Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 02

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recenti, che hanno assunto l'incarico di ridonare alla lingua nostra
il suo antico splendore; e son persuaso che, se il restante dell'opera
corrisponderà al principio, questo romanzo acquisterà fama presso le
persone di lettere»[35].
Il 26 di novembre un esemplare del primo volume, uscito allora di mano
al tipografo, pigliava la via di Pisa, accompagnato da questa lettera
al Carmignani: «Gli oltraggi che noi giovani scrittori facciamo alla
carta sono maggiori di quelli che un crocchio di vecchie femmine
possono fare al pudore. Questo volume, che la gentilezza vostra vorrà
ben farmi grazia di non rifiutare, è una nuova prova di quanto ho detto
poc'anzi.... Voi vedrete che ho fatto tesoro dei vostri consigli
intorno allo stile: riguardo a ciò che mi avvertiste sul tentare il
pubblico con piccoli racconti, non ho potuto». Un altro esemplare
fu dal Guerrazzi stesso portato a Firenze, e con le proprie mani lo
presentò a Leopoldo II Granduca di Toscana. «Si sappia» (così in una
lettera al Governatore) «com'io, terminato appena il primo volume della
_Battaglia di Benevento_, mi partii da Livorno, e andai ad offrirlo, in
segno di riverenza e di amore, al buon Sovrano, ed egli lo accettava
cortese, ed ogni qualvolta mediante il sig. cav. Giuseppe Sproni gli
feci presentare i volumi successivi, si degnò sempre parteciparmi la
sua paterna benevolenza»[36]. Il 31 gennaio del '28 pregò il Carmignani
«di accogliere cortese il secondo volume del romanzo»[37]. La lettera
con cui gli accompagnò il terzo è perduta; il quarto e ultimo glielo
mandò il 2 di maggio[38].
Il Guerrazzi dava lode a Carlo Leoni di Padova di avere lui solo côlto
«il vero spirito» de' suoi scritti; e il vero spirito era questo: «Io
non ho voluto fare romanzi, ma poemi in prosa». Il Leoni, peraltro,
sfondò una porta aperta. Fin dal primo apparire della _Battaglia_ lo
Zaiotti nella _Biblioteca italiana_[39] aveva scritto: «poesia vera è
la sua prosa»; notava Niccolò Tommaseo nell'_Antologia_: «L'importanza
dell'argomento, la novità del lavoro, meritano che il ch. A. si
consideri non come romanziere, ma come poeta e l'opera sua come una
nuova epopea»[40].
La _Battaglia_ (son parole del Guerrazzi) «incontrò fortuna oltre
il suo merito e fu il Beniamino della critica». Infatti lo Zaiotti
la chiama: «libro affatto singolare»; ne riconosce «gli ammirabili
pregi», le «nuove e somme bellezze»; e nell'autore «un ingegno sì
nobile». Il Tommaseo trova che «l'energia del disegno si svolge con
sempre nuovo calore ed impeto, nelle immagini e negli affetti»; per
lui la «sicurezza, con la quale il Poeta si lancia agli estremi
e li passeggia, a dir quasi, è mirabile». E soggiunge: «ci sarà
dell'avventato, dello strano, dell'esagerato; chi 'l nega? ma c'è del
vero; e profondo; e di quello che mostra verissima la presenza del
genio». Nota «la forza, la concisione, la disinvoltura e l'armonia
dello stile, che trasse dal trecento quel tanto che convenisse al
soggetto, e ve l'adattò con grand'arte e potenza»; non senza però «una
certa affettazione di forza, che tien del convulso; ma i difetti, la
lima e l'età posson torli; i pregi vengono dal fondo dell'anima».
Giuseppe Mazzini scrisse: «E moto e vita e genio sono in questa storia
della _Battaglia di Benevento_.... A qualunque leggerà i quattro
volumi che la compongono, non accecato da pregiudizi, non inaridito
dalla bassa invidia, sarà forza esclamare con noi: questi è chiamato a
grandi cose dalla natura.... Lo stile ha sempre un'impronta originale
di severità, sovente d'una profonda energia; v'hanno pagine intere
dove ogni vocabolo cova un'idea, e una di quelle idee, che, com'altri
disse, _abbrucian la carta_. È stile insomma d'uomo che tenta rompere
il sonno a' giacenti». De' difetti, sul più grave e dannoso, posò il
dito per il primo: «Bella suona la rampogna dei forti all'orecchio dei
neghittosi; bello è lo sdegno, quando cova nel petto d'un generoso un
nobile fine di miglioramento; ma non s'adegua un tal fine col gridare
ad una gente caduta in fondo:——travolgiti eternamente nel fango; non
v'ha speme di risorgimento per te——odio l'uomo, che può intuonare
sulle rovine l'inno della gioia; ma tra la gioia e la disperazione, la
natura pose lo sdegno e il dolore: lo sdegno, che non getta in fondo,
ma incita; il dolore, che geme e si lagna, ma lancia talora un guardo
di speme nell'avvenire, perchè anche sul terreno dei vinti germogliano
le rose della speranza. O giovane! tu hai possanza d'immaginazione e
di cuore e di mente.... Non offuscare queste tue doti colla nube della
disperazione, perchè essa fa del creato un deserto... Ricordati che il
fine d'ogni scrittore è d'illuminar commovendo; e che ogni scossa è
soverchia, dove non riveli un profondo vero; inutile ogni quadro, se
dal fondo non penetri il raggio della speranza»[41].
A queste parole fecero eco l'_Antologia_[42] e la _Biblioteca
italiana_. Il Guerrazzi, che prevedeva l'accusa, mettendo le mani
avanti, così aveva scritto al Carmignani: «Non so se le proteste che
principiano e conchiudono il libro vagliano a scusarmi degli amari
pensieri che vi ho sparso per entro; certo sono andato più oltre di
quello che soglio meditare su le condizioni umane; ma il dolore, che
mi ha lungo tempo travagliato, mi scusi——un amico diletto, giovane di
alte speranze, instruito in cinque lingue straniere all'età di venti
anni, Carlo Bini, ferito a tradimento di tre colpi mortali, stette
per quarantatre giorni in pericolo di vita.——In questo tempo[43]
fu scritta la maggior parte dell'opera:——passava il giorno al suo
capezzale, le notti a gittare _tumultuosamente_ su la carta ciò che
l'anima aveva sentito nelle pietose visite. D'altronde poi non v'è
scelleratezza descritta nel mio romanzo che non sia avvenuta nel
mio paese, che fatalmente, spogliando quell'indole mansueta, tanto
celebrata dai viaggiatori tra gli altri toscani, ha assunto la ferocia
per la quale una volta andavano detestati i genovesi.——Qui, cosa
incredibile, è diventato il ferire un diletto, le uccisioni un titolo
di gloria. Sperano i buoni nella severità del Governo, e insieme
con la _provvidenza_ pregano dal cielo un par di forche in piazza
grande——siano esauditi i loro voti».
Nella prefazione poi alla quindicesima ristampa, fatta a Firenze
nel '52, e curata da lui stesso con ritocchi di lingua e di stile,
confessa: «Rileggendo adesso la Battaglia di Benevento parmi libro
ardentissimo e non di bella fiamma: vi traspira dentro un certo
sgomento, per nulla naturale alla età in cui lo dettai.... e un alito
di dubbio, il quale appena si perdona agli uomini i quali, sviati dalle
decessioni, si sentono sazii di vita; fra tutti i tristi peccati,
pessimo. Di ciò ne incolpo tre cose principalmente; i molti guai che me
fino dai primi anni inasprirono, e la pazienza corta a sopportarli[44];
la condizione dei tempi, che parve agli inesperti irrimediabile; e
il culto che professavo e professo ancora a Giorgio Byron[45]. Ma se
questo basta alla scusa, non basta alla lode». Con la stessa penna,
con la quale faceva questa nobile ammenda, stava allora scrivendo la
_Beatrice Cenci_. Fidatevi, se è possibile, degli atti di contrizione
de' romanzieri!
Un «gran schiccherar di romanzi» aveva fatto, prima del Manzoni, del
Varese, del Bazzoni e del Guerrazzi, Davide Bertolotti, «il redivivo
abate Chiari», come lo chiama la _Biblioteca italiana_[46]. Racconta
nella propria autobiografia, che «procacciata» a' suoi scritti «la
grazia del sesso gentile», corse «più risolutamente l'umana palestra»,
pubblicando «viaggi dilettevoli e romanzi d'amore». Di questi ricorda
l'_Isoletta dei Cipressi_, il _Ritorno dalla Russia_, il _Tappeto
nero_, l'_Amore infelice_, le _Due sorelle_ e «molte altre novelle»;
non che «la _Calata degli Ungheri in Italia_, romanzo storico, ed
_Amore e i Sepolcri_»; e soggiunge: «forse la ingrata dimenticanza
cuopre ora questi libri, e la presente generazione gl'ignora; ma chi
asserisse ch'essi fecero la delizia della generazione che ora si
spegne, non si dilungherebbe troppo dal vero. Giorni felici, in cui la
fortuna non aveva per me che sorrisi!»[47].
Inviando un esemplare della _Calata degli Ungheri_[48] a Giuseppe
Acerbi, direttore della _Biblioteca italiana_, gli scriveva il 5
febbraio del 1823: «Esso è il primo romanzo originale istorico che
sia comparso a luce in Italia. Questo è il solo titolo per cui mi
lice raccomandarlo alla tua benevolenza. Desidero che il libro si
raccomandi meglio da sè». Il Bertolotti, «attingendo al Muratori e
al Sigonio», volle esser de' primi a imitare lo Scozzese; però, come
nota l'Albertazzi, «si accosta già al Visconte d'Arlincourt, grande
inventore di sensazioni forti e di agitazioni sentimentali, il più
romantico seguace dello Scott»[49].
Uno dei romanzi pubblicati in Italia prima de' _Promessi Sposi_ attirò
l'attenzione del Manzoni, e tanto gli piacque, da copiarne perfino
di sua mano la recensione che n'era stata fatta: forse uscita dalla
penna del Grossi[50]. È la _Storia di Clarice Visconti, Duchessa di
Milano_, che Giovanni Agrati finse di aver tradotto dal francese[51].
La recensione diceva: «Que' che si sono addimesticati colla lettura
dei romanzi di Richardson e di Laclos, troveranno forse di soverchio
semplice la _Storia di Clarice Visconti_, tutto il cui merito consiste
appunto in tale semplicità di condotta, di stile, di accidenti, che
molto s'accosta a quella della natura, e quindi alla verità. Tale è
il destino, come delle belle arti, così delle belle lettere, che ove
audaci ingegni abbiano una volta spinto le produzioni di esse a certo
grado di artifizio e di raffinamento, più non lasciano all'inebriato
intelletto la facoltà di gustare le bellezze semplici e primitive della
natura, le sole per altro cui sia dato di lungamente e innocuamente
toccarci. Così a raffinatissimi ingegni, dopo le letture di Tasso,
o d'Ariosto, accade spesso che sfuggano le bellezze d'Omero. A'
giorni nostri un seguace di Mozart, che tutto dona all'armonia, trova
stucchevole quell'aria di Cimarosa, il cui bello riposa tutto nel
semplice della melodia, cioè a dire nella imitazione della natura. E
così un gotico architetto riderebbe oggidì della miseria dei nostri
palagi, come un palato avvezzo a cibi squisiti, sarebbe insensibile
al moderato salubre tocco di cibi più semplici. Che che sia però
della semplicità, o a meglio dire della naturalezza, della _Storia
di Clarice_, noi siam d'avviso che chi avrà letto le prime pagine,
difficilmente poserà il libro prima di aver raggiunta la fine. Questo è
almeno quanto a noi stessi è avvenuto, essendoci fatti a leggere questo
grazioso libretto senza prevenzione di sorta. Ma noi non anticiperemo
nulla sul contenuto di esso, nè molto meno ne daremo un'analisi; non
volendo defraudare i suoi lettori, di quella parte di piacere che in
fatto di romanzi risulta dalla novità. Solo per dare, fra i molti
che si potrebbero, un saggio di quella semplicità, di cui abbiamo
parlato, riferiremo la lettera in cui l'ammiraglio Bonnivet rivela
la sua passione a Clarice Visconti. Avendosi questa lasciato uscir
di bocca, in certa conversazione, che lo spirito, tanto decantato,
dell'ammiraglio, non le pareva corrispondere alla fama che n'era corsa,
e ciò pervenuto a di lui orecchio, così le scrive: _Sono lietissimo
che vi siate accorta ch'io manco di spirito. Anzichè disingannarvene,
vi scrivo per confermarlo; perchè tosto ch'io vi veggo, o penso a voi,
tutti i miei sensi si turbano, il mio cuore viene agitato da mille
pensieri diversi, e mi trovo sì imbarazzato e confuso, che non ho più
lena a parlarvi. Non mi biasimate dunque di un difetto, di cui siete
voi stessa cagione. Io sono deciso di non emendarmene mai più, amando
meglio mancar di spirito finchè vivo, che cessar d'amarvi._ In questa
lettera non vi sono disperazioni amorose, non frasi affettate, non
ricercate parole, con cui si maschera sì spesso la povertà delle idee,
e per questo lato può servire oggidì di lezione a molti scrittori.
«Ma perchè non si creda voler noi spacciare la produzione del signor
Prechac, come esente da ogni difetto, laddove ad altri non sarà
malagevole il rinvenirne, noi confesseremo di averne pur rinvenuti; e
citeremo il più grave a nostro avviso, quello ove l'autore dà in isposa
al Duca Sforza la nostra Clarice, contro ogni verità della storia. Vero
è che Prechac, il quale intitola _storia_ il suo libro, dà chiaramente
a divedere di aver voluto scrivere un romanzo. Ma noi dimandiamo, se
anco in romanzi sia poi lecito servirsi di nomi veri, per narrar fatti
dalla verità cotanto lontani.
«Ma chi è questo Prechac autore, del romanzo?——Noi abbiam consultato i
dizionari, scossa la polvere di qualche armadio nelle biblioteche, e
non trovammo Prechac. Sarebbe dunque autore il preteso traduttore? Ce
lo farebbero sospettare le note, cui il traduttore confessa per sue. Di
molta e schietta erudizione vanno adorne codeste note; di molte ardite
e il più delle volte giuste riflessioni sono piene; e assai rischiarano
la storia vera dei tempi cui si riferiscono; donde nascerebbe non
irragionevol dubbio, dopo averle ben lette, che il romanzo sia stato,
per così dire, un pretesto, e le note lo scopo. Se così è, noi ci
rallegriamo col signor Agrati, autor probabile del romanzo, ed autore
confesso delle note. Per giustificare, almeno in parte, il nostro
giudizio sul valore di queste note, noi ne citeremo due soli passi. Nel
primo si parla del magno Trivulzio. Ne_lla guerra egli era la perla
dei capitani del suo secolo, per usare l'espressione del sig. Thevet;
e il maestro di tutti i grandi uomini francesi che militarono con lui
e sotto di lui. Terribile in campo e in faccia al nemico, intrattabile
in pace, e inaccessibile agli amici e a quelli stessi che lo avevano
beneficato nell'avversa fortuna, imperterrito nei disastri, piccolo
e vile negli avvenimenti lieti; protettore degli uomini di lettere,
orgoglioso e inquieto, senza carattere, e chiamato da alcuni l'uomo a
tre faccie, per avere egli servito gli Sforza contro gli Aragonesi, gli
Aragonesi contro i Francesi, e i Francesi contro gli Aragonesi e gli
Sforza; tale è l'idea che ci possiamo formare del magno Trivulzio dalla
di lui vita, scritta dal signor cav. de Rosmini, con bellezza e fedeltà
storica degna di lode._ Nel secondo si parla dell'Italia. _Tale a un
dipresso era la condizione a cui venne ridotta in quel tempo l'Italia.
Gli stranieri, dopo varie vicende, poco dissimili da quelle dell'Italia
stessa, divennero saggi, e pensarono a fortificarsi e ad unirsi nel
loro paese... Gli stranieri, cui gl'Italiani volevano espellere dal
loro suolo, se ne impadronirono, e fecero sentir loro il torto di
averli chiamati barbari. I_ barbari, _che così venivano designati i
Tedeschi, i Francesi e gli Spagnuoli, salirono tant'alto, chi nel
sapere, chi nel vero essere di nazione, che si lasciarono, sotto questo
riguardo, molto al disotto la bella e troppo orgogliosa Italia; la
quale andava intanto, e va forse pur ora gridando essere stata la prima
nazione, la maestra del mondo. Credendosi gl'Italiani col pensiero
sempre là dov'erano un tempo, divennero di fatto più forestieri a loro
medesimi di quello che fossero i Milanesi cogli Spagnuoli, i Piemontesi
coi Francesi, e i Napoletani coi Greci, e oserei dire coi Turchi;
desiderando gli Spagnuoli quando avevano i Francesi, e desiderando i
Francesi e i Turchi quando avevano gli Spagnuoli o i Tedeschi_».
Il merito d'aver dato all'Italia il primo romanzo storico sarebbe
toccato a Cesare Balbo se tirava a fine la sua _Lega di Lombardia_[52],
incominciata tra il 1815 e il 1816[53].

III.

Come e perchè balenò alla mente del Manzoni il pensiero di scrivere un
romanzo, e di scriverlo pigliando per soggetto la Lombardia nel sec.
XVII?
Il Cantù ebbe a dire: «Se si ricordino i legami della famiglia Manzoni
colla Filangieri di Napoli, acquista alcuna probabilità l'ipotesi
lanciata da Camillo Ugoni, che Manzoni abbia tratto o il concetto o
l'impulso da un passo di Gaetano Filangieri, ove per l'educazione del
popolo raccomanda i romanzi storici»[54] Nella vita che di Camillo
Ugoni scrisse il fratello Filippo si legge: «Ci fa poi sapere nel suo
articolo su Filangieri che la prima idea dei _Promessi Sposi_ venne al
Manzoni, o crede venisse, dalla lettura ch'ei faceva con grande amore,
mentre era tuttavia giovane, della _Scienza della Legislazione_ e
precisamente del capo X articolo 3º intitolato: _Letture da proporsi
ai fanciulli_, ove il Filangieri esprime il voto di vedere scritto
un romanzo, quale è riuscito, e certo riuscì ben sopra ai desiderii
dell'illustre napoletano, quello dei _Promessi Sposi_»[55]. Peraltro,
Camillo Ugoni non si è mai sognato di scrivere ciò che il fratello
Filippo e il Cantù gli fanno dire. Quello che dice è questo: «il
Filangieri, parlando del sonno, e concedendolo lungo di ben dieci
ore alla infanzia che ne abbisogna, lo vien poi scemando per gradi
coll'età, e, tenendo ferma per tutta la vita l'ora della svegliata, lo
sottrae all'ora del porsi a letto. Per rimuovere poi dalla promulgata
vigilia insieme col sonno anche la noia, che vuol sempre fuggirsi in
una buona educazione, propone per quell'ora guadagnata sul sonno la
lettura piacevole di romanzi... Ma quali romanzi? Filangieri vuole che
siano storici, e che.... gli eroi ne sieno tolti dalle professioni de'
fanciulli stessi.... Siamo fortunati di poter stringere in due parole
la definizione che ne dà Filangieri, dicendo ch'egli avrebbe voluto de'
_Promessi Sposi_»[56].
Avrebbe invece voluto un romanzo storico adattato all'intelligenza dei
fanciulli, non de' _Promessi Sposi_; giacchè il Manzoni, «analizzatore
fino e profondo di caratteri originalmente sorpresi nella natura,
rappresentatore artisticamente immediato della realità, non è autor da
ragazzi», come nota con molta ragione Giosuè Carducci[57].
Del resto, che il desiderio del Filangieri desse al Manzoni «il
concetto o l'impulso» a scrivere il romanzo, è falso addirittura.
Quale realmente fosse questo concetto e questo impulso l'accennò
per il primo il prof. Antonio Buccellati in un libro, scritto e
incominciato a stampare vivente il Poeta; ma venuto fuori pochi mesi
dopo che fu morto. Ne trascrivo le parole: «Rattristato Manzoni per i
rovesci del 1821, la morte e la prigionìa degli amici, disse a Grossi
ch'egli, non potendo più vivere a Milano, intendeva ritirarsi colla
famiglia a Brusuglio. Grossi trovò savio il pensiero del Manzoni, e
se ne valse anche per suo conto, seguendo l'amico nel suo romitaggio.
Tra i libri che Manzoni portava seco da Milano eravi la Storia del
Ripamonti e l'_Economia e Statistica_ del Gioia[58], in cui si trovano
citate le gride contro i bravi e gli inconsulti decreti annonari.
Oh che tempi!——diceva Manzoni a Grossi, segnando specialmente le
pagine del Ripamonti che alludono all'Innominato——sarebbe bene porre
sott'occhio in modo evidente questa istoria.... Per allora a Manzoni
non brulicava in capo altra idea se non il consiglio dato da quella
furbacchiona di Agnese; a questa idea si univa quella delle gride e
dei bravi, di cui Gioia gli offriva la storia esposta dal Ripamonti,
quella dell'Innominato e della peste, nella quale la carità esercitata
da' Francescani gli suggeriva l'ideale di fra' Cristoforo. Ecco
l'origine genuina dei _Promessi Sposi_, come con tutta semplicità
esponeva Manzoni ad un suo intimo amico»[59]. Il nome di questo amico
è svelato da Niccolò Tommaseo in una lettera a Carlo Morbio. «Il
napoletano marchese Alfonso di Casanuova (della famiglia stessa di
quel Ventignano, autore tragico e duca), giovane d'eletto ingegno e
d'esemplare carità, esercitata insegnando a' bambini del popolo per
infino alla morte, mi diceva d'avere da don Alessandro Manzoni, che lo
pregiava e gli mostrava sin le minute dei suoi scritti immortali[60],
e gli indirizzò una lunga lettera intorno alla lingua[61], d'aver
sentito come gli fosse prima occasione a pensare i _Promessi Sposi_
la lettura del Ripamonti, del quale io gli intesi, negli anni che
stava componendo il romanzo, commendare il latino elegante, egli, che
anco dal linguaggio de' latini scrittori ebbe ispirazione a' suoi
versi. Questa lettura, che l'avrà forse più attratto co' pregi della
locuzione, per riscontro provvido s'abbattè accompagnarsi con quella
di un libro di Melchiorre Gioia, nel quale recavansi quelle _gride_ di
Governatori spagnuoli, che il romanzo con giustizia pia appose al collo
di costoro, mettendoli in gogna cospicua a tutta la terra»[62].
Il Manzoni confidò anche a un altro degli intimi suoi il proprio
segreto, al figliastro Stefano Stampa. «Un giorno ch'io mi trovava
nel suo studio a terreno» (così racconta) «e ch'egli in piedi al suo
scrittoio sfogliava i suoi manoscritti, venne fuori a dirmi:——Sai cos'è
stato che mi diede l'idea di fare i _Promessi Sposi_? È stata quella
grida che mi venne sotto gli occhi per combinazione e che faccio legger
per appunto dal dottor Azzecca-garbugli a Renzo, dove si trovano, fra
le altre, quelle penali contro chi minaccia un parroco perchè non
faccia un matrimonio, ecc. E pensai, questo (un matrimonio contrastato)
sarebbe un buon soggetto da farne un romanzo, e per finale grandioso la
peste, che aggiusta ogni cosa»[63].
Il racconto del Buccellati, noto agli studiosi fin dal 1873, non
quello dello Stampa, comparso soltanto nel 1885, fu la fonte alla
quale attinsero i primi biografi del Manzoni morto, e prima di tutti
Giulio Carcano. Nella commemorazione del Poeta, che lesse all'Istituto
Lombardo il 27 novembre del 1873, scrive: «Chi a quel tempo, svoltando
dalla piazza de' Belgioioso nella via del Morone, fosse venuto alla
casa del Manzoni, la quale serbava ancora la sua negletta facciata
del secolo passato[64], attraversando il cortile e il portichetto di
fronte, per cercare il poeta, che la gloria salutava col primo sorriso,
l'avrebbe veduto nel suo studio a terreno, a manca dell'andito che
riesce in un piccolo giardino. Quello studio, le cui pareti si vedono
anche oggi coperte all'ingiro da un migliaio di volumi de' classici
antichi e moderni, e degli storici e filosofi d'ogni età e paese, e il
giardino, ombreggiato da qualche albero antico e sparso d'alcuni cespi
di fiori, furono dal principio del secolo l'asilo del poeta; e là corse
animosa e non mai stanca la vita del suo pensiero. L'altro studio, di
fronte al suo, egli lo aveva destinato al Grossi, che gli era come
fratello, e abitava nella stessa casa. Ma pur troppo, già da tre anni,
la piccola schiera, che l'amor delle lettere e della patria univa a
comuni studi e a ritrovo quotidiano, s'era assottigliata: morto, nel
gennaio del 1821, Carlo Porta, il poeta classico del nostro vernacolo;
sepolti nelle rocche dello Spielberg, il Confalonieri, il Pellico, il
Borsieri. Allo scrittore del _Cinque Maggio_, sospettato anche lui e
vigilato da abbietti delatori, non restavano che pochi e buoni amici,
il Grossi, il Torti, il Rossari. Un giorno era a Brusuglio, appunto col
Grossi, e leggeva dell'Innominato nel Ripamonti e delle grida contro
i bravi nel _Saggio d'Economia_ del Gioia: riflettendo sulle miserie
di que' tempi, gli balenò l'idea di ritrarli in un romanzo storico.
E mentre l'autore già invidiato dell'_Ildegonda_ stava per finire
una sua _diavoleria inedita di crociati e di lombardi_, il creatore
d'_Adelchi_, smessi i volumi di Liutprando e di Paolo Diacono, studiò
gli economisti, per discorrere da senno della questione' de' viveri;
cercò i ragguagli di tutte le pestilenze e le teorie mediche degli
epidemisti e dei contagionisti, per raccontare i la peste; rovistò gli
archivi ecclesiastici e civili, e le biblioteche, studiando codici e
leggi, e costituzioni di quel tempo infelice. Mise da parte il disegno
d'un'altra tragedia, _Spartaco_; e cominciò a scrivere il libro
immortale, a cui pose nome i _Promessi Sposi_»[65].
Una cosa è da notarsi. Nè il Tommaseo, che udì il racconto dalla
bocca del Casanova, nè lo Stampa, al quale lo confidò il Manzoni
stesso, parlano dell'anno in cui gliene balenò il primo pensiero.
Invece lo indicano il Buccellati e il Carcano; ma nell'indicarlo sono
tra loro discordi. Per il Buccellati è il 1821, dopo i primi arresti
de' Carbonari a Milano; per il Carcano è il 1823, quando già il
Gonfalonieri e il Pellico erano sepolti nello Spielberg. Fortunatamente
il Manzoni, di sua mano, prese ricordo del giorno in cui principiò
e del giorno in cui finì la prima minuta del romanzo. La incominciò
il 24 aprile del 1821; la condusse a termine il 17 settembre del
1823. Ha dunque torto il Carcano. Il quale poi, col restringere la
lettura del Ripamonti al solo episodio dell'Innominato, mentre il
Buccellati l'allarga alla peste e all'esempio invitto di carità dato
dai cappuccini in mezzo all'infuriar del flagello, fu cagione, certo
non volontaria, del formarsi la leggenda, che nella tela primitiva
del romanzo il soggetto principale fosse appunto l'Innominato e la
sua conversione, non il matrimonio di Renzo e Lucia e i contrasti che
quel matrimonio ebbe a soffrire. Lo accennò per il primo, non senza
qualche riserva e dubbiezza, Angelo De Gubernatis: «Il Ripamonti
gli suggerì l'episodio che, fin dal principio, fissò in particolar
modo la sua attenzione e poco mancò non diventasse il pernio di
tutta l'opera: l'episodio dell'Innominato.... L'Innominato, che si
convertiva pubblicamente nel cospetto del cardinal Federigo, era il
Manzoni stesso che... confessava, anzi esagerava ai propri occhi ed
agli altrui la sua antica empietà, per far più grande il miracolo
della Chiesa, la quale aveva avuto la virtù di attirarlo nel proprio
seno.... Ma il Manzoni dovette ben presto accorgersi che, ov'egli
avesse fatto l'Innominato il centro di tutto il suo poema, oltre allo
scoprir troppo sè medesimo, non avrebbe mancato di dare al suo romanzo
un'aria reazionaria.... Consoliamoci dunque che abbia voluto egli
stesso allargare il proprio soggetto»[66]. Più reciso nel sostener la
leggenda è il Cestaro. «Il voto è la catastrofe religiosa dei _Promessi
Sposi_. Forse n'era veramente la catastrofe, insieme con la conversione
dell'Innominato, che, nel primo abbozzo del romanzo, ne doveva essere
il protagonista. E forse allora i casi dei promessi non formarono che
l'azione secondaria; il ratto di Lucia doveva servire alla grande
opera della conversione; e l'Innominato un santo, Lucia votata alla
Madonna, Renzo, chi sa? converso nel convento di fra Cristoforo»[67].
L'Albertazzi scrive: «Pare che secondo un primo disegno, il romanzo,
in cui avrebbe avuta azione principale l'Innominato col rapimento di
Lucia, sarebbe finito col voto della Vergine; e Renzo si sarebbe fatto
soldato di ventura, portando il suo dolore, lontano, in Alemagna»[68].
Per buona fortuna il Manzoni conservò gelosamente la sua prima minuta;
tanto gelosamente che non distrusse nemmeno i fogli di scarto, che a
mano a mano vi andava stralciando[69]. La parte sostanziale della prima
minuta, cioè tutto quello che soppresse o mutò, si legge nel presente
volume, e mostra chiaro che il soggetto e il pernio del romanzo fu il
matrimonio contrastato: in una parola, la tela primitiva, salvo pochi
episodi secondari, è quella che poi è rimasta nel testo definitivo.
La storia genuina dunque dell'origine del romanzo è questa. Nella
primavera del 1821, il Manzoni, trovandosi a Brusuglio insieme col
Grossi, mentre stava leggendo il trattato di Melchiorre Gioia _Sul
commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto_, fu colpito da
una delle tante gride che esso riporta[70], quella del Governatore di
Milano, Gonzalo Fernandez de Cordova, del 15 ottobre 1627, nella quale
è detto: «mostrando l'esperienza che molti, così nelle città, come
nelle ville di questo Stato, con tirannide essercitano concussioni et
opprimono i più deboli in varij modi, come in operare che si facciano
contratti violenti di compre, d'affitti, di permute et simili, o non
si facciano; Che seguano, o non seguano matrimonij; Non si facciano,
o si facciano riuscire contra la voluntà de gli offesi; Non si diano,
o si diano querele; Si inuertano li processi; Si testifichi, o non si
testifichi; Che uno si parta dal luogo doue habita; Che si astenga da
far qualche contratto; Che quello paghi un debito; Quell'altro non lo
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