Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 04

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con Giampaolo Osio e dei delitti che accompagnarono quegli amori, e
ne furono la conseguenza, trova conferma larghissima negli atti del
processo[108]; da' quali vengono anche rischiarate di nuova luce,
o messe in evidenza alcune particolarità, che il Ripamonti adombra
appena, o trascura. Una, tra le altre, è singolare. Mescolato in
quegli amori fu un sozzo prete, Paolo Arrigone, curato di S. Maurilio
a Monza, amicissimo dell'Osio, che più volte si valse di lui per
scrivere lettere e portare ambasciate all'amante[109]. Reso ardito
dalla gentilezza della Signora, osò volgere gli occhi fino a lei, ma fu
sdegnosamente scacciato. Furibondo e offeso, minaccia di svelare le sue
tresche coll'Osio. Essa gli scrive: «Sono informata che, da quell'huomo
infame e vituperoso che sej, la tua sfacciataggine è arrivata a tale
colmo, che haj messo in ordine le solite tue malvagità contra l'honor
mio; per il che stupischo de la clemenza di Dio, che avanti che tu ti
parta dall'altare, non ti faccia sfavillar focho et portarti via da
cento para di diavoli. E però sappi, per il battesimo santissimo che
porto in testa et da quella che sono, che ti voglio far conossere da
chi non ti conosse et mostrare perchè conto contro di me sij riparato
a questo modo: et ti farò conossere per quel perverso e sacrilegho che
sej, arrivato a tutte quelle insolentie che sa tutto il mondo, sino
alla presuntione di tentare anco qui dentro le spose di Gesù Cristo et
procurare in tutti li modi di macchiare l'honore di questo monastero,
come apare dalle lettere che, in testimonio di questo, tengho
rinserrate presso di me». Da' costituti suoi, da quelli delle sue
compiici, dalle deposizioni delle stesse monache che covavano contro di
lei astii e rancori non risulta nessuna prova che sia stata partecipe
de' delitti perpetrati da Giampaolo. «Ne fu testimone esterrefatta,
e nulla più», come nota lo Zerbi. Abbandonò sè stessa al delirio de'
sensi: è questa la sua vera, la sua unica colpa; ma le fu un tormento
per tutta la vita, e per tutta la vita la pianse.
Il Manzoni, condotta che ebbe a fine la prima minuta del romanzo——e
fu il 17 settembre del 1823, come s'è visto——prese a riscriverlo;
trasportando però nella nuova minuta alcuni de' vecchi brani:
quelli che riteneva bisognosi soltanto di qualche ritocco, non d'un
sostanziale rifacimento. Ma li tempestò talmente con la penna, mutando,
aggiungendo, correggendo, da non serbare più quasi nessuna delle
primitive fattezze. Rivide e corresse da per sè anche la copia, che di
su la seconda minuta fece fare, da altra mano, per la Censura; della
quale però non resta che il primo volume, essendo gli altri due andati
dispersi. Anche la revisione delle bozze di stampa fu una faccenda
seria, lunga, spinosa, fastidiosissima. Non era mai contento; mutava
e rimutava di continuo. A cagione de' tardi pentimenti, parecchi de'
fogli già stampati furon distrutti e di nuovo composti. L'aiutarono
gli amici Tommaso Grossi ed Ermes Visconti; molto l'aiutò l'abate
Giuseppe Pozzone di Trezzo, che fin dal 1819 insegnava belle lettere
nel Ginnasio di Brera.
Chi raffronti insieme la seconda minuta e la copia per la Censura con
l'edizione originale, fatta a Milano per i torchi di Vincenzo Ferrano,
non trova che differenze di forma. La seconda minuta e la copia per
la Censura, in sostanza, salvo ritocchi di lingua e di stile, sono il
testo definitivo; ma un testo che è il più radicale rifacimento della
prima minuta; la quale, dalle linee generali in fuori, in molte parti
par quasi un romanzo affatto diverso. Ho dunque trascritto dalla prima
minuta i brani soppressi, o rifatti nella seconda, e li stampo. Saranno
un utile studio del modo con cui si affacciò all'immaginazione del
Manzoni la tela primitiva del racconto.
Nel testo del volume do i tratti di maggiore interesse e importanza;
nelle appendici ho raccolto le bricciche, perchè nulla resti
dimenticato. E a queste bricciche della prima minuta ho unito, come
saggio della seconda minuta, il brano riguardante l'Innominato, che
poi stralciò dalla stessa seconda minuta e soppresse, sembrandogli
troppo lungo e particolareggiato. La figura di questo ribaldo, che a
un tratto si pente e muta vita; figura che è certo tra le più belle
creazioni manzoniane, è la sola di tutto il romanzo ch'egli abbia
rifatta tre volte. Il _Conte del Sagrato_ della prima minuta, si
trasmuta nell'_Innominato_ della seconda, con fattezze nuove. Ma anche
di questo rifacimento il Manzoni non si contenta; torna a tratteggiarlo
per la terza volta, e riesce quello che poi è rimasto.
_Torino, 11 marzo 1905._
GIOVANNI SFORZA.


I.
DISCUSSIONE SULL'AMORE NE' ROMANZI

Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto
creder così al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di
fatti, mi trovo in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà
sospesa alquanto da una discussione sopra principj: discussione la
quale occuperà probabilmente un buon terzo di questo capitolo[110]. Il
lettore, che lo sa, potrà saltare alcune pagine, per riprendere il filo
della storia: e per me lo consiglio di far così, giacchè le ragioni che
mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, o anche da
fargli venir la muffa al naso.
La discussione viene all'occasione della osservazione seguente, che mi
fa un personaggio ideale.
——I protagonisti di questa storia, dic'egli, sono due innamorati,
promessi al punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle
circostanze, condotte da una volontà perversa. La loro passione è
quindi passata per molti stadj, e per quelli principalmente che
le danno occasione di manifestarsi e di svolgersi nel modo più
interessante. E intanto non si vede nulla di tutto ciò: ho taciuto
finora, ma quando si arriva ad una separazione secca, digiuna, concisa,
come quella che si trova nella fine del capitolo passato[111], non
posso lasciare di farvi una inchiesta. Questa vostra storia non ricorda
nulla di quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i
principj, li aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li
dimostra innamorati.——
——Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che
sono anzi la parte la più elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e
nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere.——
——Bella idea! e perchè, se v'aggrada?——
——Perchè io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve
scrivere d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a
questa passione.——
——Poffare! nel secolo decimonono ancora simili idee! Ma i vostri
riguardi sono tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi è il
più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo
in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui
ad un sentimento virtuoso.——
——Armatevi di pazienza ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa che
questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati,
nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un
sì delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si
potesse, poichè per tali lettori non potrebbe certamente aver nulla
di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che
troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand'anche fosse
trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perchè quale è
lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può
sentirlo? Ma ponete il caso che questa storia venisse alle mani,
per esempio, d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente
(non mi direte che non se n'abbia), e di anguste fortune, la quale,
perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando quietamente,
e cerca di tenere occupato il cuor suo coll'idea dei suoi doveri,
colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che
il mondo non può dare, nè torre; ditemi un po', che bell'acconcio
potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare
in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti.
Ponete il caso, che un giovane prete, il quale coi gravi uficj del
suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo
studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono
da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando troppo
a dritta, nè a sinistra, per non dar qualche stramazzone in un momento
di distrazione; ponete il caso che questo giovane prete si ponga a
leggere questa storia: giacchè non vorreste che si pubblicasse un libro
che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli
farebbe una descrizione di quei sentimenti ch'egli debba soffocar ben
bene nel suo cuore, se non vuol mancare ad un impegno sacro ed assunto
volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una contraddizione
che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si potrebber fare.
Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve n'ha quanto
basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e
che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non
fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno,
e che uno scrittore, secondo le sue forze, può diffondere un po' più
negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la
dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di sè stesso: oh di questi non
v'ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un
po' più nelle cose di questo mondo: ma dell'amore, come vi diceva, ve
n'ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia
necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo
dunque opera imprudente l'andarlo fomentando cogli scritti; e ne son
tanto persuaso, che se un bel giorno, per un prodigio, mi venissero
ispirate le pagine più eloquenti d'amore che un uomo abbia mai scritte,
non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son
certo che me ne pentirei.——
——Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali e peggio;
idee che tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben diverse
dalle idee grandi della vera religione...——
——La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato,
pensatori profondi e pacati[112], ragionatori d'una esattezza
scrupolosa, e tutti questi, senza una eccezione, hanno disapprovate le
opere in cui l'amore è trattato nel modo che voi vorreste. Oh, ditemi
di grazia, come mai io posso persuadermi che tutti questi non han
saputo conoscere quel che si voglia la vera religione, e che voi avete
trovata senza fatica la verità, dov'essi, con uno studio di tutta la
vita, non hanno saputo pescare che un errore grossolano?——
——Così voi condannate tutti gli scritti....?——
——Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perchè io
abbia esclusi tutti quei bei passi da questa storia. Ma se volete dei
giudizj e delle condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito,
anzi bello il condannare, cioè quando uno giudica sè stesso. Vedete
quello che hanno pensato dei loro scritti amorosi quegli scrittori (del
cristianesimo intendo) i quali si sono acquistata fama di grandi, e
nello stesso tempo di più castigati. Vedete, per esempio, il Petrarca e
Racine.——
——Il Petrarca viveva in tempi...——
——Non parliamo del Petrarca, perchè io spero che leggeremo presto
intorno a lui il giudizio d'un uomo il quale ne dirà quello che nè
voi, nè io non giungeremmo a trovare. Vi tratto, conio vedete, senza
cerimonie, perchè siete un personaggio ideale.——
——Ebbene, Racine. Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che
hanno due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli
altri, che il pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una
debolezza degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande
intelletto, debolezza che fa compassione?——
——Vi sono stati due Giovanni Racine. Uno, per aver la grazia dei
potenti, adulò in essi apertamente il vizio, ch'egli conosceva per
tale, e per giustificare appunto le sue tragedie beffò degli uomini pei
quali aveva in cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni
personali ai ragionamenti, per evitare la quistione; punse acerbamente
quanto potè ed umiliò con epigrammi stizzosi certi tali, che non la
natura certo, ma il giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti
suoi emoli; e nello stesso tempo si rose internamente, si accorò,
perdette la sua pace ad ogni critica che sentiva fare delle sue opere:
tormentato e tormentatore pei meschini interessi della letteratura, e
della sua letteratura. Questi è quel Giovanni Racine che scriveva rime
d'amore.
L'altro, viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia:
se non si allontanò affatto dai potenti, almeno parlò ad essi (caso
raro, quasi unico in quei tempi) delle miserie degli uomini, che essi
avrebbero dovuto sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli
applausi, non solo non provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con
dolore; non solo non arrovellava ad ogni critica, ma quando un uomo
non provocato lo fece segno ad un pubblico insulto non se ne lagnò,
e invece di ricevere scuse, rispose con ringraziamenti[113]. Egli,
che era stato cortigiano nella sua giovinezza, rifiutò di sedere alla
mensa di un principe, per non privare i suoi figli della sua compagnia.
In pace con sè, col genere umano, e coi letterati, egli trascorse
libero da quelle passioni che avevano agitata la sua prima età: e non
si può proprio dire per questo che fosse rimbambito, poichè scrisse
Atalia. Questi è quel Giovanni Racine, che si pentiva di avere scritte
rime d'amore. Che di questi due uomini il debole fosse il secondo,
si può certamente dire, se ne dicono tante! ma per me, non posso
persuadermene.——
——Dunque, secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non
fosse rimasto che un esemplare delle tragedie amorose di Racine, se
questo esemplare fosse stato in vostra mano, se Racine ve lo avesse
chiesto per abbruciarlo, per privare la posterità d'un tale monumento
d'ingegno, voi avreste?... non ardisco quasi interrogarvi.——
——Io glielo avrei dato subito, perchè quel brav'uomo potesse aver la
soddisfazione di gettarlo sul fuoco. Come! voi credete che si sarebbe
dovuto esitare a toglierli dal cuore questa spina? Gliel'avrei dato
subito, perchè il dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di
Racine era un sentimento più importante che non sia stato e non sia per
essere il piacere che hanno dato e che sono per dare le sue tragedie
fino alla consumazione dei secoli.——
——Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi
andate scemando sempre più il numero de' lettori; e che se avrebbero
potuto essere centinaia, sa il cielo se li conterete a dozzine?——
——Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza
di questo inconveniente.——
——Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di
dilettare, di quei mezzi che, anche in mano della mediocrità, possono
talvolta produrre un grande effetto?——
——Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe
d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più
frivola, la più servile, l'ultima delle professioni. E vi confesso che
troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano e di più degno
nelle occupazioni di un montambanco, che in una fiera trattiene con sue
storie una folla di contadini: costui almeno può aver fatti passare
qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie;
ed è qualche cosa. Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte
queste ciarle, che abbiam fatte finora, non abbiam detto nulla o quasi
nulla sul fondo della quistione. Voi non lo avete toccato; ed io sono
rimasto, rispondendovi, in quella sfera dove vi siete posto; abbiam
ciarlato di fuori, come si usa. Che se volete veder qualche cosa sul
fondo della quistione, andate di grazia a quegli scrittori di cui
abbiam fatto cenno: o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.——
——Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a
porre insieme le idee di un Vandalo e d'una donnicciola...——[114].
——Sparisci; e torniamo alla storia.[115]——


II.
LUCIA E AGNESE A MONZA——PRESENTAZIONE AL MONASTERO——STORIA DELLA
SIGNORA——SUO COLLOQUIO CON LUCIA.

Dove siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo
dire. Abbiam già avvertito che delle due classi fra le quali era
divisa la società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi,
d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva
alla prima. La sua timida discrezione raddoppia però a questo punto
della narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne fa vedere
il motivo. Le avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano
implicate con intrighi tenebrosi, misteriosi, terribili, di persone,
che deggiono essere state potenti, e imparentate assai: e l'autore
si scopre impacciato tra il desiderio di raccontare quello che sa,
e il terrore di offendere di quelle famiglie, il mormorare contra
le quali era un peccato punito in questo mondo. Quindi egli va col
calzare del piombo, e, narrando i fatti, sopprime tutte le indicazioni
che potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste
indicazioni anche quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli
non è stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare, senza timore
d'ingannarci, il luogo dove si è fermata Lucia: poichè l'autore, senza
avvedersene, ci ha dato un filo, che condurrebbe alla scoperta anche un
ragazzo. Egli dice, in un passo del suo racconto, che Lucia giunse ad
un borgo nobile ed antico, al quale di città non mancava che il nome;
altrove parla del Lambro, che vi scorre; altrove ancora dice che v'era
un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in Europa uomo che sappia
leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo,
solette in una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese,
senza alcuna conoscenza, non avendo in così alto mare altra bussola
che la lettera del Padre Cristoforo. La lettera era diretta al Padre
Guardiano dei Cappuccini. Agnese chiese conto del convento alla moglie
dell'albergatore; la quale non lo diede che dopo aver tentata ogni
via per avere un pagamento anticipato di un così picciol servizio, in
tante informazioni sul nome e sulla qualità delle donne, sui motivi
del loro viaggio, sugli affari che potevano avere col Padre Guardiano.
Ma le donne, alle quali era stato dal loro protettore raccomandata
la discrezione, seppero ingannare le ciarle della ostessa, la quale
fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del convento.
Si mossero quindi tosto, benchè dovessero risentirsi del travaglio
della notte e del giorno antecedente; la lepre cacciata non sente la
stanchezza che quando ha trovato un ricovero.
Agnese, a cui l'aspetto di Monza non era nuovo, perchè v'era passata
molti anni addietro, nè imponente, perchè aveva soggiornato a Milano,
camminava francamente, guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava
rasente il muro tutta sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni
rivolta di canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da
una maraviglia mista di non so quale afa, come chi vede una brutta
grandiosità. Ma il sentimento predominante di accoramento e di
terrore non le dava campo di esprimere quello che allora provava, nè
provarlo distintamente e con forza. Giunte alla porta del convento,
tirarono il campanello, e al portinajo, che sopravvenne, chiesero
del Padre Guardiano, al quale avevano una lettera da consegnare.
Quando Lucia vide una tonaca[116] cappuccinesca le parve di essere
in paese conosciuto, e si riebbe alquanto. Il Padre Guardiano non
si fece aspettare, salutò le donne, prese la lettera dalle mani di
Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che annunziava la
compiacenza: Oh! il mio Padre Cristoforo. Il Padre Cristoforo era stato
suo collega nel noviziato, e d'allora in poi essi avevano contratta una
amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più
che fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini
dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società separate
con vincoli particolari dalla società universale degli uomini. Queste
frazioni, questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono
un vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di
benevolenza, vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire
odj accaniti e mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odj
nell'interno della picciola società, e per dare a quegli stessi che
si odiano una apparenza e una condotta da amici ogni volta che essi
si trovino in contrasto cogli estranei. Quando poi una conformità di
patimenti e di inclinazioni, crea fra due individui di queste società
una benevolenza particolare, essa è tanto più forte, quanto più essi si
sono scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il Padre Guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli
occhi dal foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e
d'interessamento. Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò,
passò la mano sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come
chi[117] spera di aver trovato quello di che aveva bisogno:——Non c'è
altri che la Signora: se la Signora vuol pigliarsi l'impegno....——Fece
quindi a bassa voce ad Agnese alcune interrogazioni, alle quali essa
soddisfece, indi domandò:——Volete seguirmi? Io spero di aver trovato
ove collocare in sicuro questa buona ragazza.——Le donne si disser
pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e il Padre——venite
con me, disse; statemi soltanto alcuni passi addietro; perchè, vedete,
il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse
il Padre Guardiano con una bella giovane, voglio dire con donne per
la via.——Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al Guardiano alla
distanza ch'egli aveva indicata. Giunti al monastero, il Guardiano
si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del
fattore, la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla via,
progredì nel cortile, promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio della _fattora_ fu, come doveva essere, più
imperioso, più astuto, più pressante d'assai che non fosse stato
quello dell'albergatrice; e Agnese, schermendosi a stento, andava
già componendo una filastrocca nella sua mente, perchè vedeva di non
potersi sbrigare senza raccontar qualche cosa, quando, per buona
sorte, ritornò il Padre Guardiano, con faccia giuliva, ad annunziare
alle donne che la Signora si degnava riceverle. La fattora le lasciò
partire, guardando con dispetto il Guardiano ch'era venuto a farle
fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando il cortile, il Guardiano addottrinò le donne sul modo da
tenersi colla Signora.——Siate umili e riverenti, raccomandatevi alla
sua protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella
sarà per farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me.——
Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza e di
pensiero, di questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al Padre
chi ella fosse. Probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così
modesto, e per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la
Signora; ma, come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli
una risposta, la quale, sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta,
contenga però solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco, che
era stata posta dall'adolescenza in quel monastero, e vi aveva assunto
il velo, e fatta la professione. Aveva essa l'incarico di vegliare
sulle fanciulle che erano nel monastero per educazione, e il suo titolo
sarebbe stato maestra delle educande, ma per la sua nascita, per le
parentele, e per la superiorità che queste le davano sulle altre
sorelle, non era chiamata con altro nome che di Signora; ed era da
tutte riguardata come la protettrice, la donna principe del monastero;
e, con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi servizi
ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece
di cella. La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori
delle mura del monastero; e i cappuccini, i quali di generazione in
generazione, o per meglio dire di vestizione in vestizione, erano ab
immemorabili in rapporto di amicizia col monastero, godevano essi
pure di questa protezione. Ecco perchè il Padre Guardiano fece tosto
assegnamento su la Signora, ed ecco perchè Lucia è condotta ora dinanzi
a lei.
Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al
parlatorio; prima di porvi il piede, il Guardiano, accennando la porta
aperta, disse sottovoce alle donne:——qui è la Signora,——come per farle
rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia
non aveva mai veduto un monastero; ponendo, tutta timorosa, il piede
sulla soglia del parlatorio, si guardò intorno, per vedere dove fosse
la Signora, a cui si doveva fare l'inchino, e non iscorgendo persona,
stava come smemorata, quando, osservando il Padre, che andava ritto
verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò, e vide un pertugio,
alto la metà d'una finestra e largo quasi il doppio, con una doppia
grata, la quale, togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la
lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora
in piedi, e le s'inchinò profondamente, come avevano già fatto gli
altri due. L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita
alquanto, e direi quasi un po' conturbata, ma singolare[118], poteva
mostrare venticinque anni[119]. Un velo nero, teso orizzontalmente
sopra la testa, scendeva a dritta e a manca dietro il volto, sotto
il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte
che si vedeva diversamente, ma non meno bianca della benda, sembrava
un candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella
fronte, liscia ed elevata, si corrugava di tratto in tratto quando
due nerissimi sopracigli si riavvicinavano per tosto separarsi con
un rapido movimento. Due occhi, pur nerissimi, si fissavano talvolta
nel volto altrui con una investigazione dominatrice, e talvolta si
rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi un
non so che d'inquieto e di erratico[120], una espressione istantanea,
che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta
di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi
accompagnavano. Le guancie[121] pallidissime, ma delicate, scendevano
con una curva dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come
quello d'una statua greca. Le labbra[122] regolarissime, dolcemente
prominenti, benchè colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure
fra quel pallore, e i loro moti, come quelli degli occhi, vivi,
inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera bianca,
increspata, lasciava intravedere una striscia di collo bianco e
tornito. La nera cocolla[123] copriva il rimanente dell'alta persona,
ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni
rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione[124]. Nel vestire
stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di negletto, di
strano insomma, che, osservato in uno colla espressione del volto,
dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare. La stoffa della
cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache, il seno era
succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla
tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli: il che
dimostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener, secondo la regola,
sempre mozze le chiome, già recise nella cerimonia solenne della
vestizione. Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel
discorso, nei gesti della Signora. S'alzava ella talora con impeto a
mezzo il discorso, come se temesse in quel momento di esser tenuta, e
passeggiava pel parlatorio; talvolta dava in risa smoderate, talvolta
levando gli occhi, senza che se ne intendesse una cagione, prorompeva
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