Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 18

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com'era, al castello, e fece la strada e l'entrata con quella
sicurezza e fortezza d'animo che non aveva avuta nella spedizione del
mattino: perchè egli non aveva ora una innocente da mettere in salvo:
i pericoli, se ve n'aveva, erano tutti per lui; e il disprezzo dei
pericoli, fatto già in lui un sentimento abituale, acquistava allora
una nuova forza, una nuova ragione dai suoi nuovi pensieri. La sua
condotta di tanti anni lo aveva posto in una situazione tale che per
assicurare la sua vita, egli aveva mestieri di molto più mezzi e
riguardi che non abbisognassero al comune degli uomini; e una delle
prime riflessioni che gli erano occorse dopo il suo proposito di nuova
condotta si era che una gran parte di questi mezzi non poteva più
conciliarsi con questa sua nuova condotta. Ma egli aveva sentito con
persuasione, (e probabilmente fu questo uno dei capi ch'egli discusse
in quel colloquio col Cardinale), aveva sentito che le ingiustizie
passate non potevano rendergli necessarie nuove ingiustizie, che egli
doveva assicurare la propria vita solo perchè questo era un dovere,
e che era un dovere soltanto fin dove per adempirlo non si dovesse
ricorrere a mezzi illeciti; che i pericoli che potevano nascere per
lui nel suo nuovo genere di vita inoffensiva ed espiatoria, erano una
conseguenza del male da lui fatto a man salva per sì lungo tempo,
una punizione ch'egli doveva subire. Quindi tutta la vigorìa d'animo
ch'egli impiegava altre volte nell'offendere, s'era ora trasformata in
una vigorosa disposizione a tollerare: era un dissimile, ma eguale,
anzi più forte coraggio: e continuò a produrre l'effetto solito di
questo dono, quello di far rispettare colui che ne è fornito.
Entrato il Conte nel castello, comandò che si ragunassero tutti i
suoi...... non sapeva trovare un nome che tutti gli abbracciasse......
Tutti gli uomini, disse, dopo d'avere esitato un momento. L'apparizione
misteriosa del mattino, la ripartita e l'assenza avevano destato
una grande curiosità: erano già corse fino al castello romori che
annunziavano la conversione del Conte e il tripudio di tutti gli
abitanti del vicinato e di quelli che erano concorsi in quel giorno
all'arrivo del Cardinale: tutti i bravi, che si trovavano al castello,
o nei primi dintorni, vennero alla chiamata con molta ansietà.
Congregati che furono, il Conte, con viso fermo, con voce risoluta
e senza tergiversare, dichiarò a tutti ch'egli aveva proposto di
mutar vita, che si doleva e si vergognava della passata, che a tutti
chiedeva perdono degli orribili esempj e degli incitamenti che aveva
loro dati a mal fare, che quanto era in lui egli gli avrebbe tutti
ajutati con un nuovo esempio e coi mezzi ch'erano in sua facoltà ad
operare diversamente: che quelli i quali fossero del suo parere,
rimanendo con lui, potevano esser certi ch'egli avrebbe avvisato tosto
al modo d'impiegare la loro opera in un modo utile ed onesto, e ad
ogni modo avrebbe diviso con essi fino all'ultimo tozzo di pane: ma
che protezione per ribalderie non ne avrebbe più data ad alcuno: e che
finalmente quelli ai quali non piacesse di sottoporsi a questa nuova
regola, dovessero partirsi dal suo servizio, ch'egli era dolente di
perdergli, ma risoluto.
La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie
e forti impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso
del Conte in quel picciolo popolo selvaggio. Ma per quanto diversi
fossero i pensieri che sorbollivano in quei cervelli ad un tale
annunzio, l'effetto esterno fu un solo: un cupo silenzio. Molti di quei
ragunati erano contadini del Conte, stabiliti sui suoi poderi, avvezzi
dall'infanzia ad obbedirgli, e taluni fra di essi erano divenuti
scellerati per obbedienza, tutti questi non vedevano un avvenire un po'
sicuro che rimanendo con lui, e questi risolvettero di sottomettersi
alle nuove condizioni e di rassegnarsi a divenire galantuomini. Altri,
fuorusciti di mestiere, venuti da altri paesi, senza famiglia, nè
avviamento, bestemmiavano in cuor loro la risoluzione del padrone,
tanto era il predominio che il carattere di lui aveva preso sull'animo
loro, che non ardivano fare un motto di lamento. Questa idea di
conversione era confusa nei loro cervellacci, e non potevano nemmeno
immaginarsi che in un uomo come il Conte potesse produrre l'effetto di
fargli sopportare una risposta arrogante: pensavano che l'effetto d'una
temerità usatagli produrrebbe il solito effetto, con la sola differenza
che il temerario morrebbe ora per le mani d'un santo. Così, incerti
l'uno dell'altro, nessuno osava fiatare il primo; e la sommissione
dei primi, che si manifestava più sui loro volti e nel contegno,
toglieva ancor più a quei secondi l'animo di poter dire o far nulla che
potesse spiacere al Conte. Quel tripudio poi, quel rincoramento che
s'era manifestato nella popolazione gli rendeva ancor più irresoluti;
avrebbero potuto ridersi di questa gioja impotente finchè avevano il
Conte per loro, alla lor testa, ma quando la folla era con lui, e
sarebbe stata contra loro, si trovavano come smarriti.
Dopo quel breve silenzio, il Conte si rivolse a quello che più gli
era vicino, e gli chiese risolutamente quale fosse il partito ch'egli
sceglieva, e così di mano in mano con tutti. Dava lodi e promesse
a quelli che chiedevano di rimanere, ammoniva gli altri, e quando
ripetevano di voler partire, chiedeva loro quanta parte di salario
fosse loro dovuta; vi aggiungeva una gratificazione, scriveva la somma
sur una cartolina, che teneva nella mano sinistra, la dava a colui
che voleva partire, gli comandava di andare dall'intendente a farsi
pagare e di uscir tosto dal castello. Tutti pigliavano la carta, e se
ne andavano senza far motto. In tutti questi parlamenti il carattere
del Conte aveva fatto naturalmente, e senza che il Conte lo sapesse
bene, ciò che fatto a disegno sarebbe stato un miracolo di presenza
di spirito e di artificiosa prudenza, e forse non avrebbe potuto
così bene riuscire. Nelle ammonizioni ch'egli dava a coloro, nelle
esortazioni a meglio riflettere, nelle preghiere stesse, fino nelle
scuse non v'era mai un momento in cui il suo interlocutore potesse
sentire una superiorità, intravedere in lui una punta di debolezza,
d'irresoluzione, di abbassamento, che invitasse nemmeno uno di quegli
animi ad elevarsi e a cadergli addosso.
Quale divenisse il castello dopo la partenza di quei più facinorosi,
il manoscritto non lo dice, nè ci è venuto fatto di trovarne notizia
altrove. Il nostro autore dice che il Conte andò ogni giorno ad
abboccarsi col Cardinale finchè durò la visita di esso in quei
contorni: di un solo di questi abboccamenti egli riferisce le
particolarità; e il nome del Conte del Sagrato non ricompare poi più
nel manoscritto[236].


XI.
LUCIA A CHIUSO.

Quando il Cardinale, terminate le funzioni di quella mattina, si
ritirò dalla chiesa nella casa del curato, tutto il popolo, che era
stivato nella chiesa, o ammucchiato al di fuori, si sciolse poco a
poco, e ognuno s'avviò a casa. Quando il marito della buona donna
entrò nella sua, la donna le corse incontro, gli presentò la ospite
inaspettata e glie ne fece in succinto la storia. Il marito fu molto
lieto che la sua donna fosse stata prescelta a quell'ufficio ed avesse
una parte nella storia di quel giorno, e fu anche tocco assai dalle
sventure della nostra Lucia: di modo che quando la donna gli propose
di andare al paese di Lucia, ch'era discosto circa tre miglia, e di
annunziare ad Agnese ciò ch'era accaduto e di condurla alla figlia,
l'uomo accolse la proposta con giubilo: le funzioni, la predica del
Cardinale, la solennità e la pompa straordinaria avevano messo un certo
entusiasmo nell'animo d'ognuno degli spettatori: e questo sentimento,
messo in comune in quel concorso di popolo, ritornava con maggior forza
sull'animo di ognuno: non è quindi da farsi maraviglia, se Tommaso
Dalceppo, all'udirsi proporre una faccenda che era tanto in armonia con
quel suo sentimento, non pensò nè alla fatica[237], nè all'incomodo,
ma gioì nella conformità di quello che sentiva e di quello che doveva
fare. Mangiò un boccone in piedi, tolse una mula che aveva in istalla,
e partì di volo.
La buona donna (perchè la bontà vera e abituale ispira tutti i pensieri
della gentilezza, la quale non è altro che l'espressione o la finzione
della bontà), la buona donna pensò che Lucia, dopo tante scosse,
avrebbe gustato volentieri la solitudine e il riposo, e offerse di
ritirarsi in un'altra stanza. Lucia accettò l'invito al riposo con
nuove parole di riconoscenza, e rimase soletta.
Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte
antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non
dormì, nè cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che
nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito
continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.
V'ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha
sofferti, o veduti da presso: tali sono le burrasche di mare, gli
stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla e i sassi dei
Ciclopi[238], quelle cose di cui Enea disse benissimo:
_forsan et haec meminisse juvabit_,
e che il Caro tradusse un po' lunghettamente:
_E verrà tempo
Un dì, che tante e così rie venture,
Non che altro, vi saran dolce ricordo._
Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d'una quiete presente
con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi,
semplici, forti e miste del ricordo di una certa fortezza. Ma v'ha
un'altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente
tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei
mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di
perversità umana, aumento di scienza molto tristo; nei quali si è
conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che
diventa esperienza che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli
oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si
associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli nei quali non
v'è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano
una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare
senza ribrezzo e senza vergogna persino da chi vi si è trovato e n'è
uscito innocente, e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.
Certo nella inaspettata salute di quel giorno v'era per Lucia una
gioja, e la riconoscenza all'ajuto del cielo che santificava quella
gioja la rendeva ancora più viva: ma era stata una gioja ben turbolenta
e confusa nei primi momenti; ed ora, col crescere della calma, quella
gioja era alterata continuamente dalle rimembranze recenti e dai
pensieri dell'avvenire. L'animo che è liberato da una grande sventura,
è come la terra daddove è sterpato un grand'albero: per qualche tempo
ella appare sgombra e vuota: ma a poco a poco comincia ad esser segnata
qua e là di piccioli germogli, quindi a coprirsi di erbaccie, e mostra
chiaramente che quello che si chiama riposo della terra è una metafora,
o un errore. Così i guai che erano stati sepolti e come soffocati
nell'animo quando una grande sciagura lo riempiva, e, per dir così, lo
aduggiava, cominciano a spuntare e a ricomparire poco da poi che la
sventura è cessata.
Lucia ripensava con amarezza i mezzi che l'infame Rodrigo aveva
saputi mettere in opera a perseguitarla, e si angustiava di quello
che avrebbe potuto fare nell'avvenire. Come essere al riparo da un sì
scellerato tiranno, vivendo presso a lui? o dove andare? come trovare
il sostentamento in quei tempi così scarsi, e quando i risparmj
degli anni addietro fossero tutti consumati? Ma l'idea più penosa
per Lucia, e quella che rendeva tutte le altre più penose, (giacchè
abbiamo promesso di non tacer nulla al lettore di quello che è venuto
a nostra notizia), il pensiero invano respinto, e che si mesceva a
tutti gli altri, era quello del voto fatto nella notte antecedente.
Lucia non confessava a sè stessa d'esserne pentita, ma lo era; le
sembrava orribile sconoscenza[239] il rammaricarsi dell'offerta posta
sull'altare per ottenere un gran dono, rammaricarsene quando il dono
era ottenuto; le sembrava che questo sentimento le avrebbe attirate
nuove sventure, e queste meritate, e quindi riprovava il sentimento,
ma non poteva farlo scomparire. L'invincibile di tutte le difficoltà,
l'amaro di tutte le privazioni, l'inestricabile di tutti gl'impacci
le pareva che venisse dal non poter essere di Fermo; con lui tanti
inconvenienti sarebbero svaniti, e tutti gli altri sarebbero divenuti
tollerabili! ma il pensiero di Fermo era per lei una tentazione, quasi
un delitto, e doveva sempre respingerlo. La poveretta non era istrutta
abbastanza per conoscere che quella promessa, fatta in una agitazione
febbrile, senza meditazione, quasi senza piena coscienza, non era un
voto; e ch'ella, già legata con una promessa solenne a Fermo, non aveva
il diritto di sciogliere, senza consenso e senza colpa di lui, un
legame già stretto da due volontà libere e concordi; e ignorava anche
i mezzi che la religione, la quale consacra i voti dell'uomo, offre
per liberarlo dai voti quando il loro adempimento invece d'essere una
occasione di maggior bene, divenga un ostacolo. Lucia aspettava con
ansietà amorosa di rivedere la madre, ma tremava di doverla abbracciare
con questo segreto nel cuore, ripugnava di rivelarglielo; e sentiva che
il silenzio sarebbe stato impossibile.
Era la poveretta in questi pensieri, e sa il cielo fin quando vi
avrebbe durato, quando lo scalpito d'un quadrupede[240], che si fermò
nel cortiletto, un salire precipitoso per la scaletta di legno, le
annunziò Agnese; la porta si aprì impetuosamente; Lucia fu nelle
braccia di sua madre, e tutte le altre idee svanirono. Noi non
descriveremo le sensazioni delle due donne in quel rivedersi. Questa è
la frase della quale si servono tutti i narratori quando si trovano ad
un punto simile al nostro, e fanno bene.
Il lettore conosce i casi e il carattere di quelle due poverette, e
deve immaginarsi ciò che hanno sentito e detto. Dopo i primi sfoghi
cominciarono le inchieste e i racconti, e il soggetto di essi è pure
già conosciuto. Una sola di queste rivelazioni vuol essere ricordata
particolarmente. Lucia non sapeva nulla della fuga di Fermo, e questa
notizia che la madre le diede, le cagionò le più varie e opposte
commozioni. L'assenza di Fermo era certo dolorosa per lei, ma quando
seppe ch'egli era in sicuro, provò quasi una torbida consolazione
nel pensiero che la tentazione era lontana, che l'esecuzione del suo
voto diveniva più facile, che se non altro non verrebbe così presto
la necessità di parlarne. Lucia ed Agnese erano in colloquio, quando
il buon curato entrò nella casa, cercò di Tommaso (perchè egli non si
tratteneva col bel sesso[241] che in casi di somma necessità), e gli
disse che il Cardinale domandava Lucia e la buona donna che era stata a
prenderla. Questa andò ad avvertire le donne della chiamata: Lucia si
alzò per partire, la madre le tenne naturalmente dietro, e le tre donne
uscirono dalla casa, e attraversando una folla di curiosi, giunsero
alla casa del curato, e furono condotte alla presenza di Federigo.
Quando il buon vescovo doveva parlar con donne, cosa che lo impacciava
pure alquanto, aveva per massima di non riceverne mai una sola, quando
non fosse decrepita[242], e voleva che una matrona le fosse sempre
di compagnia. Nel caso presente invece d'una matrona ve ne aveva due,
e tutto era più che in regola. Pure, secondo il suo costume, egli
fece tenere spalancata la porta, e si pose in luogo dove potesse
esser veduto da chi era nell'altra stanza, e così accolse le tre
donne, che erano impacciate almeno al pari di lui, ma per tutt'altri
motivi. Il riserbo abituale e il contegno modesto di Federigo non potè
fare che non gli apparisse sul volto un non so che di affetto soave
nell'accogliere Lucia e nel farle animo: ringraziò pure cordialmente
la buona donna del pio uficio da lei prestato, e chiese chi fosse
la terza: quando seppe che era la madre di Lucia, si rallegrò pure
con lei, e la salutò cortesemente. Quindi pregate le due ultime
di scostarsi alquanto, si trattenne con Lucia sulle sue vicende,
interrogandola con quella delicatezza che richiedeva il pudore di Lucia
e il suo; poichè in quella canizie egli conservava la purità ombrosa
di una fanciulla. Ma le inchieste ch'egli faceva a Lucia non erano
mosse da una vana curiosità, e nè pure dal solo interessamento per
quella infelice innocente: erano venute all'orecchio di Federigo voci
sorde, confuse, sul conto della Signora, che gli davano da pensare: e
in questa occasione egli sospettava con angoscia che la condotta della
Signora con Lucia potrebbe rivelare qualche cosa di quella donna, che
era per lui un tristo mistero. Lucia con tanto più di schiettezza e di
libertà, quanto essa non sospettava nemmeno di accusare, credeva anzi
di lodare, soddisfece alle domande di Federigo, nel quale il sospetto
crebbe.
Fin qui per Don Abbondio le cose andavano benone. Le circostanze
essenziali della storia stavano senza parlare del matrimonio ricusato,
e Lucia aborriva il discorso del matrimonio. Ma il Cardinale, che
disegnava di riparlare altra volta con Lucia, e non voleva in quel
giorno così burrascoso per lei tenerla più a lungo, chiamò a sè le due
donne presenti e lontane, e disse a ciascuna ciò che era più opportuno;
ringraziò di nuovo la buona donna, consolò Agnese e l'animò ad ammirare
la provvidenza che dopo d'averle dato tanti timori per la figlia,
l'aveva liberata con modi inaspettati, e l'aveva fatta conoscere ad uno
che aveva il dovere e qualche mezzo per proteggerla. Quella benedetta
Agnese fra le risposte che diede con un imbarazzo che in lei era un
po' comico, perchè voleva non averne, disse anche queste tremende
parole: Già, la colpa in gran parte è del signor curato. Come? di che
curato? domandò il Cardinale. Oh bella! del nostro, rispose Agnese. Il
Cardinale domandò una spiegazione, e Agnese spiattellò tutta la storia
del matrimonio, senza però far motto del clandestino. Federigo, che
non voleva fare alcuna dimostrazione prima d'avere inteso il curato,
per non manifestare un giudizio che forse avrebbe dovuto ritrattare,
tacque, ma si legò al dito anche questa. Si rivolse alla buona donna, e
le chiese se fino a tanto ch'egli avesse provveduta Lucia d'un asilo,
non le sarebbe stato grave di tenerla presso di sè. La buona donna fu
contentissima, il Cardinale la ringraziò e pensò a darle qualche segno
di ricompensa; e veduto dal suo abito e dal contegno che un dono di
moneta l'avrebbe umiliata, prese da un picciolo scrigno un libretto
di orazioni ben ornato e un rosario prezioso, e la pregò di ritenere
queste memorie della sua riconoscenza. La buona donna ripose con molta
gioja il dono, che si conserva tuttavia dai suoi discendenti con molta
pietà e si fa vedere con molto amor proprio. Le donne partirono:
Federigo accudì a quello che gli rimaneva di faccende per la visita;
e sul far della sera partì da Chiuso, accompagnato da una gran folla,
e[243] s'incamminò alla volta di Maggianico, paese famoso per le sue
campane[244].

FINE DELLA PARTE PRIMA


AVVISO
Sto per incominciare la stampa del
CARTEGGIO
DI
ALESSANDRO MANZONI

il quale conterrà, oltre tutte le sue lettere edite, molte di quelle
ancora inedite e una scelta assai copiosa delle lettere a lui
indirizzate dagli uomini illustri del suo tempo. Chi possiede qualche
lettera inedita del Manzoni e desidera abbellirne la nostra raccolta,
ne mandi copia al
Dott. GIOVANNI SFORZA
Direttore de' RR. Archivi di Stato di Torino
che cura questa edizione; la quale sarà un buon contributo alla storia
letteraria del secolo XIX.


NOTE:
[1] Walter Scott, già rinomato per i suoi poemi e principalmente per
quello Intitolato: _The lady of the Lake_, che era noto all'Italia per
più di una traduzione, nel 1814 stampò il suo primo romanzo: _Waverley;
or, it is Sixty Years since_; al quale, l'anno dopo, tenne dietro _Guy
Mannering, or the Astrologer_; nel '16 _The Antiquary_, e _Tales of
my Landlord, collected and arranged by Jedediah Cleishbotham, first
Series: Black, Dwarf and Old Mortality_; nel '18 _Tales of my Landlord,
second Series: Heart of mid Lothian_, non che _Rob Roy_, e _Tales of my
Landlord, third Series: Bride of Lammermoor and Legend of Montrose_;
nel '20 _Ivanhoe_, poi _Monastery_, poi _Abbot_; nel '21 _Kenilworth_;
nel '22 _The Fortunes of Nigel_, e _The Pirate_; nel '23 _Poveril
of the Peak_, e _Quentin Durward_; nel '24 _Saint Ronan's Well_, e
_Redgauntlet_; nel '25 _Tales of the Crusaders. The Betrothed and the
Talisman_; nel '26 _Woodstock; or, the Cavalier, a Tale of the Year
1651_; nel '27 _Chronicles of the Canongate, first Series: the Two
Drovers, Highland Widow, and Surgeon's Daughter_; nel '28 _Chronicles
of the Canongate, second Series: St. Valentine's Day, or the Fair
Maid of Perth_; nel '29 _Anne of Geierstein_; e nel '31 _Tales of my
Landlord, fourth Series, containing Count Robert of Paris and Castle
Dangerous_.
[2] I primi a far tradurre in italiano i romanzi dello Scott, a
stamparli e divulgarli, furono Antonio Fortunato Stella e Vincenzo
Ferrario di Milano. Oltre un'edizione economica in-16, della quale nel
1828 già erano pubblicati 69 volumetti, il Ferrario ne stampò anche
separatamente in-8. L'esempio ebbe imitatori, tanto «il mondo aspettava
ansiosamente e divorava avidamente i romanzi di Walter Scott», per
dirla col Manzoni. Nella stessa Milano il Truffi ne mise in commercio
una raccolta in volumetti in-16, di 250 pagine, a una lira italiana e
mezzo l'uno. A Firenze il Coen dette mano egli pure a una collezione
in-16, a due paoli e mezzo il tomo; un'altra fu fatta a Napoli dal
Borel e compagni, in-8, a quaranta grani ogni volume; un'altra a Parma
dalla Tipografia Ducale, che ne stampava un volume ogni due mesi, al
prezzo di otto centesimi il foglio. Francesco Pastori, compilatore
della _Bibliografia italiana, giornale generale di tutto quanto si
stampa in Italia_, nel darne l'annunzio [I, 192] scriveva: «In mezzo
alle versioni e ristampe che de' romanzi di Gualtiero Scott si vanno
facendo in Italia, e quasi diremmo in ciascuna provincia di essa, è
bello il vedere come ancora tra noi si onori quel vivacissimo ingegno e
si satisfaccia alla curiosità pubblica mediante il divolgamento delle
sue scritture». Il Nistri, a Pisa, stampò la raccolta completa, in
volumetti in-18; un'altra ne fecero a Napoli il Marotta e Vanspandock.
Col _Woodatock_ il Camiglio iniziò a Milano, in-24, le _Amenità di_
WALTER SCOTT, _o suoi romanzi storici abbreviati nelle parti meno
importanti, dati però interi i più perfetti_. Giuseppe Cassone a Torino
inserì parecchi romanzi dello Scott nella sua _Galleria romantica,
ossia collezione scelta di romanzi e novelle piacevoli e morali_,
composta di cento volumi in-32, di 200 pagine, de' quali ne usciva
fuori uno la settimana, al prezzo di cinquanta centesimi. Del _Peveril
Del-Picco_ fu stampata a Milano, nel 1828, una traduzione di Pietro
Costa, in cinque volumi in-12.
[3] Giuseppe Nicolini di Brescia, il 29 novembre del 1825, scriveva a
Camillo Ugoni a Parigi: «Qui si son letti e si leggono i suoi romanzi,
dai letterati, io penso, fino alle fantesche. Genio tremendo! Io l'ho
in tanta ammirazione che sebbene nulla abbia letto di Goethe, che
tu hai per suo rivale, io credo appena che altri possa essere così
grande». Nel saggio biografico sullo Scott poi confessava: «qualunque
esser possa il giudizio de' posteri, certo nell'età nostra, e forse in
nessuna delle passate, non furono opere nè più lette, nè più tradotte,
nè più imitate delle sue, nè scrittore di lui più celebre e popolare».
Cfr. NICOLINI G., _Prose_, Firenze, Le Monnier, 1861, p. 200.
[4] SANSONE UZIELLI, _Del Romanzo storico e di Walter Scott_;
nell'_Antologia_, di Firenze, n. 39, marzo 1824, pp. 118-144, e n. 40,
aprile 1824, pp. 1-18. Nel n. 36, decembre 1823, pp. 58-100, dello
stesso periodico, aveva pubblicata la prima parte di questo scritto,
intitolandola: _Considerazioni sul romanzo in prosa, desunte dalle
diverse vicende della letteratura in Italia e in Francia e dalla
condizione sociale delle donne_.
[5] _Gualtiero Scott ed i principali fra' suoi successori di Francia
che precedettero il 1830_; nel periodico milanese _Glissons, n'appuyons
pas_, ann. XII, n. 81 e n. 82, 7 e 10 ottobre 1840.
[6] Per darne un esempio, trascrivo dalla _Gazzetta di Firenze_, n. 57,
12 maggio 1832. il seguente avviso: «La celebrità dei romanzi del sig.
Vittorio Ducange ha determinato i tipografi Bertani, Antonelli e comp.
di Livorno di pubblicarne la prima traduzione italiana in venticinque
volumi in-18º, in bella carta e caratteri, ciascuno ornato di una
bella incisione in rame, al prezzo di lire una» toscana, ossia 84
centesimi.
[7] MANZONI A., _Del Romanzo storico e, in genere, de' componimenti
misti di storia e d'invenzione_; in _Opere varie, edizione riveduta
dall'autore_, Milano, Redaelli, 1845; pp. 482 e 490.
[8] CANTÙ C., _Alessandro Manzoni, reminiscenze_, Milano, Treves, 1882;
I, 150.
[9] S[tampa] S[tefano], _Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi
amici, appunti e memorie_, Milano, Hoepli, 1885; p. 58.
[10] _L'Ape della letteratura italiana_, ann. II, vol. I, pp. 310-311.
[11] Cfr. _Le avventure di Nigel, romanzo di_ WALTER SCOTT, _tradotto
dall'originale inglese dal prof._ GAETANO BARBIRRI, Milano, Ferrario,
1828; vol. 4 in-8; e _La bella fanciulla di Perth, ovvero la festa di
San Valentino, romanzo storico di_ WALTER SCOTT, _volgarizzato sul
testo inglese da_ GAETANO BARBIERI, Milano, Ferrario, 1829, vol. 4 in-8.
Il Barbieri fu nominato professore di geometria elementare nel Liceo
di Mantova il 2 gennaio del 1808 e conservò la cattedra anche sotto
la dominazione austriaca, unendo all'insegnamento della geometria
quello dell'algebra. Ha alle stampe un'_Orazione ad onore dell'augusta
imperatrice e regina Maria Teresa, recitata in Mantova nella solenne
distribuzione de' premi dell'anno 1814_, Milano, Gio. Pirotta, 1814;
in-8. Tradusse la tragedia di Shakespeare: _Giulietta e Romeo_, Milano,
Gaspare Truffi, 1831, in-8; i _Viaggi nell'America meridionale_ di
Felice Azara; la _Storia universale_ del Müller; la _Storia della
Rivoluzione francese_ del Thiers; qualche opera dell'Hugo e di Paolo
de Kock. Fu proprietario e direttore del giornale milanese _I Teatri_;
prestò la sua collaborazione al _Nuovo Ricoglitore_, al _Ricoglitore
italiano e straniero_ e alla _Rivista europea_.
Cfr. _Le Cronache del Canongate, novelle di_ WALTER SCOTT, _traduzione
di_ N. TOMMASEO, Firenze, tipografia Berinelli all'insegna di S.
Giuseppe, 1828; in-8.
[12] _Sibilla Odaleta, episodio delle guerre d'Italia alla fine del
secolo XV, romanzo istorico di un italiano_, Milano, presso Antonio
Fortunato Stella e figli, 1827; volumi due in-12 di complessive pp.
664. Prezzo lire cinque. Delle «due traduzioni» m'è nota questa
soltanto: _Sibille Odaleta, épisode des guerres d'Italie à la fin du XV
siècle, roman historique par_ M. VARÈSE; _traduit de l'italien_, Paris,
impr. de Cosson, 1828; vol. 4 in-12.
Ecco l'elenco degli altri suoi romanzi storici:
La _Fidanzata ligure, o sia usi, costumanze e caratteri dei popoli
della Riviera ai nostri tempi, opera dell'autore della Sibilla
Odaleta_, Milano, presso Antonio Fortunato Stella e figli, 1828; due
vol. in-18. Il Tommaseo, che ne parlò nell'_Antologia_ [tomo XXXI, n.
91, luglio 1828, pp. 115-128], considera «questo nuovo romanzo come
un buon passo dall'A. avanzato nel cammino dell'arte»; confessa però
che «la bella e bizzarra _Fidanzata ligure_ non ebbe tra noi così
lieta accoglienza come la vecchia _Sibilla Odaleta_». La _Biblioteca
italiana_ (tomo 50, aprile 1828, pp, 22-39) così la giudica: «molte
doti sono nella _Fidanzata_ che nel primo romanzo non erano, e molte
pure erano nel primo romanzo che nella _Fidanzata_ non sono. Quello
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