Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 16

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La faccia del Conte[227], fino allora stravolta dall'angoscia e dalla
disperazione, si ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi, che
dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte
pianse dirottamente.
——Dio grande e buono! sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani
al cielo: che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento,
perchè tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?
Così dicendo egli stese la mano per prendere quella del Conte.——No,
gridò questi, no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano
innocente e benefica. Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella
che volete stringere?
——Lasciate, disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole
violenza, lasciate ch'io stringa con tenerezza——e con rispetto——questa
mano, che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che
solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica,
a tanti nemici.
——È troppo, disse il Conte singhiozzando. Lasciatemi, Monsignore....
buon Federigo; un popolo affollato vi aspetta.... tanti innocenti,
tante anime buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e
voi vi trattenete.... con chi!
——Lasciamo le novantanove pecorelle, rispose Federigo amorevolmente;
sono in sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era
smarrita. Quella buona gente sarà ora forse più contenta che se avesse
tosto veduto il suo vescovo. Chi sa che Dio, il quale ha operato in
voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro
una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti a
noi senza saperlo; forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore
indistinto di carità, una preghiera ch'egli esaudisce per voi, un
rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto.
Al fine di queste parole, stese egli le braccia al collo del Conte, il
quale, dopo aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento,
cedette come strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli
pure il Cardinale, e abbandonò il suo terribile volto su le spalle di
lui. Le lagrime ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata
di Federigo; e le mani incolpevoli di questo cingevano quelle membra,
premevano quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le
armi della violenza e del tradimento.
Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso
al Conte: parlate[228], parlate: apritemi il vostro cuore: ditemi
i pensieri che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si
sperderà passando su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà
misto di giocondità, sarà una giocondità esso medesimo; non vi
lasceranno altra puntura buona che il desiderio di riparare al già
fatto. Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora.
——Ah sì, interruppe il Conte: v'è una cosa a cui si può riparare tosto:
il fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto. Lodato Dio, che non lo
è! Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia
confessione, quello ch'io sono, uno scellerato.... e un vile birbone;
ma, non importa, quello che importa è di cessare una crudele iniquità.
Federigo stava ansioso attendendo, e il Conte narrò dell'infame
contratto di Lucia, del rapimento, dell'arrivo di essa al suo castello,
delle sue suppliche, e dei primi pensieri che a cagione di queste gli
erano venuti.
Il buon vescovo impallidì alla storia dei patimenti e dei pericoli
di quella giovinetta; ma quando intese ch'ella si trovava ancora
al castello: Ah! disse, è salva, è intatta: togliamola tosto da
quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le ore dell'angoscia;
abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?
——Dio? sciamò il Conte, che uomo son'io, se mi si richiede come un dono
ciò ch'io non ho in mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede
per misericordia di non essere più un infame!
——Il male è fatto, rispose Federigo: quello che è da farsi è il
bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica. Dio vi ha
benedetto. D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù e di
be-neficenza. Sapete voi di che paese sia questa poveretta?
Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello;
alla chiamata entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto
quel tempo era stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata,
umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale una commozione
che pur traspariva da quella sua tranquilla compostezza, restò colla
bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro. Ma il Cardinale lo
tolse tosto da quella contemplazione, mezzo estatica e mezzo stordita,
dicendogli: Fra i parrochi qui radunati ci sarebbe mai quello[229]
di....?
——V'è, Monsignore illustrissimo, rispose il cappellano.
——Lodato Dio, disse il Cardinale: chiamatelo e con lui il curato di
questa chiesa.
Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati
aspettavano il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un
colloquio che gli teneva tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti
sopra di lui: egli alzò le mani e movendole l'una contra l'altra con
un gesto come involontario, tutto trafelato, come se avesse corso due
miglia, disse: Signori, signori: _haec mutatio dexterae Excelsi_. Il
signor curato della chiesa e il signor curato di.... sono chiamati da
Monsignore.
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria
illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in
tutte le sue opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo
sentimento abituale[230]; la sua cura continua, di fare il suo dovere,
e la sua idea del dovere era tutto il bene possibile; credeva egli
sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza
sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la
sofferenza, erano virtù che egli possedeva in un grado raro, ma che
egli si studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria
condizione quale era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano
oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti. I suoi
parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano;
la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi
accorsero intorno al suo cadavere, pareva a quei semplici che il mondo
dovess'esser commosso, poichè un gran giusto ne era partito. Ma dicci
miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa; non lo
saprà mai; e in questo momento io sento un rammarico di non possedere
quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore
perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone curato di
Chiuso[231].
All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio[232], dove stava
pregando tacitamente, e si mosse, senza altra premura che di obbedire,
senz'altra curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera
utile e pia da intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per
togliersi d'impiccio era stato in gran parte cagione di tutto questo
guazzabuglio[233]. Egli non poteva sapere, nè avrebbe mai pensato che
questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi
sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre. Si avanzò
anch'egli, incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi
con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del
cappellano, quelle sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi,
e ciò che più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte
stava col Cardinale. Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi e
guardava l'uno e l'altro, ma specialmente il Conte; e aspettava che si
dicesse qualche cosa, per esser certo che non v'erano imbrogli.
Il Cardinale prese in disparte il curato di Chiuso, e dettogli
brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione di spedir
tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia, affinchè questa
alla prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il che
sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una sicurezza,
non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le
sue parrocchiane la donna più atta a questo ufficio per saviezza, e
la più pronta per carità ad assumerlo. Ne corro in cerca, Monsignore
illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona.
Detto questo uscì: i radunati nell'altra stanza lo guardarono
curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacchè si sapeva
ch'egli era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare
senza rispetto quando il dovere lo richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli
disse: Una buona nuova per voi, signor curato di.... Una vostra
pecorella, che avrete pianta come perduta, vive, è trovata; e voi
avrete la consolazione di ricondurla al vostro ovile, o per ora in
quell'asilo di che Dio le provvederà.
——Monsignore illustrissimo, non so niente, rispose Don Abbondio; il
primo pensiero del quale era sempre di scolparsi a buon conto e di
lavarsene le mani.
——Come! disse Federigo, non conoscete Lucia Mondella, vostra
parrocchiana, che era scomparsa...?
——Monsignore sì; rispose tosto il curato, che non voleva passare per un
pastore spensierato.
——Or bene, rallegratevi, disse il Cardinale, che Dio ce la restituisce:
e questo signore, continuò (accennando il Conte), è lo stromento di
che Dio si serve per questa opera buona. In altro momento voi mi
informerete dei casi e delle qualità di questa giovine.
——Ahi! ahi! pensava fra sè Don Abbondio. Bell'impiccio a contar la
storia! Questa donna è nata per la mia disperazione.
——Per ora, proseguì Federigo, quello che preme è di riaverla e di
riporla nelle braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi
sicura. Andrete voi dunque con questo mio caro amico (e così dicendo
prese la mano del Conte, il quale lasciava dire e fare, troppo contento
che un tal uomo lo governasse e parlasse per lui), andrete al suo
castello, accompagnando una buona donna di questo paese, che ricondurrà
quella giovine nella mia lettiga. Per far più presto, darò ordine
tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete,
continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, vedete
che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro
ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate; e servi
inutili, che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è
visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa.
Le parole del Cardinale potevano essere belle, ma in questo caso
erano veramente perdute; Don Abbondio, all'udire un tal ordine, sentì
tutt'altro che consolazione, si trattava di ricondurre in trionfo,
alla presenza dell'arcivescovo, quella Lucia nelle cui avventure egli
si trovava intrigato un po' sporcamente, nella cui storia era parte, e
in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui avrebbe voluto
render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo non
era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil
Conte, di entrare nel suo castello e senza saper chiaramente a che
fare. Tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni
della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di
costui si affacciava allora alla sua immaginazione e metteva in moto
tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non
gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così
preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso.
Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte,
Don Abbondio stava guatando come un ospite pauroso vede un padrone
di casa accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido,
arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente
il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia
del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire, per non offenderlo,
e per non essere tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si
avvicina, perchè teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni
i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto
per allontanarsi, perchè teme di porgli addosso la furia d'inseguire;
e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua
sorte, che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia. Tali erano
i sensi e gli atti del nostro povero Don Abbondio. Pure, componendosi
al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per accennare che
obbedirebbe, e un altro inchino al Conte, accompagnato con un sorriso,
che voleva dire: sono nelle vostre mani; abbiate misericordia: _parcere
subjectis_. Ma il Conte, tutto assorto nei suoi pensieri, sbalordito
egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a riconoscersi,
per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa gioja
tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo,
e con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in
una espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor più
sopra pensiero di prima.
Il Cardinale si trasse in un angolo della stanza col Conte, che teneva
per mano, e gli disse: Vi pare egli, amico, che la cosa vada bene così?
Siete contento di queste disposizioni?
——E che? rispose il Conte, commosso e umiliato, dopo aver tanto tempo
fatto il male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare
nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?
——Da Dio tutti e due, rispose questi, perchè siamo due poveretti.
Andate, continuò poi con tuono affettuoso e solenne; andate, figliuolo
mio diletto, a toglier di pene una creatura innocente, a gustare i
primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto,
non è vero? noi passeremo insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno
concesse in questa giornata?
——Se io tornerò? rispose il Conte. Ah! se voi mi rifiutaste, io mi
rimarrei ostinato alla vostra porta come il mendico. Ho bisogno di voi!
Ho cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire
ad altri che a voi. Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo
potete dirmi.


IX.
Liberazione di Lucia.

Scesi [_il Conte del Sagrato e Don Abbondio_] nel cortiletto della casa
parrocchiale, trovarono la lettiga con entro la donna, instrutta dal
buon curato, e presso alla lettiga le due mule, tenute per la briglia
da due palafrenieri. Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri
uscirono, per porsi sulla via che conduceva al castello; e i due
cavalieri su le mule, sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la
cui compagnia fu molto gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la
lettiga.
La casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola
di quel paesello: la cavalcata, per porsi in via, doveva girare il
fianco della chiesa e passare davanti alla fronte, sulla quale è
voltato un arco che, appoggiandosi dall'altra parte sul muro della
strada, forma tetto sopra di questa.
Già sulla porta del curato cominciava la folla di coloro che non
potendo capire in chiesa, nè stare in luogo dove si vedesse quello che
vi si faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse.
Quella pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri,
che erano contadini del luogo, domandarono il passo ai primi che lo
impedivano, con un certo garbo inusitato, che era loro ispirato dal
sentimento indistinto che servivano a qualche cosa di santo e di
gentile, dall'aver veduto il Cardinale, dalla commozione che appariva
su tutti i volti. La folla faceva largo, guardando ognuno quella
comitiva con maraviglia e con curiosità e il Conte con un riserbo
che non era più quel solito terrore. Così pian piano la comitiva si
avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette rallentare
ancora più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due muri;
il Conte, guardando nella chiesa dalla porta che era spalancata, si
trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino sulla chioma
della mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel
popolo che poteva vederlo, e si propagò per tutta la folla, ognuno
raccontandone il motivo ai suoi vicini. Don Abbondio si trasse pure
il suo gran cappello senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli
che cantavano, e provò, forse per la prima volta, un sentimento
d'invidia in una tale occasione. Oh quante volte, diss'egli in cuor
suo, queste funzioni mi son parute lunghe come la fame, e non vedevo
l'ora d'andarmene in sagrestia a piegare la mia cotta, e adesso terrei
volentieri di star lì a cantare fino a sera, in quella santa pace, e
invece bisogna andare.... Ma Dio benedetto!——sciamò egli internamente
come l'uomo che è vivamente penetrato dal sentimento che gli si fa
torto——giacchè m'avete ficcato in questo impiccio, almeno, almeno,
ajutatemi.
Superata tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino:
ma siccome la disposizione d'animo dei due personaggi a cavallo era
sempre la stessa, anzi i pensieri dell'uno e dell'altro diventavano
sempre più intensi a misura che si avvicinava la meta, così il cammino
si faceva in silenzio, e noi non possiamo riferire che i soliloquj
dell'uno e dell'altro.
Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo
mondo vi debbano essere dei tristi e dei santi, che gli uni e gli altri
debbano avere l'argento vivo a dosso, che quando hanno una ribalderia,
o un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo
gli altri, quelli che vorrebbero attendere ai fatti loro, e che tanto
gli uni, quanto gli altri debbano venir tra i piedi a me, pover'uomo,
che non m'impiccio degli affari altrui, e che non cerco altro che di
starmene quieto a casa mia! Quel birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare
in capo di sturbare un matrimonio, proprio nella mia parrocchia, e m'ha
da venire una intimazione di quella sorte! Un pazzo che ha nascita e
quattrini, casa ben piantata e parenti in alto, e potrebbe godersi
la sua vita tranquilla, signorilmente: attendere a dare dei buoni
pranzi, stare allegro e fare degli allegri: Signor no: ha da desiderare
la donna d'altri, tanto per venire a molestarmi. Oh questa ragazza
benedetta vuol essere la mia morte! Deve proprio capitare in mano di
costui (e così dicendo guatava di sottecchi il Conte, quasi per vedere
se poteva arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente), e costui, che è
sempre stato lontano dai vescovi come il diavolo dall'acqua santa, ha
da venir qui in persona a cercare l'arcivescovo, senza che nessuno ce
lo abbia mandato per forza, proprio per metter me in impaccio; e questo
arcivescovo, benedett'uomo, che vorrebbe drizzar le gambe ai cani, a
cui pare che il mondo rovini quando la gente sta ferma, che deve sempre
far qualche cosa egli, e far fare qualche cosa agli altri; subito,
subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora smarrita, credere
tutto, darvi dentro, e far trottare il curato. Che si abbiano concluso
fra loro, Dio lo sa; ma, cospetto, non bisogna andar così in furia a
questo mondo. La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza, e
sì che dovrebbe avere imparato: ha avuto delle belle brighe, a forza
di cercarne e di volerne fare anelar le cose a modo suo: ma pare che
vi c'ingrassi: non ne lascia scappare una. La carità va bene, ma la
prima carità dovrebb'essere per un povero curato, che un vescovo, un
vero vescovo di giudizio, lo dovrebbe tener prezioso come la pupilla
degli occhj suoi. Chi sa costui che cosa gli ha cantato? che fini ha?
potrebb'essere una trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero,
fosse convertito costui (e qui guardava il Conte) dovrebbe sapere
Monsignore illustrissimo che dei peccatori inveterati non è da fidarsi
così subito, bisogna provarli; i primi momenti sono bruschi; e la forza
dell'abito fa ricadere uno quasi senza che se ne avvegga, e intanto...
chi è sotto è sotto: ahi! ahi! ahi! S'aveva mo a mandar così un povero
curato galantuomo sotto la bocca del cannone?
Don Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la
cavalcata giunse alla taverna, dove cominciava la salita, e ne uscirono
bravi secondo il solito, i quali videro con istupore il Conte con un
prete dietro una lettiga. Pensarono che potesse essere, non lo seppero
indovinare, e non fecero altro che inchinarsi al Conte, il quale,
con viso serio, proseguì il suo cammino. Ma Don Abbondio continuava:
ci siamo: Oh che faccie! Questa è la porta dell'inferno! E costui,
vedete, che faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare Sant'Antonio
nel deserto quando scacciava le tentazioni, un po' pare Oloferne in
persona! Dio mi ajuti, e lo deve per giustizia.
Infatti i pensieri che si affollavano nella mente del Conte, passavano,
per dir così, rapidamente sulla sua faccia, come le nuvolette, spinte
dal vento, passano in furia a traverso la faccia del sole; alternando
ad ogni momento una luce arrabbiata e una fredda oscurità. Pensava a
quello che avrebbe detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello,
trovandosi con quegli dai quali in un punto s'era fatto così diverso.
Avrebbe voluto render gloria a Dio, confessare il cangiamento che era
accaduto nel suo animo, rinnegare la sua scellerata vita in faccia a
quelli che ne erano stati i testimonj, i complici, gli stromenti. Ma...
diceva un altro pensiero: guaj se costoro credono un momento ch'io non
sia più quello da stendere in terra colui che ardisse resistermi!
Così pensando, egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era
solito tenere una pistola, e si ricordò di averle lasciate con le
altre armi in casa del curato——Ohè! continuava fra sè, perchè mi
obbedirebbero costoro? e se veggiono che questo pane infame è finito
per loro, chi sa che cosa la rabbia può suggerire a costoro. E quello
che importa è di non far parole, di non perder tempo, di ricondurre
Lucia tranquillamente; quella poveretta! il pegno del mio perdono! Se
in questa casa, se in questa caverna, cessa un momento la disciplina,
il terrore del padrone, diventa un inferno! peggio di prima! Costoro
saltano il confine, e sono in sicuro; eh gli ho avvezzi io così! Ma
che! dovrò io dunque umiliarmi a fingere dinanzi a costoro! a questi
scellerati? Scellerati? costoro? chi sono costoro? i miei scolari, i
miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene per l'unica
via che è aperta. Bisogna dissimulare; si dissimuli. Così pensando,
egli si guardò attorno, e visto che nessuno dei suoi era in vicinanza,
alzò la voce, ordinò ai lettighieri di restare, scese da cavallo, si
avvicinò alla lettiga, e salutata la buona donna, che v'era seduta,
le disse sottovoce: L'opera di carità che voi fate ora, vuol essere
condotta con prudenza assai. Lasciatevi regolare da me in tutto; e
sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta; e a chi ardisse
interrogarvi, dite che parli con me. Voi entrerete nella stanza dov'è
quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a liberarla; non
ne dubiterà, quando vedrà il suo curato. Sarà spaventata, poveretta!
vedete di annunziarle la cosa in modo che la sorpresa non le faccia
male: la lettiga verrà nella stanza, e ripartiremo tosto. La buona
donna rispose che farebbe come le era detto. Mentre il Conte le dava
questa istruzione, Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato
ad ogni bravo che s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai
lettighieri e ai palafrenieri, stava tutto in incertezza per questa
fermata, e sospirava. Il Conte, spiccatosi dalla lettiga, si avvicinò
alla mula di Don Abbondio, che aspettava quello che avvenisse, con
gli occhi sbarrati, egli disse sottovoce: Signor curato; ella non
ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in questa casa è
necessaria una prudenza che io solo pur troppo posso conoscere appieno.
Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non dica parola,
non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, nè di
quello che si vuol fare, nè di quello ch'io penso. Perdoni, signor
curato, se non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo
ch'ella patisce per mia cagione, ma ella ne spera la ricompensa dal
cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia
riconoscenza.
La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il
poveretto che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica e vi si trova
sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del
Conte al povero nostro Don Abbondio.
——Ah! signor Conte, diss'egli, confondendo il sentimento che voleva
esprimere con quello che provava realmente, ella mi dà la vita. Dio sia
benedetto! queste sono grazie di lassù. Tocca a me farle scusa se sono
stato incivile....
——Zitto, per amor del cielo, interruppe il Conte: ad altro tempo le
cerimonie: ella non faccia vista di nulla, si contenga in modo che
nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico...... o d'un
tiranno.
——Lasci fare, lasci fare a me; rispose Don Abbondio. Il Conte salì
di nuovo sulla mula, e volto ai lettighieri e ai palafrenieri disse
loro: Silenzio e obbedienza: non dite, nè rispondete una parola in
quel castello: non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma.... e il
primo di voi che fiata.... Ma no, continuò, ravvedendosi, in tuono più
dolce, figliuoli non fiatate, perchè potreste far molto male a voi e ad
altri——Andiamo——
I lettighieri, che avevano deposta la lettiga, ascoltata a borra aperta
questa arringa, ripresero le cinghie su le spalle, continuarono la loro
strada, le mule seguirono, e si giunse alla porta del castello.
Gli scherani del Conte, che al suo avvicinarsi al castello
s'incontravano sempre più frequenti, già stupiti di quel suo uscir
solo al mattino in un giorno di tanto movimento e di tanto concorso,
lo erano ancor più allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga
chiusa, a paro d'un prete, con quelle cavalcature sconosciute: ma
quello che portava al sommo il loro stupore si era di vedere il loro
padrone senz'armi. Quella partenza aveva dato luogo a molte congetture,
e fatta nascere una aspettazione di qualche cosa di nuovo, ma il
ritorno, invece di soddisfare la curiosità, la cresceva e la impacciava
da vantaggio. Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e
perchè il vincitore tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi
umilmente davanti al padrone, che passava, cercavano essi di spiare sul
suo volto qualche indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era
impenetrabile: e gli scherani rimanevano a guardarsi l'un l'altro con
la bocca aperta.
Alla porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto
a Don Abbondio, che lo guardava attentamente, appunto per non perdere
un cenno; e veduto questo, si lasciò tosto sdrucciolare dalla sua
mula. Il Conte disse ai palafrenieri: aspettate qui; disse al curato
di seguire la lettiga; andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri:
seguitemi. Tutto si fece come egli aveva imposto: il Conte entrò col
suo seguito nel cortile, si avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato
in quella che le era vicina, fece restare i lettighieri, si chiuse
dentro, e comandò che la lettiga fosse posta a terra. Aprì allora
lo sportello, diede la mano alla buona donna, la fece uscire e disse
sottovoce, in modo da non essere inteso che da quelli che lo vedevano:
In quella stanza è la giovane da condursi via: e con lei una vecchia
malandrina.... una vecchia. Io la chiamerò fuori: voi entrate, e voi
pure, signor curato. Annunziate a quella giovane che è libera, che deve
partir tosto con voi, che la cosa deve passare quietamente; non perdete
tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la lettiga verrà
nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo fianco, tirate le
cortine e venite qui: io vi aspetto: andrò innanzi, poi la lettiga, poi
il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle nostre mule,
e ripartiremo. E voi, disse rivolto ai lettighieri, zitti. Così detto
condusse la buona donna ed il curato sulla soglia della porta chiusa,
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