Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 06

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nascondere affatto; poichè, malgrado la fermezza di questa risoluzione,
Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre
di sua bocca, e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte:
poichè in quel caso non le restava che di sopportare la collera e le
minacce del padre; operazione passiva, che le pareva molto più facile,
che di pronunziare quelle parole: non voglio. La poverina faceva come
colui che avendo da dire qualche cosa di spiacevole a qualcheduno,
piglia la penna e gli manda le sue idee in un bel foglio di carta.
Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano celati alle
monache. Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza,
che la faccia dei giovanotti presenta quasi sempre all'occhio di chi
comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda
che è data a quell'età, e che forse non ritorna più in nessuna altra
epoca della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un
diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di questa
professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri[147].
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto
o saputo osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso,
dall'entusiasmo al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola
stizza, se non altro, nella quale l'invidia era trasparente, avrebbero
potuto conoscere qualche cosa dell'animo suo; qualche cosa, perchè
nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è una parte di stranio, di
fantastico, di individuale, che non si confida, nè s'indovina, a quel
che dice il manoscritto.
Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di
ritenerla per qualche tempo nella casa e nel mondo. Il passo era
spiacevole assai pel marchese Matteo, ma inevitabile, perchè una
ragazza allevata in un monastero non poteva far la domanda di esservi
ammessa ai voti, se non dopo esserne stata fuori per qualche tempo. Era
questa una formalità, destinata ad assicurare alle figlie la libera
scelta dello stato; giacchè ognuno vede che sarebbe stato troppo facile
di fare abbracciare il monastero ad una giovane che, rinchiusa nel
chiostro dall'infanzia, non avesse mai avuta idea di altro modo di
vivere.
Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per
accertare la validità di un atto qualunque, assegnando anticipatamente
i caratteri che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero.
Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi
necessaria, perchè la più parte delle quistioni che si fanno a questo
mondo sono appunto per decidere se una cosa sia fatta, o non fatta.
Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano, partecipando della sua
debolezza, non sono senza qualche inconveniente: e le formalità ne
hanno due. Accade talvolta che dove gli uomini hanno deciso che una
cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si
fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati preveduti. In
questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta. E non andate a farvi
compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta; egli
lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una
distinzione profonda; vede, e vi insegna, che la cosa materialmente è
fatta, legalmente non è. Dall'altra parte, accade pure, che dopo essere
stato dagli uomini predetto, deciso, statuito che dove si trovino i
tali e tali caratteri esiste certamente il tal fatto, si sono trovati
altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare impossibile, eppure
è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri senza
fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare la
cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza
a riflettere, o di semplicità rustica affatto, colui che, ostinandosi
ad esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è. Guai se
si desse retta a queste chiacchiere, non si finirebbe mai nulla, e si
andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo
mondo. Ma questi caratteri, se non infallibili, sono almeno stati
scelti dopo accurate osservazioni, senza passioni, nè secondi fini, in
tempi nei quali gli uomini fossero abbastanza esercitati nel riflettere
su quello che vedevano, per circostanziare i fatti che dovevano essere
dopo di loro? Ah! qui è la quistione; ma, per trattarla con qualche
fondamento, converrebbe fare la storia del genere umano; dal che ci
asteniamo, e perchè, a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle dita, e
perchè siamo per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in
quanto essa è necessaria a conoscere la storia ancor più vasta degli
sposi promessi.
Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al
chiostro, era prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo;
ed era consuetudine che in questo tempo ella dovesse esser condotta a
vedere spettacoli, ad assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene
quello a cui doveva rinunziare per farsi monaca. E prima di vestir
l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico, il quale con
interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se
ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma libero
e ragionato. Queste formalità però avevano certamente il secondo
inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola,
e la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva
accadere in molti modi: che essa sia talvolta accaduta è un fatto
troppo noto, e troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia
almeno la discrezione di non affermar mai di quelle verità che sono
contrastate, perchè la sua affermazione diverrebbe un argomento di più
contra di esse[148].
Benchè Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento,
pure il giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per
lei. Oltrepassare quelle mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta
campagna, e, quel ch'è più, entrare nella città, furono sensazioni più
forti che non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare.
Per uscirne vittoriosa, aveva la poveretta composto un piano nella sua
mente. O vorranno ottenere il loro intento colle buone, diceva ella
tra sè, o mi parleranno brusco. Nel primo caso, io sarò più buona di
essi, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro
che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il
sì lo debbo dire io, e non lo dirò. Ma, come accade talvolta anche ai
comandanti di eserciti, non avvenne nè l'una, nè l'altra cosa ch'ella
aveva pensata. I parenti, avvertiti dalle monache delle disposizioni
di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per
qualche tempo nessuna proposizione nè con vezzi, nè con minacce.
Solo dal contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano
come rea, e da qualche parola sfuggita qua e là s'intravedeva che
la riguardavano come rea, non già di ricusarsi al chiostro, delitto
che non poteva nemmeno venire in capo ad alcuno della famiglia, ma
di non avviarvisi con buona grazia. Così ella non trovava mai un
varco per venire alla dichiarazione che era pure indispensabile; e
i modi secchi, laconici, altieri, che si usavano con lei, non le
davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed
amichevole, il quale di passo in passo la conducesse a toccare il
punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere.
Che s'ella, sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava
pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza
lamentarsi implorava velatamente un po' di amore, se si abbandonava
ad espressioni confidenziali e affettuose, ella si udiva tosto gittar
qualche motto più diretto e più chiaro intorno alla elezione dello
stato: le si faceva sentire che l'amore della famiglia non era cessato
per lei, ma sospeso, e che da lei dipendeva l'esser trattata come
una figlia di predilezione. Allora ella era costretta a ritirarsi,
a schermirsi da quelle tenerezze, che aveva tanto ricercate, e si
rimaneva coll'apparenza del torto. Si accorava e si andava sempre
più perdendo d'animo: il suo sogno era scompaginato, e non sapeva a
qual altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un volto
amico, ma le immagini tristi, e, direi quasi, terribili, delle quali
era circondata, la rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel
cantuccio ameno e splendido, che ognuno, e i giovani particolarmente,
si formano nella fantasia, per fuggire dalle considerazioni di oggetti
che attristano. Ritornava ella dunque più che mai a quei suoi sogni
del monastero[149], e si creava fantasmi giocondi coi quali conversare.
Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata
quanto nel monastero, perchè il tempo dei divertimenti doveva venir
dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di
non fare. Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle,
allontanata dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse,
non mai condotta in altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai
piedi quel tal giovane del monastero, che, senza contare tutte le altre
difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi
l'unico suo difetto, giacchè, del resto, bellezza, grazia, ricchezza,
nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza,
nulla gli mancava. V'era rischio, peraltro, che s'egli tardava troppo
ad esistere, l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel
vuoto, trasferisse la bontà, che aveva per lui, al primo ente reale che
non fosse troppo diverso da questo immaginato da rendere impossibile
lo scambio. L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude.
Noi ommettiamo i particolari di questo sciagurato affare; diremo
soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella aveva scritta ad un
paggio della Marchesa, cadde in mano di questa, fu tosto consegnata al
marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu, come era da aspettarsi,
strepitoso.
Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il marchese
Matteo, che aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava
il decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al
ragazzaccio, per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò
nello stesso tempo che se egli si fosse in alcun tempo lasciato
sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude, la sua vita
avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non ci sarebbe stato
asilo per lui. Queste minacce erano a quei tempi molto frequenti, e
facevano pure colpo assai[150], perchè ognuno era avvezzo a vederne
molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno, per esser più certo della
segretezza del paggio, il marchese Matteo, nel forte del rabbuffo, gli
appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio
sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale, per
una parte, poteva lusingare la sua vanità, quando essa avesse finito
con un incidente doloroso e umiliante. Alla donna di casa, che aveva
intercettato il corpo del delitto, furono date molte lodi, e nello
stesso tempo una prescrizione di segretezza, non accompagnata da
minacce, ma in termini che le fecero comprendere che questa segretezza
era del massimo interesse anche per lei.
Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere
sul capo di Geltrude. Il marchese Matteo, dopo d'averla caricata di
strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva
veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua
stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa,
senza specificarlo[151], e così la lasciò in guardia alla stessa donna
che aveva scoperti gli affari.
Geltrude, aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che
sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava
anche la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione la
più gioconda, e l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come,
nè quando, la cosa sarebbe finita, si aspettava ad ogni momento il
castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere come sbandita
dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo
l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il fratello la
prima volta dopo il suo fallo, la faceva trasalire di spavento. In
questa agitazione continua si svolse e si accrebbe nell'animo suo un
sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso
ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento
non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che, come
tutti gli altri, può diventare passione violenta e perniciosa quando
non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea
del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio,
per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche
superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa. Questa idea
le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti,
del fallo stesso. Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla
così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si fosse voluto. E
sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione
per la scelta dello stato: giacchè il primo requisito per poter
resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto essere, di
non aver nulla da rimproverarsi.
La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo
nella sua ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il
testimonio della sua colpa e la cagione della sua disgrazia, e la
odiava. E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a
far vita da carceriera, poco dissimile da quella di carcerata, e che
l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La conversazione era
quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco. Non restava
a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della
fantasia, perchè questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato
reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto
legate con la sua sciagura, che la mente li respingeva con incredula
avversione, e ricadeva, come peso abbandonato, nella considerazione
delle circostanze reali. Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò
che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo
con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a
rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di colui, al
quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento,
gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri, che aveva perduta ogni
forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore, per signoreggiare
un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi e le
grandi sciagure gli spennacchiano le ali e gli spezzano i dardi, se
ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto
bene ciò che accade realmente nell'animo[152]. Scacciato questo nimico
dal cuore, il quale, a dir vero, non vi aveva preso gran piede,
raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio,
e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di
Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella
al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò; pensò che ciò
ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più
leggiero. Si diede quindi tutta ad una divozione, la quale in parte
era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della
fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro; e una vita quieta,
onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta
pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del
monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve uno zucchero
al paragone dello stato di umiliazione, di prigionìa, di disprezzo
nel quale si trovava. L'avversione, nutrita per tanto tempo a quella
condizione, le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le
pigliava per tentazioni, e le combatteva[153]. In questa incertezza
ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia
diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile e dolorosa,
di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia. Dopo
molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera,
piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza,
nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava
intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse
presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e
alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la
risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio[154].
V'ha dei momenti in cui l'animo, massimamente dei giovani, è, o crede
di essere, talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa,
che la più piccola spinta basta ad ottenere da esso ciò che abbia
un'apparenza di bene, di sacrificio, di perfezione come un fiore appena
sbocciato, che riposa[155] mollemente sul suo fragile stelo, pronto a
concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto
d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua
costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se
la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era
sembrato una ferma e pura volontà, non era altro che una illusione
della fantasia. Questi momenti, che si dovrebbero ammirare dagli altri
con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che
si maturassero colla prova e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe
tremar e vergognarsi di chiedere, quanto più grande è la disposizione
ad accordare, questi momenti sono quelli appunto che la speculazione
fredda o ardente dell'interesse agguata e stima preziosi per legare una
volontà, che non si guarda, e per venire ai turpi suoi fini.
Il marchese Matteo, il quale, passato il primo caldo dell'ira, era
tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse
potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude,
e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse,
al leggere di quella lettera, che la figlia gli dava essa stessa
l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre
ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude[156] ch'ella dovesse
venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude v'andò di
corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura; giunse senza
alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe
appena il fiato per dire: perdono. Il Marchese, con una voce poco atta
a rincorare, le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che
questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che
bisognava insomma meritarlo. Geltrude intanto, più turbata ed atterrita
in quanto ella era venuta colla speranza di tosto ottenerlo, chiese
che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il
Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente
del fallo di Geltrude, e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di
fare alla famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo
scorrere di una mano ruvida sur una piaga[157]. Aggiunse che quando mai
egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo,
questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perchè egli avrebbe
creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi
l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender
gatta in sacco[158]. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della
voce e le parole, disse a Geltrude, che questi eran falli da piangersi
per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente
un avviso del cielo che le dava ad intendere che la vita del secolo
era troppo piena di peicoli per lei, e che non v'era asilo, riposo,
sicurezza...[159].
Ah! sì, interruppe incontanente Geltrude, mossa ad un punto dal timore,
dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla
corrività della sua fantasia. Il Marchese——ci ripugna dargli in questo
momento il titolo di padre——la prese in parola, le annunzio il più
ampio perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso,
della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di
quelle lodi che fanno paura, perchè danno a sentire a quali improperj
esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra
i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che
dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo
avanzata[160], o d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe
voluto; questo pensiero era però dubbio e confuso nella sua mente;
ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente, manifestarlo,
accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del
Marchese sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude,
per metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre
Geltrude nella stima e nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro
accorsero immediatamente. La Marchesa era avvezza dai primi giorni a
non avere altra volontà che quella del marito, fuorchè in due o tre
capi, pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa. Questa
condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere, nè da
stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da principio che
il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S'era ella
quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo
della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che
abbiamo accennati. Del resto, i disegni del Marchese sul collocamento
di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava interesse
della famiglia, e alle mire avare e ambiziose[161], in allora tanto
universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua
disposizione non poteva non approvarli. L'affezione materna però le
faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come
una buona madre che abbia una figlia tanto scrignata e contraffatta,
da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca il
celibato al matrimonio. Al giovane Marchesino era stato detto[162]
fino dall'infanzia, che l'entrate della casa erano appena appena
proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte
sarebbe stato un decadere, se non nella sostanza, almeno nell'esterno;
egli riguardava quindi assolutamente come un dovere di Geltrude di
chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi
l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco
costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto
lieto alla madre e al fratello. Ecco, disse, la pecora smarrita, e sia
questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco, aggiunse,
la consolazione della famiglia; Geltrude ha scelto ella medesima,
spontaneamente, quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha
più bisogno di consigli. È risoluta, ed ha promesso..... qui Geltrude
alzò gli occhi, tra lo spavento e la preghiera, al padre, come per
supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè francamente, ha
promesso di prendere il velo. Le lodi e gli abbracciamenti furono
senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con lagrime che
furono credute di consolazione. Il marchese Matteo si diffuse allora
a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per
rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia. Parlò delle
distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che
le madri avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la
principessa, donna del monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto
il piede. La madre e il fratello applaudivano; Geltrude era come
posseduta da un sogno.
——Oh! s'interruppe il Marchese; noi stiamo qui facendo chiacchiere,
e si dimentica il principale; bisogna fare una domanda in forma
al Vicario delle monache, altrimenti non si conclude nulla. Detto
questo, fece chiamare tosto il segretario. Questi giunse ritto ritto,
intirizzato quanto poteva comportare la fretta di obbedire al signor
Marchese, il quale tosto gli diede ordine di stendere la supplica.
Il segretario, rivolto a Geltrude, disse, ah! ah! per pigliar tempo
a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo
interruppe, dicendo: presto, presto, scrivete alla buona, senza
concetti; già conosciamo la vostra abilità. Il segretario scrisse, e
il foglio fu dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò e appose
il suo nome, come le comandò il Marchese. Il quale, preso il foglio
e consegnatolo al segretario perchè lo portasse addirittura cui era
indiritto, comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento
ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua indisposizione;
era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza continua;
e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi. Quindi,
rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata
disposta a fare una trottata a Monza, per richiedere alla badessa di
esser ricevuta. Anzi, riprese, dopo aver pensato un momento, perchè
non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà
ancor più contenta quando il primo asso sia fatto. Andiamo, andiamo,
rispose la Marchesa, la giornata è bellissima. Vado a dar gli ordini,
disse il Marchesino, e stava per partire. Ma.... cominciò Geltrude, e
non potè continuare. Piano, piano, cervellino, ripigliò il Marchese,
rivolto al figlio; forse Geltrude è stanca e vuole aspettare fino a
domani. Volete voi che andiamo domani? domandò a Geltrude, con uno
sguardo, che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il
temporale.——Domani, rispose con debole voce Geltrude, alla quale non
parve vero di avere qualche ora di rispitto, e che nel profferire
quelle parole si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo,
il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro. Domani, disse
solennemente il Marchese: domani è il giorno ch'ella ha stabilito.
Il resto della giornata fu occupatissimo. Geltrude avrebbe voluto
raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi
conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere
distintamente che cosa; voleva trovare il modo di rallentare un po'
quella macchina che, mossa, andava con tanta celerità, per vedere
almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto, se si fosse
accorta che la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le
distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di
Geltrude era come il lavorìo d'una povera fante, che serva ad una
numerosa famiglia e che in un giorno di faccende, chiamata di qua,
di là, non può venire a capo di nulla. Mentre s'apparecchiava il
quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza
stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del
suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noia
intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte
lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando
Geltrude di cose estranee, non le lasciò il tempo di raccozzar
due idee. Del resto, a misura che l'opera procedeva verso la sua
perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel
poco di pensiero che le rimaneva. L'acconciatura era appena finita,
che venne l'ora del pranzo. I servi la inchinavano umilmente sul suo
passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con
una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi sapessero
qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude. A tavola
Geltrude fu la regina; servita la prima, trattenuta, corteggiata,
ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo
per riuscirvi. Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più
prossimi del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le
due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva
un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo
visite di congratulazione. I complimenti erano per la sposina: così
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