
la turba, tutta compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore
di un pericolo impensato, che occupando alla sprovveduta gli animi,
non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di
ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva, pur troppo
si allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava solo di
qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più
vicino. Il Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse e lo stese
a terra. Tutto questo fu l'affare di un momento. La folla continuò a
sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte, senza scomporsi, ritornò per
la sua via, col suo accompagnamento.
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno
aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore
e di sgomento fu tale, che nessuno poteva pensare al Conte senza che
il fatto non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al
nome quell'idea che tutti avevano associata alla persona. Il Conte
sapeva che lo disegnavano con questo soprannome, ma lo sofferiva
tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno, avendo a parlare di
lui, si ricordasse di quello ch'egli poteva fare; o forse che avendo
in qualche romanzo di quei tempi veduto qualche menzione di Scipione
l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome
dal luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato Milanese e
nel Veneto, e dal suo castello, posto a cavaliere ai due confini,
dirigeva gli uni e gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli
che si rifuggivano da uno Stato nell'altro, secondo l'occorrenza
tramutandone alcuno talvolta, quando qualche operazione lo domandasse,
o anche quando alcuno avesse in uno Stato commessa qualche iniquità
tanto clamorosa, che la giustizia per averlo nelle mani facesse sforzi
straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per difenderlo. Allora
la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della giustizia del non
far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo
qualche tempo non se ne parlava più, nè meno sommessamente, e il reo
ricompariva con faccia più tosta che mai. Questo maneggio serviva non
poco ad agevolare tutte le operazioni del Conte, perchè le si compivano
tutte senza molto impaccio dei ministri della giustizia, i quali
potevano sempre allegare l'impossibilità di porvi un riparo. Quanto
alle operazioni che il Conte eseguiva di propria mano, la giustizia
non se ne mostrava accorta; ed era regola ricevuta di prudenza, che
erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione avrebbe prodotti più
inconvenienti che non il dissimularle.
Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi
erano i _tiranni_ della città e di una gran parte dello Stato che non
avessero qualche volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche
vendetta, o qualche soperchieria rematica, massimamente se la persona
da colpirsi, o il fatto da eseguirsi, era nelle sue vicinanze. E non
basta; fino alcuni principi stranieri tenevano comunicazione con lui, e
a lui avevano ricorso tal volta per qualche uccisione d'importanza, e
quando il caso lo richiedesse gli mandavano rinforzi; fatto attestato
dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la probabilità degli
avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei suoi tempi; ma
fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel secolo.
Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli
pieno di affabilità nel contrattare, e nel l'eseguire metteva ed
esigeva una somma puntualità. Accoglieva con molta riserva, certamente
per non incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con
molta piacevolezza, quelli che venivano a domandare l'opera sua,
deponeva con essi il sopracciglio, stipulava con parole spicce, ma
pacate, non andava in furia contra chi non avesse voluto stare alle
sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato, non volendo, nè
disgustare alcuno senza utilità, nè atterrire coloro i quali avevano
per la scelleraggine più inclinazione nella volontà che determinazione
di coraggio. Ma stretti i patti, colui che non gli avesse ben
fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per tenersi
sicuro della sua vendetta.
Don Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva
di fama?) ma di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui[186]. In
tutti questi incontri Don Rodrigo, sentendo la sua inferiorità, aveva
deposto ogni orgoglio e aveva cercato con molte espressioni di rispetto
di porsi in grazia al Conte; non ch'egli pensasse allora che un giorno
avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto per non farsi un tale nemico.
Confermato nel suo perverso proposito di attingere la innocente Lucia,
e convinto che le sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette
Don Rodrigo di andare in cerca di chi volesse prestargli le sue; e
fatta questa risoluzione, non v'era da titubare sulla scelta del
personaggio, perchè il Conte era appunto per lui quel _che il diavolo
fece_[187].
Il mattino seguente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo,
in abito da caccia, col fedel Griso, che camminava a fianco del
palafreno, e con una quadriglia di bravi, si mosse verso il castello
del Conte, come altre volte Giunone verso la caverna di Eolo; se non
che la dea pagava in Ninfe l'opera buona del re dei venti, e Don
Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie. La via era di
cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva lentamente, e per
dare agio alla scorta pedestre di seguirlo, e perchè il cammino, quasi
tutto montuoso, e disuguale e sassoso anche dove era piano, obbligava
il ronzino ad andare di passo e a cercare il luogo dove posare la zampa
con sicurezza.
I villani, che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il
convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, e per dare a
Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al
medesimo punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con
aria quasi di chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo
cammino.
Don Rodrigo, che già cominciava a godere nella sua mente una
anticipazione della potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava
a contrarre, guarda con un volto fosco e sprezzante, come se dicesse:
vi siete rallegrati troppo presto a mie spese: lo so; ma vedrete chi
sono.
Giunto dinanzi al convento, che si trovava su la sua strada, Don
Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra,
guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori dal nido:
ma non v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano
i frati cantare l'uficio in coro. In mezzo alla sua ira, Don Rodrigo si
risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi
gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quel frate: pensò che in
quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera
alla compiacenza, fece un sogghigno[188] accompagnato da un ah! ah! il
cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso, il quale,
per mostrare la sua sagacità e per far vedere ai compagni ch'egli
era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo, pur
sogghignando, e facendo col volto un cenno che voleva dire: a quest'ora
il frate sarà servito.
Pochi passi dopo il convento, giunse la brigata ad uno di quei tanti
torrenti che si gettano nel lago dai monti che lo ricingono. Questo si
chiamava e si chiama tuttavia il Bione, nome che non si troverà in
alcun dizionario geografico: e a dir vero colui che lo porta non merita
per nessun verso di esser memorato.
Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un
brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua,
e dopo le grandi pioggie, e allo scioglimento delle nevi, mena un
largo fiume d'acqua, che in un momento si perde, e un flagello di
ciottoloni, che rimangono. In quel momento non vi scorrevano che due
o tre rigagnoli, sparsi in un deserto di sassi: noi avremmo voluto
che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro,
qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente
e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra;
e noi, solleciti della verità più che d'ogni altra cosa, non possiamo
dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in
retta linea, tenuto pel freno dal Griso, il quale dovette porre i piedi
nel guazzo, scontando così, come era giusto, un poco l'onore di star
vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono un po' più in giù,
sur un ponticello stretto, a piedi asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica,
che conduce al luogo dove allora era il confine dello Stato Veneto; e
quindi presero un viottolo ripido a sinistra, che conduceva al castello
del Conte.
Appiedi della ultima salita, che dava al castello, v'era una rozza
e picciola taverna; e sulla porta della taverna un impiccatello, di
forse dodici anni, il quale, a veder gente armata, entrò tosto a darne
avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci, nerboruti ed arcigni, i quali,
deposte sul tavolo le carte sudicie e ravvolte come tegole, con le
quali stavano giuocando], stettero a guardare con sospetto chi veniva.
Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per rivolgerlo
sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare, gli
chiese molto famigliarmente: dove si va, signor mio, con questa bella
compagnia? In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo, che
aveva la superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi
così interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli
sapeva di essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che parlava con
dipendenti da quello, onde, fingendo di non trovar nulla di strano in
quel modo, rispose umanamente: vado ad inchinare il signor Conte.
——E chi è Vossignoria? replicò l'altro, con tuono più amichevole, ma
non meno risoluto.
——Sono il signor Don Rodrigo...
——Bene; ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che
quelli del signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a
fare una passeggiata con me.
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e
ricordandosi di quel proverbio: _si Romae fueris, romano vivito more_,
non si fece pregare, e disse: avrò molto piacere di far questi pochi
passi a piede; e voi intanto, disse rivolto alla sua scorta, starete
qui aspettandomi a refiziarvi e a godere della compagnia di questa
brava gente. Mentre quivi si parlamentava, scendevano per l'erta a
varie distanze uomini del Conte, che dall'altura avevan veduti armati
a fermarsi; ma colui, che s'era offerto di accompagnare Don Rodrigo,
accennò loro che erano amici, e quegli ritornarono. Don Rodrigo sceso,
e date le briglie in mano al Griso, cominciò a salire con la sua
guida[189]; la quale, non volendo forse avere offeso un uomo che poteva
esser più amico del Conte che non si sapesse, fece una qualche scusa a
Don Rodrigo di averlo fatto scendere. Se il signor Conte, disse colui,
fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato ordine perch'ella
fosse accolta con le debite cerimonie: perchè ella deve sapere quanto
il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del
mondo, ma vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il
nostro dovere, che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici
vecchi del signor Conte.
——Certo, certo, rispose Don Rodrigo, io sono buon servitore del signor
Conte, e non pretendo che egli abbia a far complimenti con me.
Questi è un signore davvero, pensava tra sè, continuando la sua salita,
Don Rodrigo. Vedete un po' come sa farsi rispettare, ed esser padrone
in casa sua. S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei
riuscire: ma è poi anche vero che fa una vita da romito. A voler godere
un po' il mondo, non bisogna star tanto in sulle sue, nè metter tanta
carne a fuoco. Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità;
e nel resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli aveva
preparati pel Conte.
Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece
aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli
ordini del Conte. Dopo pochi momenti la guida tornò, invitando Don
Rodrigo ad entrare dal padrone, e di sala in sala, sempre incontrando
scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s'inchinò profondamente, con quell'aria equivoca che può
egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte, che in mezzo a
tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di
quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del
capo, e gli fece segno di sedersi sur una seggiola, la quale era posta
in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui
che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco,
Don Rodrigo sedette e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo,
calvo, con una faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo
segno d'esser garbato, ma da quegli stessi sforzi traspariva una
rusticità feroce e indisciplinata.
——Dovrei scusarmi, cominciò Don Rodrigo, di venir così a dare _infado_
a Vossignoria Illustrissima.
——Lasci queste cerimoniacce spagnuole e mi dica in che posso servirla.
——Non so se il signor Conte si ricordi della mia persona; ma io ho
presente di essere stato qualche volta fortunato...
——Mi ricordo benissimo e la prego di venire al fatto.
——A dir vero, riprese Don Rodrigo, io mi trovo impegnato in un affare
d'onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo
tanto esperimentato quanto illustre, come è il signor Conte, mi sono
fatto animo a venire a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a
domandare il suo _amparo_.
——Al diavolo anche l'_amparo_, rispose con impazienza il Conte. Tenga
queste parolaccie per adoperarle in Milano con quegli spadaccini
imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori, che non
sapendo esser padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno
spagnuolo infingardo. E qui, avvedendosi che Don Rodrigo faceva un
volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò:
intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica
schiettamente in che posso servirla.
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia,
e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel
villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che
se il signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non
dubitava più dell'evento. Non intendo però, continuò titubando, che,
oltre il disturbo, il signor Conte debba assoggettarsi a spese per
favorirmi.... è troppo giusto.... e la prego di specificare....
——Patti chiari, rispose senza titubare il Conte, e proseguì, mormorando
fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: venti miglia....
un borgo.... presso a Milano.... un monastero.... la Signora che
spalleggia.... due cappuccini di mezzo.... signor mio, questa donna
vale dugento doppie.
A queste parole succedette un istante di silenzio; rimanendosi l'uno e
l'altro a parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: l'avresti
avuta per centocinquanta se non parlavi d'_infado_ e d'_amparo_; e
Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le
dugento doppie. Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che ebreo!
vediamo.... le ho: ma ho promesso al mercante... via lo farò tacere.
Eh, ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E
pagherò: frate indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la
voglio... si è parlato troppo... non son chi sono... Fatta così la
risoluzione, si rivolse al Conte e disse: Dugento doppie, signor Conte;
l'accordo è fatto.
——Cinque e cinque, dieci, rispose il Conte. E questa, se mai per
caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del
linguaggio milanese, è una formola comune che, accennando il numero
delle dita di due mani congiunte, significava l'impalmarsi per
conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la formola, il Conte
stese la mano e Don Rodrigo la strinse.
——Le darò, disse Don Rodrigo, uno dei miei uomini, che conosce
benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...
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