Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 09

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lati girava un basso ed unico piano di abitazione. Il lato appoggiato
a quella parte del chiostro ove dimoravano le suore, era un lungo
stanzone che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle educande;
un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di
dormitorio; il terzo, diviso in varie camere, era l'appartamento della
Signora e delle sue damigelle; il quarto finalmente, più stretto
degli altri, era tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del
chiostro, il quale abbracciava il cortiletto da tre lati[175]. L'altro,
e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo
ad una casa privata e signorile, o per meglio dire ad una parte
rustica e non finita di quella casa. Era dessa elevata al di sopra
del quartiere delle educande[176]; ma quello che se ne poteva vedere
da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una
parte di casa civile; erano tetti e tettucci, diseguali di altezza e
di forma; soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di quei
tetti v'era un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo e adito
a passare su quei tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto
delle educande.
Era severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici,
che dovessero togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o
fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache non
avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi
da quella servitù eccedesse la possibilità del monastero, o che non si
potesse venirne a capo senza quistioni, il fatto è che da quel pertugio
si guardava nel cortiletto delle educande; e un altro fatto assai
tristo si è che il padrone di quella casa era un giovane scellerato: e
questa parola, applicata ad un uomo di quei tempi, ha un senso molto
più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perchè a
quei tempi, tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro
i quali vi si distinguevano, essa giungeva ad un segno del quale,
grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza comune del
vivere presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed infiniti: la
frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli
animi erano avvezzi ed allevati, per dir così, nel sangue: da questi
fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo
stesso tempo la perversità delle idee quei fatti, più comuni rendeva e
più tollerati. La vendetta, per esempio, era comunemente stimata non
solo lecita, ma comandata in alcuni casi; e benchè i ministri della
religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni pubbliche
a questa massima perversa, benchè non avessero anzi cessato giammai di
inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano,
pure l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una
distinzione, che, a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione
della sua assurdità, non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva
che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la
vendetta secondo la religione era viziosa, ma ch'essa era un dovere
secondo le leggi dell'onore: così si diceva e non dai più perversi,
nè dai più stolti. Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto
draconiane, e domandavano sangue per molti casi: senza che questo onore
così delicato si stimasse poi offeso, _se per necessità_ il sangue si
fosse dovuto versare a tradimento o per mano di sicarj. Ne veniva di
conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso
diveniva causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al
sangue si diminuiva con l'abitudine anche negli uomini che non erano
sanguinarj, e che si era formato come un sentimento universale che
una certa misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse una
condizione necessaria, inevitabile della società; chi avesse detto che
quello era un male temporario e speciale, sarebbe stato deriso come un
ottimista, un utopista, un sognatore metafisico; appena uno si sarebbe
degnato di rispondergli: gli uomini sono sempre stati e saranno sempre
così. Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di
tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro
che gli uomini i quali avevano una tendenza distinta alla perversità,
per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben
più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni
dei nostri giorni; trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai
nostri giorni a giungervi, e vi giungevano. L'omicida ai nostri giorni,
quand'anche fosse impunito, sarebbe un oggetto di orrore; oggetto
forse di più profondo orrore sarebbe chi, senza commettere l'omicidio
di propria mano, ne avesse dato l'ordine ed il prezzo; e tali rei,
oltre le pene legali, dovrebbero temere di perdere tutte le dolcezze
della comune società. Quindi l'uomo che, in qualunque condizione,
aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente. Ma allora
v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere, non
toglieva alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso
a giustificarsi e a render ragione dinanzi alla opinione publica: non
si trattava che di provare che il caso richiedeva l'omicidio, che
il delitto era una azione tollerata, o prescritta dalle leggi della
opinione stessa. La speranza di poter fare questa giustificazione
dinanzi ad una opinione già tanto perversamente indulgente, e di farla
accettare col terrore, doveva essere ed era uno stimolo ai tristi
potenti per correre allegramente la loro via[177]. Bastava quindi un
leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi
fra i tristi ad attentati ai quali ora si risolverebbero a fatica
gli uomini i più avvezzi al delitto, benchè vi fossero tratti da un
interesse molto maggiore, da una passione molto più violenta. Sarebbe
un soggetto degno di curiosità la ricerca delle cagioni por cui quelle
idee e quei costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte
le nazioni d'Europa, sieno poi stati da migliaja di scrittori e da
milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani. Ma noi
invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi
lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era
dunque un giovane scellerato: e si chiamava il signor Egidio: poichè
di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto sparagnatore.
Suo padre, uomo dovizioso bastantemente, non aveva avuta altra mira
nell'educarlo, che di renderlo somigliante a sè stesso: ora egli era un
solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall'infanzia
a parlar altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto
quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era
passato in quelle degli scherani. La madre, ch'era di un carattere
mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa
educazione, ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una
lenta malattia, cagionata dai continui spaventi. Il padre fu ucciso
dopo una brevissima questione da un suo emolo, membro di una famiglia
emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella
sua giovinezza. La prima sua impresa fu di risarcire l'onore della
famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell'uccisore di suo
padre. Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo
pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero dei suoi
bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo padre aveva
non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime
e di condotta; Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che
aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello non
piacevano a lui, come al padre, per sè medesimi: l'educazione lo aveva
addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche
fine ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno
per lui. La sua passione predominante era l'amoreggiare; a questa si
abbandonava, con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra
in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al
macello quando non si poteva fare altrimenti.
L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato
da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si curava di spiare
i fatti delle educande. Soltanto egli vi aveva condotto una volta
Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul
chiostro, e quivi stendendo la mano sui tetti sottoposti, come Amilcare
sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale che mai in
nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero
quella servitù. Egidio, divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino e
gli parve un dominio assai più importante che suo padre non lo aveva
creduto.
Un consorzio di donzellette, le quali non erano tutte bimbe, parve
a colui uno spettacolo da non trasandarsi, quando lo aveva così a
portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute,
l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu
incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni
già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte
le occasioni. Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella
frequenza e con quella libertà che non bastasse a farlo scoprire da
chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia
alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi
sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a
chiacchierellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella,
fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così
la tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita. Egidio, animato
da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà
del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i
disegni sopra la Signora: e si diede ad agguatarla. Un giorno, mentre
le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due
suore addette ai servigj della Signora, passeggiava essa sola innanzi
e indietro nel cortiletto, lontana le mille miglia da ogni sospetto
d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza
pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto
dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti.
Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di
voce non articolata, la quale voleva farsi e non farsi intendere, e
macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava
cercando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il
punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore, simile
al primo, e che manifestamente le apparve una chiamata misteriosa
e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella
cercava. Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e
i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella
chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che
fosse fin allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento
ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò
tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come
a rifugiarsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del
vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario
di quello: quivi, tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta
come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che
conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse, quasi per porsi
in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di
pensieri: cominciò, prima di tutto, a ripensare se mai ella avesse dato
ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente si
rallegrò: quindi, detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto,
se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione, per venire
più chiaramente a comprendere come, perchè ciò fosse avvenuto. Forse
era equivoco? forse l'aveva egli presa in iscambio? forse aveva voluto
accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le
pareva di non avere errato alla prima, e questo esame, aumentando
la sua certezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e
diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa strana e
trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava una certa
sicurtà a tornare su quelle immagini; ella compiaceva liberamente
ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e
guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la
sua. Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti
pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue
educande, con le suore, di non esser sola. Esitò alquanto su la strada
che doveva fare: ripassando pel cortiletto ella avrebbe potuto lanciare
un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se
colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come
regolarsi.... ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma
della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare
s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o fosse
caso, o un resto di quella esitazione, ella si affacciò ad una finestra
che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario
che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse e uscì da
quella stanza, dicendo in fretta alle educande, con voce commossa:
lavorate da brave; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino
del chiostro. L'atto repentino e la commozione della voce non diedero
nulla da pensare nè alle educande, nè alle suore, avvezze le une e le
altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava
peggio nel giardino che già non fosse nelle sue stanze. Le venne un
pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi
a tanta temerità. Ma..., e se mi fossi ingannata? Questo dubbio non
le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto
le si presentava alla mente come un dovere. Prima di parlare, diceva
fra sè, voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza.
E finalmente, concluse fra sè, in un accesso di passioni diverse,
finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato
io qui vicino a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in
nessun angolo della terra! Dovevano pensarci quelle che sono venute a
chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non voglio pensarci.
Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo
scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella non avrebbe pensato
ad altro. Il nostro manoscritto segue qui con lunghi particolari il
progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari,
e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso
ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere
ai quali la strascinò la sua caduta. L'assedio dello scellerato Egidio
non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione
di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando
gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della
noncuranza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso
combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che
lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della
sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò
per uno istante[178] una falsa gioja. Alla noja, alla svogliatezza,
al rancore continuo, succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una
occupazione forte, gradita, continua; una vita potente si trasfondeva
nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude ne fu come inebriata; ma era la
coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi porgeva al
condannato per invigorirlo a sostenere il martorio. L'avvenire gli
apparì come piano e delizioso. Alcuni momenti della giornata spesi a
quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad aspettarli,
a prepararli le sembrò una esistenza beata, che non lascerebbe nè
cure, nè desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice il
manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme
ch'egli tocca dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di
Egidio s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro
divisorio non lo fu più che di nome.
Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude
era accaduto un gran cangiamento, tutte le inclinazioni viziose,
che vi erano come addormentate, si risvegliarono più forti e più
adulte e a tutte queste si aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei
primi momenti a divenire più attenta nell'esteriore, più regolare,
più tranquilla; cessò dagli scherni e dal rammarichio; di modo che le
suore si congratulavano a vicenda della mutazione felice. Ma quando
all'effetto naturale del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta
dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi, quali diventassero le
idee di Geltrude. Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza[179]
era già da gran tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla
perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto; i ragionamenti che
tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia,
un'arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati
all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e sinceri. Vi
ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo,
di più verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse
in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il pervertimento
può parere facilmente un progresso di ragioni. Ben è vero che al di
là di quelle teorie ve n'ha una più profonda e vera che mostra la
loro fallacia; ma questa non è dato trovarla se non ad una meditazione
potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non aveva nè l'uno, nè
l'altro di questi ajuti. Ella fu dunque una docile e cieca discepola,
e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali di perversità a cui
l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare.
Ma non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle
nuovi passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva
a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità che si
era prescritte; la licenza a cui si era abbandonata le rendeva più
insopportabile ogni contegno, e così si rilasciò tanto, che negli
atti e nei discorsi divenne più libera e irregolare di prima. Insieme
a quelle cure cominciò, senza avvedersene, a trascurare anche le
precauzioni che aveva da prima messe in opera per nascondere quello
che tanto le importava di nascondere; e le trascurò tanto che ella
s'accorse chiaramente un giorno che le due damigelle che le stavano più
vicine avevano qualche sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua
scoperta a colui che era il suo solo consigliere. Questi ne fu pure
atterrito, ma a mille miglia meno di Geltrude, per la diversità delle
circostanze, e perchè tanto era minore il suo pericolo che non quello
della donna, e per la diversità dell'animo: perchè quello di Egidio
era duro e grossolano; e in Geltrude il timore della vergogna era
una passione furiosa, come si è veduto dalla sua condotta anteriore.
Pensò egli quindi più freddamente al modo di scansare il pericolo,
e ne trovò uno che era per lui una nuova occasione di soddisfare
alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò il terrore di quella
poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun rimedio le paresse
troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio, che fu di
render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la
sospettavano. Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si
valse di tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò
tutte le dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute.
L'albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma
Geltrude aveva la passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo
colse. Con la direzione del serpente ella trasfuse prudentemente a
gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento che era
necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento
nella loro colpa. Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con
ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore, si trovò
disposta ad agguerrirsi ad ogni allentato; e l'occasione non tardò a
presentarsi.
Una delle due suore addette alla Signora, quando cominciò ad avere
qualche sospetto, lo confidò ad un'altra suora, sua amica, facendosi
promettere il segreto; promessa che le fu tenuta, perchè la Signora era
troppo potente e il segreto troppo pericoloso, e la voglia di ciarlare
fu vinta dalla paura.
Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche
essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu
risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta
la confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però
la suora, che aveva ciarlato, divenne complice, si studiò non solo di
eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi e di farle credere
che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era
pienamente disingannata. Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel
sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel
quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde un giorno che la Signora, venuta a parole con costei, la
aspreggiò e la trattò con tali termini di villania, che la suora,
dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti:
ch'ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a
chi si doveva. La Signora non ebbe più pace.
Che orrenda consulta! Le tre sciagurate e il loro infernale consigliere
deliberarono sul modo d'imporre silenzio alla suora. Il modo fu
pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre
con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude
fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a
tutto soffrire, piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma
finalmente, vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso
tempo dal suo terrore, venne ad una transazione, per la quale ella si
sforzò di fingere a sè stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque
che non si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al
sangue l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò
alla suora condannata, e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti,
in modo da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa
dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza
aveva essa stessa bisogno di esser sicura. La traditrice, mostrando
che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora
per non darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità
e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva
per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove
l'avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse
renderla testimonio di qualche cosa. La meschina cadde nel laccio.
Venuta la notte, ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le
venne incontro chetamente e la condusse nella sua cella: quivi preso
il pretesto dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che
tornerebbe tosto, la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura,
raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse. Uscì
quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo scellerato,
che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile
coraggio che le abbisognava, entrò nella cella, armata d'uno sgabello,
con la sua compagna. Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva
nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce.
La scellerata, parlando colla compagna, perchè la nascosta non si
muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di
rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso
il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso,
le si avventò, e prima che quella potesse nè difendersi, nè gettare un
grido, nè quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita[180].
Accorse al remore Egidio, che stava alla bada nella stanza vicina, ed
incontrò le colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se
per caso e a mal loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto.
Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta.——Vedete,
rispose tremando l'omicida.——Ebbene! coraggio, replicò lo scellerato,
ora bisogna fare il resto; e dava tranquillamente gli ordini all'una e
all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del delitto.
Avvezze, come elle erano, a ubbidire a colui che aveva acquistata
una orribile autorità su gli animi loro, a colui che faceva loro
sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate e come illuse
dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si
trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza,
ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato.——E la Signora,
perchè non viene ad aiutarci? disse l'omicida: tocca a lei quanto a
noi, e più.——Andate a chiamarla, rispose Egidio. L'omicida, che cercava
anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da
quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla
stanza di Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore
del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla
porta; intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo
il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore
del misfatto e il terrore che non fosse ben consumato. L'omicida
entrò, e disse: abbiamo fatto ciò che era inteso: non resta più che
di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci[181].——No, no,
per amor del cielo, rispose Geltrude.——Che c'entra il cielo, disse
l'omicida.——Lasciami, lasciami, continuò Geltrude.——Come! replicò
l'omicida, chi è stata quella...?——Sì, è vero, rispose Geltrude; ma
tu sai ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona
da nulla; lasciami stare per amor... Gli atti e il volto di Geltrude
riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida
non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui
l'aspetto del quale pareva dire: non è nulla.——Non vuol venire,
diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere
un sorriso di scherno: non vuol venire; è una dappoca[182].——Non
importa, disse Egidio, non farebbe altro che impacciare: ecco, tutto
è finito senza di lei.——Resta ancora.... volle cominciare l'omicida,
ma non potè continuare.——Ebbene, disse Egidio, questa è mia cura:
datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me. Le donne obbedirono:
Egidio, carico del terribile peso, ascese per una scaletta al solajo;
e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata
che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni,
dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non
aveva forse mai servito; quivi in una buca, scavata da lui il giorno
antecedente, depose il testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati
da un mucchio, che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra
per ricoprirlo, proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito
tutto il mucchio, un monte se avesse potuto. Le due donne, rimaste
sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima; e
poi... che avevano a dirsi? L'omicida ruppe il silenzio, dicendo:
andiamo a cercare la Signora; l'altra le tenne dietro senza rispondere.
Bussarono premurosamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in
agguato, e disse macchinalmente: chi è?——Chi potrebb'essere? rispose
l'omicida: siam noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte
come jeri. Geltrude aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza
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