Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 15

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ed io... Voglio andare anch'io,——voglio veder questo uomo, che li
fa esser tanto vogliosi, tanto contenti. Andrò, andrò. Voglio[219]
parlargli; voglio un po' vedere anch'io quest'uomo. Ne dicono tante
cose! Eh! come mi accoglierà egli? ricordati che sei il Conte del
Sagrato. Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a
che fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj arrovellati——Non
importa: voglio andare a sentire che parole ha costui per render la
gente così allegra[220]. Così detto, o pensato, il Conte stette un
momento in fra due se doveva prima andare alla stanza di Lucia. Dopo
aver pensato qualche tempo: no, diss'egli, fra sè: non la vedrò: non
voglio obbligarmi a nulla; voglio venirne all'acqua chiara con questo
Federigo. Potrei lasciarla andare, e pentirmi. Se comincio a fuggire da
uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non son più un
uomo. Parlato che avrò con costui mi convincerò che sono sciocchezze, e
sarò più forte di prima... o se... costui... mi facesse... cangiare...
sono sempre a tempo. Andiamo; sarà quel che sarà.
Chiamò un'altra donna, alla quale, in presenza del Tanabuso, impose
che si portasse sola alla stanza di Lucia, che vedesse che nulla
le mancasse, e che sopratutto ordinasse alla vecchia guardiana di
trattarla con dolcezza e con rispetto; e che nessun uomo ardisse
avvicinarsi a quella stanza.
Dato quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e oh! via,
disse, per dei preti e dei contadini? Vergogna! Se ci sarà alcuno che
non mi conosca non avrà nulla da dirmi; per quelli che mi conoscono...!
Così il Conte solo, ma tutto armato, uscì dal castello, scese l'erta e
giunse nella via pubblica, la quale brulicava di viandanti; la turba
cresceva ad ogni istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato
si diffondeva di terra in terra, tutti accorrevano. Ma in quella via
affollata, il Conte camminava solo: quegli che se lo vedevano arrivare
al fianco, s'inchinavano umilmente, e si scostavano come per rispetto,
e allentavano il passo per restargli addietro: taluno di quegli che
lo precedevano, rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le spalle, lo
scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni, e tutti studiavano
il passo per non trovarglisi in paro. Giunto al villaggio, sulla
piazzetta, dov'era la chiesa e la casa del Parroco, trovò il Conte una
turba dei già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale
entrasse nella chiesa per celebrare gli ufficj divini. E qui pure tutti
quelli a cui si avvicinava, svignavano pian piano. Il Conte affrontò
uno di questi prudenti in modo che non gli potesse sfuggire e gli
chiese bruscamente, come annojato che era di quel troppo rispetto,
dove fosse il cardinale Borromeo. È lì nella casa del curato, rispose
riverentemente l'interrogato. Il Conte si avviò alla casa fra la turba,
che si divideva come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei,
ed entrò sicuramente nella casa. Quivi un bisbiglio, una curiosità
timida, un'ansia, un non saper come accoglierlo. Egli, rivolto ad
un prete, gli disse che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di
essergli tosto annunziato. Il prete, che era del paese, fu contento
d'avere una commissione del Conte per allontanarsi da lui, e riferì
l'ambasciata ad un altro prete del seguito del Cardinale. Quegli si
ritirò a consultare coi suoi compagni; e finalmente, di mala voglia
entrò, per dire a Federigo quale visita si presentava.[221]


VII.
PERCHÈ NON DURI VIVA E GRANDE LA FAMA LETTERARIA DI FEDERIGO BORROMEO.

È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo
[il cardinal Federigo Borromeo], già ai nostri tempi, in una posterità
così poco remota, sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto
così sovente come si fa degli uomini più illustri; che a questo nome
sia appena associata una idea languida d'un merito incerto, d'una
eccellenza indeterminata; che questo nome pronunziato fuori della
patria di Federigo e della società di quelli che più particolarmente si
applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o passi inavvertito,
o riesca anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una rara
preeminenza faccia nascere la curiosità di sapere che abbia fatto colui
che lo portava, e che l'elogio che noi vi abbiamo unito abbia avuto
bisogno di schiarimento e di prove. E forse ancor più stupore deve
nascere al pensare che un uomo dotato di nobilissimo ingegno, avido
di cognizioni, perseverante nello studio, sommamente contemplativo,
e nello stesso tempo versato nelle società più varie degli uomini, e
attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel comporre opere
d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone fra i più fecondi
e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo, che aveva tutti i doni
per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro
titoli, nei cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di tutto
ciò che è stato scritto in un tempo in un paese. Ma la spiegazione di
questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei tempi in cui
scrisse Federigo. A produrre quelle parole o quei fatti, che rimangono
presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare, non basta la
potenza di un ingegno, nè la costanza di una volontà: è d'uopo che
queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da
se qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le
età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da
una folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro
studj, curiosi delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa
coltura: o almeno combattendo contra errori, abitudini, idee, che
avessero qualche cosa d'importante, di problematico in quelle dottrine
che sono un esercizio perpetuo dell'intelletto umano, trovarono insomma
una massa di notizie e di opinioni, un complesso di coltura, sul quale
fondarsi, dal quale progredire, al quale applicare gli aumenti e le
correzioni per cui la memoria del genio rimane. Che se pure è viva
tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi rozzissimi, lo è
perchè quei tempi erano sommamente originali, e quelle opere conservano
il carattere e mostrano ai posteri un ritratto osservabile d'una età
che nessuna altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo Borromeo
visse in tempi di somma universale ignoranza, e di falsa e volgare
scienza ad un tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria
scolastica, in tempi nei quali l'ingegno, che, per darsi alle lettere,
a qualunque studio di scienza morale, cominciava (ed è questa la sola
via) ad informarsi di ciò che era creduto, insegnato, disputato, a
porsi a livello della scienza corrente, si trovava ingolfato, confuso
in un mare tempestoso di assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di
questioni alle quali mancava per prima cosa il punto logico, di dubbj
frivoli e sciocchi, come lo erano le certezze. Non v'è ingegno esente
dal giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie
diventava il fondamento della scienza degli uomini i più pensatori.
Che se anche i più, anche i più acuti, profondi fra essi, avessero
veduta e detestata tutta la falsità e le cognizioni di quel sapere;
avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano
le idee e le formole potenti, solenni, perpetue: a chi avrebbero
eglino parlato? E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è
verecondo, delicato e, se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il
clamore, l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè e tace.
O per dir meglio, prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose
da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a
cui saranno rivelate, di trovare un campo dove sia tosto raccolta la
sementa delle idee che egli vorrebbe far germogliare: la sua fiducia,
il suo ardimento, la sua fecondità nasce in gran parte dalla certezza
di un assenso, o almeno di una comprensione, o almeno di una resistenza
ragionata. Veggansi, per esempio, le opere di eloquenza di due sommi
ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a
quella di Federigo, Segneri e Bossuet. Veggasi quali idee, quale
abitudine di linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le orazioni
funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche
del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee
egli doveva attignere i suoi mezzi, le sue prove, per persuadere quegli
ingegni, a quali costumanze egli doveva alludere; nella differenza dei
due popoli ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della
somma distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande.
Prima che un popolo il quale si trova in questo grado d'ignoranza possa
produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a poco
a poco da quella universale abiezione, che riportino su gli errori, su
la inerzia comune molte vittorie d'ingegno difficili, e che saranno
dimenticate; che attirino con grandi sforzi le menti a riconoscere
verità che sembrano dover essere volgari, che preparino agli intelletti
venturi una congerie d'idee, delle quali o contra le quali si possano
fare lavori degni di osservazione; e che finalmente col progresso, con
la esattezza, con la fermezza e perspicuità delle idee migliorino a
poco a poco il linguaggio comune, dimodochè i sommi ingegni possano
avere uno strumento che renderanno perfetto, ma che pure hanno trovato
adoperevole, possano, per quell'istinto d'analogia che ad essi soli
è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare, ardite,
ma sommamente ragionevoli, con le quali sole possono vivere i grandi
pensieri. Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più
perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo
parlato.
Allora gl'ingegni singolari, attirati dalla luce del vero, da
qual parte ella si mostri, si levano dalla moltitudine dei loro
concittadini, e tendono al punto che essi scorgono il più alto.
Cominciano allora le ire di molti e i lamenti di altri contra
l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza delle cose
patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento del
linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi
lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far
loro abbandonare la via di studio intrapresa; giacchè fargli ritornare
al falso conosciuto è cosa impossibile. Ma v'ha pure di quegli ingegni
ai quali è, per così dire, comandato di fare; e questi, tenendosi in
comunicazione con un'altra età, o con un'altra società d'uomini, dicono
ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo
e con indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando
la fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno
scrittore, imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti
concordi sul merito dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così, un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia
un po' di coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori, dei
quali vivono le opere e la memoria; ma i principj di quel risorgimento
non furono un progresso, un perfezionamento delle idee allora
dominanti; fu una nuova coltura, introdotta in opposizione alle idee
predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno alla sorgente di
questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate. Alcuni,
anzi moltissimi, hanno creduto e detto che dal fondo della ricchezza
letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più
antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinnovellato lo
spirito della letteratura e ricondotto il colto pubblico al senso
comune; e che principalmente dai canzonieri del Petrarca e del Costanzo
sia stata tolta la luce che dissipò le tenebre del seicento. Infatti,
i primi riformatori si posero, come alla faccenda più premurosa, ad
imitare quelle rime che l'immortale Costanzo vergò, per placare, se
fosse stato possibile, quell'empia tigre in volto umano, per la quale è
così diviso e combattuto il sentimento della posterità. Poichè, quando
si pensa ai dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece
tollerare a quel celebre sventurato, non si può a meno di non sentire
per essa, voglio dire per la tigre, un certo orrore, un rancore
vendicativo. Ma quando poi si venga a riflettere che senza quei dolori
non sarebbero stati partoriti quei sonetti e quelle canzoni, che senza
quei sonetti e senza quelle canzoni l'Italia si rimarrebbe forse forse
tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si prova una certa non
solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua crudeltà fu
occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto: si vede allora
quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono all'intelletto
degli uomini che per mezzo di grandi dolori.
Questo è detto nell'ipotesi di coloro i quali tengono che la
rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un certo qual senso comune,
che ebbe luogo nel principio del secolo decimo ottavo, abbia cominciato
colla poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso dei
cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i
quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi,
che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più
stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro
idea d'una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti
serj, di discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche
cosa di umano e di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei
lettori una persuasione ragionata di chi scriveva, a condurre i molti
ad un punto più elevato di scienza, di sentimento, a cui erano giunti
alcuni con una meditazione particolare, scorgono costoro che questi
italiani cominciano ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono
dal confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei
metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana
di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura
più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una mente
più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco
a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano
attinto.
Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la principale, la
prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto letterario
degli italiani. I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano in
un bell'impiccio; perchè, mettendola fuori, sono certi di acquistarsi
il titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perchè è doloroso
il trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di
acquistarsi un titolo brutto e odioso. E, in verità, noi vorremmo avere
qualche autorità, qualche appicco, qualche entratura coi loro avversarj
per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella
opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo
alla questione, e fuori di proposito. E infatti, se fosse a proposito,
dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione sieno, i
quali riconoscano che la loro possa essere stata coltivata con gli
studj d'un'altra: ora noi non applichiamo generalmente questa misura;
poichè quando troviamo negli scritti d'un francese quella opinione
che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere
per mezzo dei grandi scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella
opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro patria, ma
una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi cittadini,
ma uomini veggenti, candidi, imparziali. Ricordiamoci adunque che
l'adoprar peso e peso, misura e misura è cosa abbominevole; e siamo coi
nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza
pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni che si potranno
dire, quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un
granchio.
Per vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più
ragionevole, bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti. La
prima; in che consistesse principalmente la corruttela delle lettere
nel seicento, se questa corruttela sia stata una deviazione forzata
dalla via tenuta nel cinquecento, quali idee si siano perdute, quali
pervertite da un secolo all'altro; giacchè la corruttela delle lettere
non può essere altro che smarrimento o pervertimento d'idee, a meno che
non si voglia ammettere una letteratura che non sia composta d'idee.
L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento, siano state le
idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno ricreata una
letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa che le
lettere in Italia non erano più, come lo erano state per un secolo, una
buffoneria e un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi con
attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione,
d'un diletto razionale, quali siano le idee uscite dall'Italia e
ricevute in parte del patrimonio comune della coltura Europea. Raccolti
i sommi capi di queste idee della letteratura italiana risorta,
bisognerà ancora cercarne la sorgente; vedere se sieno state riprese,
svolte dagli scritti del cinquecento, o da che altra parte sieno
venute a fare impeto nella letteratura italiana. Quanto alla prima
questione... ma qui una buona ispirazione ci avverte che siamo fuori di
strada; che musando così in ciarle di discussione, mentre si tratta di
raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse già perduti
tre quarti dei nostri lettori, cioè almeno una trentina; tanto più che
questa fatale digressione è venuta appunto a gettarsi nella storia
nel momento più critico, sulla fine d'un volume, dove il ritrovarsi
ad una stazione è un pretesto, una tentazione fortissima al lettore,
di non andar più innanzi, dov'è mestieri di una nuova risoluzione,
d'un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il penoso
mestiere del leggere[222].


VIII.
COLLOQUIO DEL CONTE DEL SAGRATO COL CARDINAL FEDERIGO.

Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite,
stavasi in quell'ora ritirato in una stanza, dove, dopo aver recitate
le ore mattutine, impiegava quei momenti di ritaglio a studiare,
aspettando che il popolo fosse ragunato nella chiesa, per uscir poi a
celebrarvi gli uficj divini e le altre funzioni del suo ministero.
Entrò con un passo concitato ed inquieto il cappellano crocifero, e
con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso, disse al
Cardinale: Una strana visita, Monsignore illustrissimo.
——Quale? richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza.
——Quel famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a
tutti.... il Conte del Sagrato.... è qui.... qui fuori, e chiede con
istanza d'essere ammesso.
——Egli! rispose il Cardinale: è il ben venuto, fatelo entrare.
——Ma.... replicò il cappellano.... Vostra Signoria Illustrissima lo
debbe conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze....
——E non è egli una buona ventura, disse il Cardinale, che ad un tal
uomo venga voglia di presentarsi ad un vescovo?
——È un uomo capace di qualunque cosa, replicò il cappellano.
——E anche di mutar vita, disse il Cardinale[223].
——Monsignore illustrissimo, insistette il cappellano, lo zelo fa dei
nemici, sono arrivate più volte fino al nostro orecchio le minacce di
alcuni che si sono vantati....
——E che hanno fatto? interruppe Federigo,
——Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati
ribaldi, costui che non si spaventa di nulla, venisse ora.... fosse
mandato, Dio sa da chi, per fare quello che gli altri....
——Oh! che disciplina è questa, interruppe ancora, sorridendo
severamente, il vecchio, che un officiale raccomandi al suo generale
di aver paura? Non sapete voi che la paura, come le altre passioni, ad
ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche cosa di
più? e che a questo modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a
non far più nulla dei doveri d'un vescovo?
——Ma questo è un caso straordinario, continuò il cappellano, caparbio
per affezione: Vostra Signoria non può così esporre la sua vita. Costui
è un disperato, Monsignore illustrissimo, lo rimandi; troveremo qualche
onesta scusa....
——Ch'io lo rimandi? rispose con una certa maraviglia severa il
Cardinale, per farmene un rimprovero per tutta la vita e renderne poi
conto a Dio? Via, via; già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar
tosto, e lasciatemi solo con lui.
Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino
partì per obbedire, dicendo in cuor suo: non c'è rimedio; tutti i santi
sono ostinati; epiteto che, nel senso in cui l'adoperiamo, il più
sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto,
mentre tutti gli altri presenti si stavano raggruppati in un altro,
a guardarlo e a parlare sommessamente, il cappellano gli si accostò,
e gli disse che Monsignore lo aspettava; facendo nell'istesso tempo,
in modo da non esser veduto dal Conte, un cenno delle spalle e del
volto agli altri, che voleva dire: Quell'uomo benedetto; accoglierebbe
Satanasso in persona.
Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso
l'archibugio e facendolo passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si
cavò dalla cintura dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e
fatto un fascio di tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano
nella stanza, gli consegnò quel fascio, dicendo: sotto la vostra
custodia.
Signor sì, disse il prete, e non senza impaccio, allargando ben bene le
mani e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza
come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un
pugnale, di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro, sporgeva tra il
farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare
se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo
al curato. Ma il Conte non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il
pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli sarebbe sembrato di
andar nudo.
Il cappellano aperse la portiera ed introdusse il Conte; il Cardinale
si alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e
accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì. Il
Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi,
tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto. Federigo era stato
vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo: gli anni avevano fatto
sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo
nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli
toccasse la vecchiezza, le astinenze stesse e lo studio avevano
tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze
stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il
ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo
d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita
nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una, per così dire,
bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quel semplice fasto
della porpora, che, nuda di ornamenti ambiziosi, tutto ravvolgeva il
vecchio[224]. Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde
pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacchè
Federigo, benchè non sentisse quel genere di paura che il suo buon
cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che
bisbetico, ombroso e restio animale avesse dinanzi; e avendo preso di
questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe
[voluto] dire, nè far cosa che potesse guastare. Stava egli dunque
tacito ed invitava il Conte a parlare con la serenità del volto, con
un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza
che fa animo agli irresoluti e sforza talvolta i dispettosi a dire
cose diverse da quelle che avevano pensate: ma il Conte stava sopra
di sè, perchè era venuto ivi, spinto piuttosto da una smania, da una
inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli
volesse dire ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe
egli il silenzio con queste parole: Monsignore illustrissimo.... dico
bene? In verità, sono da tanto tempo divezzato dai prelati, che non so
se io adoperi i titoli che si convengono.... che si usano.
——Voi non potete errare, rispose sorridendo gentilmente Federigo, se
mi chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi
utile.
——Si? rispose il Conte: davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio
comune.... dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non
vivono per altro che per servire altrui. Ma per voi.... tutti dicono
che non è un semplice linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto
per accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce,
così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi venuto per
soddisfare ad una mia curiosità?
——No, no, replicò, sempre sorridendo, ma con una seria espressione
di affetto il buon vescovo, non è curiosità in voi di vedere
quest'uomiciattolo, che mi procura la gioja inaspettata di vedervi:
sento che una cagione più importante vi conduce.
——Lo sentite, Monsignore? qual cagione, di grazia? dicono tanti che voi
sapete discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, che
per.... voi mi farete piacere: mostrandomi che vedete nel mio cuore
più ch'io non vegga; parlate voi per me, che forse, forse, potreste
indovinare.
——E che? disse il Cardinale, come affettuosamente rimproverando: voi
avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?
——Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi
darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete
che io son venuto qui, trascinato senza sapere da chi, che aveva il
bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento
io sento in me una rabbia, una vergogna di esser dinanzi a voi... così,
come una pinzochera.... Oh, ditemi un po', quale è questa buona nuova?
——Che Dio vi ha toccato il cuore[225], e vuol far di voi un altr'uomo;
rispose tranquillamente il Cardinale.
——Dio? ci siamo, replicò il Conte. Dio! quella parola che termina tutte
le quistioni. Dov'è questo Dio?
——Voi me lo domandate, rispose Federigo, voi? E chi l'ha più vicino di
voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi
abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare, e vi dà nello stesso
tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo
riconosciate, che lo confessiate?
——Certo! certo! rispose dolorosamente il Conte, ho qualche cosa che
mi tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me?
Foss'anche vero tutto quello che dicono, la mia sola consolazione è nel
pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe.
Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti
da spiritato[226], ma Federigo, con una calma solenne, che comandava
il silenzio e l'attenzione, replicò: Che può far Dio di voi? Quello
che d'altri non farebbe. Cavarne da voi una gloria che altri non gli
potrebbe dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza.... e
della sua bontà. Poichè finalmente, che vi accusino coloro ai quali
siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla e
si lamenta, è un giudizio facile, poichè è sopra altrui, fors'anche
in taluno sarà invidia, forse v'ha chi vi maledice, perchè vorrebbe
far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il
giudizio sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo può
far Dio di voi——e salvarvi.
——No: Dio non vuol salvarmi, replicò il Conte, con un dolore disperato.
Non vuole? disse il Cardinale. Io che sono un uomo miserabile, mi
struggo dal desiderio della vostra salute; voi non ne avete dubbio;
sento per voi una carità che mi divora; è Dio che me la ispira; quel
Dio che ci ha redento non sarà grande abbastanza per amarvi più ch'io
non vi ami?
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