Brani inediti dei Promessi Sposi, vol. 1 - 03

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molesti; Quello vada al suo molino; Quel Prete non faccia quello che
è obbligato per l'officio suo, o faccia cose che non li toccano; Far
caccia riservata senza autorità; Minacciare ouero offendere quelli che
vanno a caccia; Che le Comunità eleggano, o non eleggano Officiali,
o siano tali che da gli Essattori non riscuotano li carichi; Che li
Officiali con la douuta libertà non essercitino o administrino la
giustitia; et altre simili violenze, quali seguono da Feudatarij,
nobili, mediocri, vili et plebei». Soprattutto attrassero la sua
attenzione due tra i tanti delitti ricordati in questa grida (che è
quella stessa che il dottor Azzecca-garbugli mostra e, in parte, legge
a Renzo): il procurare che «seguano, o non seguano matrimonij», e che
il prete «non faccia quello che è obbligato per l'officio suo, o faccia
cose che non li toccano». E subito gli balenò alla mente il pensiero di
scrivere un romanzo, che avesse per soggetto un matrimonio contrastato,
e come finale la peste del 1630 e '31, che aggiusta tutto. Accarezzando
poi questo pensiero, a mano a mano prese a fare uno studio diligente e
minuto delle vicende di que' tempi, della vita, degli usi e de' costumi
d'allora; studio che lo sforzò ad allargarne la tela, intrecciando alla
descrizione della peste, la guerra del Monferrato, il passaggio delle
soldatesche alemanne e gli untori; al matrimonio contrastato, i casi
della Signora di Monza, il cardinal Federigo Borromeo e la conversione
di Francesco Bernardino Visconti (l'innominato); casi e personaggi
de' quali aveva fatta particolareggiata menzione lo storico milanese
Giuseppe Ripamonti, da cui molto attinse il Manzoni, che lo stava
appunto leggendo; come non mancò di attingere, in parte, dal Rivola
e dal Tadino, dal Lampugnano e dal Somaglia, dal Ghirardelli e dal
Cinquanta, dal Settala e dal La Croce, da' manoscritti del Vezzoli e
del Cardinal Federigo, per accennare soltanto a' principali[71].
Il romanzo[72] ebbe prima il titolo di _Fermo e Lucia_; e poi, quando
Fermo Spelino divenne Renzo Tramaglino, e Lucia e Agnese, di Zarella si
mutarono in Mondella, quello di _Sposi promessi_; titolo che seguitò
a portare durante la stampa, e fu impresso sul frontespizio e sulla
copertina; ma che poi venne messo al bando, non so bene se mentre lo
rilegavano, o dopo[73]. Da principio, ciascuno de' capitoli ebbe un
titolo suo proprio. _Il Curato di_.... fu quello del primo, e Don
Abbondio vi scaturì fuori bello e vestito, proprio lui, con al fianco
la sua Perpetua, che prima chiamò Vittoria[74]; _Fermo_, quello del
secondo; il terzo, prima portò scritto in fronte: _Don Rodrigo_, poi:
_Il Causidico_; il dottor Azzecca-garbugli, ben inteso, che nacque come
visse e vive, ma con altri nomi, essendosi chiamato a vicenda Dottor
Pèttola e Dottor Duplica. Il quarto s'intitolava, prima _Il Padre
Galdino_, poi diventò _Il Padre Cristoforo_, quando il nome di fra'
Galdino lo dette invece al cercatore delle noci, stato fra' Canziano.
Il titolo del quinto capitolo fu _Il tentativo_; del sesto, _Peggio
che peggio_; del settimo, _La sorpresa_; dell'ottavo, _La fuga_; del
nono, prima, _Digressione_, poi: _Digressione_——_La Signora_. E questo
ultimo, di capitolo nono divenne il primo del tomo secondo, quando
degli otto precedenti formò il tomo primo, divisando di spartire in
quattro tomi il romanzo, che finì coll'uscir fuori in tre soltanto. Il
secondo capitolo del tomo secondo ricevette per battesimo: _La Signora,
tuttavia_. Col terzo il Manzoni smise l'uso d'intestare i capitoli e
dette di frego all'intestature già fatte.
Il 3 novembre del '21 scriveva all'amico Fauriel: «mon roman à peine
commencé a été mis de côté, et j'ai, non pas achevé, mais fait le
dernier vers de ma tragédie» l'_Adelchi_[75]. Soggiungeva: «Pour vous
indiquer brièvement mon idée principale sur les romans historiques, et
vous mettre ainsi sur la voie de la rectifier, je vous dirai que je
les conçois comme une représentation d'un état donné de la société par
le moyen de faits, et de caractères si semblables a la réalité, qu'on
puisse les croire une histoire véritable qu'on viendrait de découvrir.
Lorsque des évènemens et des personnages historiques y sont mêlés,
je crois qu'il faut les représenter de la manière la plus strictement
historique: ainsi, par exemple, Richard Cœur-de-Lion me paraît
défectueux dans Ivanhoe». Data che ebbe l'ultima mano all'_Adelchi_,
riprese il romanzo, da più tempo rimasto interrotto e messo in
disparte; e vi lavorò con ardore sempre crescente. «Je suis enfoncé
dans mon roman, dont le sujet est placé en Lombardie, et l'époque de
1628 à 31»; scrisse al Fauriel il 29 maggio del '22. «Les mémoires qui
nous restent de cette époque» (prosegue) «présentent et font supposer
une situation de la société fort extraordinaire. Le gouvernement
le plus arbitraire, combiné avec l'anarchie féodale et l'anarchie
populaire; une législation étonnante, par ce qu'elle présente et par
ce qu'elle fait deviner, ou qu'elle raconte: une ignorance profonde,
féroce et prétentieuse; des classes ayant des intérêts et des maximes
opposées; quelques anecdotes peu connues, mais consignées dans des
écrits très-dignes de foi, et qui montrent un grand développement de
tout cela; enfin une peste, qui a donné de l'exercice à la scélératesse
la plus consommée et la plus déhontée, aux préjugés les plus absurdes,
et aux vertus les plus touchantes, etc. etc., voilà de quoi remplir
un canevas; ou plutôt voilà des matériaux, qui ne feront peut-être
que décéler la mal habilité de celui qui va les mettre en œuvre.
Mais, s'il faut périr, _pérons_; j'ose me flatter, (j'ai appris cette
phrase de mon tailleur a Paris), j'ose me flatter du moins d'éviter
le reproche d'imitation. A cet effet, je fais ce que je puis pour me
pénétrer de l'esprit du tems, que j'ai à décrire, pour y vivre; il
était si original, que ce sera bien ma faute, si cette qualité ne se
communique pas à la description. Quant à la marche des événements et
à l'intrigue, je crois que le meilleur moyen de ne pas faire comme
les autres, est de s'attacher a considérer dans la réalité la manière
d'agir des hommes, et de la considérer surtout dans ce qu'elle a
d'opposé à l'esprit romanesque. Dans tous les romans que j'ai lus, il
me semble de voir un travail pour établir des rapports intéressants et
inattendus entre les différens personnages, pour les ramener sur la
scène de compagnie, pour trouver des événements, qui influent à la fois
et en différentes manières sur la destinée de tous, enfin une unité
artificielle, que l'on ne trouve pas dans la vie réelle. Je sais que
cette unité fait plaisir au lecteur; mais je pense que c'est à cause
d'une ancienne habitude. Je sais qu'elle passe pour un mérite dans
quelques ouvrages, qui en ont un bien réel et du premier ordre; mais
je suis d'avis qu'un jour ce sera un objet de critique et qu'on citera
cette manière de nouer les événements comme un exemple de l'empire que
la coutume exerce sur les esprits les plus beaux et les plus élevés, ou
des sacrifices que l'ont fait au goût établi. Ah! si je vous tenais,
je vous ferais avaler toute mon histoire, et vous forcerais à m'aider
de vos conseils; mais on ne peut ennuyer un ami qu'avec mesure, à une
telle distance». Gli riscrisse il 12 settembre dell'anno stesso: «Je
ne suis qu'à la moitié du 2.ᵉ vol. de mon roman et j'aurais dû, selon
des calculs antécédens, être à la fin du 3.ᵉ; j'ai bien peur que je ne
pourrai m'en tirer à moins de 4; mais, s'il ne m'arrive pas des profits
extraordinaires d'imbécillité, je compie en être débarrassé avant la
fin de février prochain». Condusse a fine il nono e ultimo capitolo del
tomo terzo l'11 marzo del '23; egli stesso, per ricordo, ve lo lasciò
scritto. In un'altra lettera al Fauriel, che è del 21 di maggio, diceva
del romanzo: «J'en suis actuellement a la moitié du 4.ᵐᵉ et dernier
volume mais l'achèvement et la correction pourraient exiger encore
peut-être trois mois». Come già fu detto, soltanto il 17 di settembre
di quell'anno rimase ultimato; e il Manzoni, al solito, lo notò.

IV.
In margine alla prima minuta, Ermes Visconti fece di quando in quando
delle postille, che al Manzoni tornarono utili. Come gli tornarono
utili le osservazioni che gli fece a viva voce il Fauriel; il quale,
morta la vedova del Condorcet, Sofia Grouchy, che era la donna del
suo cuore, a conforto dell'animo desolato se ne venne in Italia per
riabbracciare il Manzoni, e rimase ospite suo più mesi[76]. Del romanzo
così scrive Donna Giulia a monsig. Luigi Tosi il 14 gennaio del '24:
«Sia detto fra noi, M.ͬ Fauriel, certamente uno dei più grandi
letterati, dice che è una cosa ammirabile, e si è incontrato con Lei
dicendo ad Alessandro di togliere affatto l'episodio della monaca». È
vero; nel consigliare questo taglio, il Fauriel e il Tosi si trovavano
d'accordo. Erano però guidati da fini diversi. Il Vescovo di Pavia,
stretto di maniche per sua natura, e fatto più rigido da uno spruzzo
di giansenismo, che si sforzava, ma non sempre gli riusciva di tener
celato, lo faceva perchè indotto da un male inteso zelo religioso; il
Fauriel, mente larga e senza pregiudizi, per ragioni di proporzioni e
di estetica[77].
De' tanti ammiratori de' _Promessi Sposi_, il più grande di tutti,
Goethe, diceva all'Eckermann: «il Manzoni ha sentimento, ma non mai
sentimentalismo: le situazioni sono pure e robuste. Il suo modo di
trattare i soggetti è chiaro e bello come il cielo della sua Italia.
Pure, a un tratto, a proposito della descrizione della guerra, della
fame e della peste, il Manzoni lascia a torto la veste di poeta e
mostra lo storico nella sua nudità. Allora le sue descrizioni di
cose, già per sè ributtanti, assumono la secchezza della cronaca e
divengono appena tollerabili. Ebbe troppo rispetto per la realtà, e
si vorrebbe accorciare quella guerra e quella fame d'un buon tratto e
d'un terzo la peste. Ma appena i personaggi del romanzo ricompaiono, il
Manzoni torna nella pienezza della sua gloria». Nella seconda minuta
il Manzoni tagliò e ritagliò senza misericordia, ma forse non quanto
l'unità del romanzo avrebbe richiesto; e ne dà egli stesso la ragione
in una sua lettera dell'11 giugno del '27, scritta mentre il Trognon,
auspice il Fauriel, vagheggiava tradurre in francese i _Promessi
Sposi_. «J'approuve d'avance» (così il Manzoni all'amico) «tous les
retranchemens qu'il aura crû devoir faire a ma _peste_: je sentais
moi-même que c'était trop long, généralment parlant; mais, pour ici,
c'est un caquetage de famille, qui peut avoir son prix».
Nella seconda minuta accorciò anche l'episodio della Signora di
Monza, che in sostanza è un romanzo dentro il romanzo, e che non dette
nel naso al Goethe, appunto perchè in esso ricompaiono i personaggi
e il Manzoni «torna nella pienezza della sua gloria». Non lo tolse e
fece bene. Esteticamente il Fauriel aveva ragione; ma se il romanzo
guadagnava dal lato della proporzione, se acquistava dal lato
dell'unità dell'insieme, che stupende pagine, che pittura insuperata e
insuperabile del cuore umano veniva a perdere!
La prima stesura di questo episodio, col brano che poi stralciò, si
legge nel presente volume e ne forma la parte più interessante e
curiosa[78]. La figura drammatica della Signora di Monza fin dal
primo apparire de' _Promessi Sposi_ attrasse e colpì, e subito si
fece strada il desiderio ardente di conoscerne le vicende «non velate
dalle smaglianti vernici del romanzo, ma fredde e limpide quali le
può offrire la storia»; desiderio che traeva principalmente origine
dalla «speranza di vedere confermati nei particolari i casi di quella
Gertrude che il Manzoni aveva confitto nel cuore de' suoi lettori quasi
ricordo de' più affannosi»[79]. Cesare Cantù, che per il primo commentò
i _Promessi Sposi_, altro non fece che tradurre liberamente» quello
che ne dice Giuseppe Ripamonti: la sorgente dalla quale il Manzoni
aveva attinto[80]. Svela, è vero, che la monaca colpevole e infelice
appartiene alla principesca famiglia dei de Leyva, feudatari di Monza
dal 1531 al 1648; fatto però già adombrato dal Ripamonti: «puellaribus
annis adolescentula, sicuti tunc ferebatur, virgo sanguisque Principum
in monasterium acta fuerat»[81]; e con più chiarezza dal Manzoni: «è
della costola d'Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande,
venuta di Spagna, dove son quelli che comandano»[82]. Soltanto nel
'35 gli Archivi incominciarono a dare il proprio contributo per
scoprire la verità, e il primo a darlo fu quello del Conte Gilberto
Borromeo Arese. Il conoscersi il nome della famiglia di lei non faceva
che accrescere la curiosità; troppo «restava ancora a sapersi; e
domandavasi il nome di questa donna, il tempo dei suoi errori e quanto
fu lungo il castigo che la ricondusse a virtù». Il nome e il tempo
l'indicò Francesco Ambrosoli, con l'aiuto di Gioacchino Crivelli,
archivista appunto de' Borromeo Arese[83]; che fu largo d'aiuto anche
a Pietro Custodi, il quale tirò fuori l'intimazione a Gio. Paolo Osio
(l'Egidio del romanzo) di presentarsi, insieme co' suoi complici, al
tribunale criminale di Milano, per esservi giudicato[84], e così svelò
il vero nome dell'amante, taciuto esso pure dal Ripamonti. I documenti
scoperti porsero occasione al Cantù di scendere di nuovo in campo,
sia con aggiunte alle successive edizioni del suo commento, sia con
lo stralciare da quello la parte riguardante la Signora e farne una
pubblicazione a sè[85]; più volte ristampata[86]. Ma però, mentre
da un lato, si cerca e si scopre la verità, ecco Giovanni Resini a
ottenebrarla col suo romanzo, che ebbe voga e fortuna; poi il tempo ne
fece la giustizia che meritava[87]; ecco Michele Maggi che in versi
eleganti idealizza la Signora: ecco Francesco Mezzotti che ne fa una
delle tante monache del suo racconto: _Il Pozzo della Spagnuola_[88].
Nel 1854 il processo originale della Signora di Monza, che si
conservava gelosamente nell'Archivio della Curia arcivescovile di
Milano, fu, in parte, pubblicato dal conte Tullio Dandolo[89]. Scrive
nella prefazione: «ho praticato di questo manoscritto lo spoglio più
scrupoloso, copiando ciò che vi riscontrai di più caratteristico,
e riepilogando il resto... Attingendo ad autentiche fonti, ardii
svolgere un fascio di nequizie, rimaste fin oggi tenebrose; citai nel
suo testo originale una scellerata tragedia.... Io mi son uno de' più
caldi ammiratori delle istituzioni monastiche, uno de' più sinceri
zelatori dell'onore del cattolicismo: nè quelle istituzioni corrono
pericolo, a mio avviso, di subire intacco o crollo in conseguenza
d'un fatto isolato.... Che se con essersi messi sotto a' piè i voti
giurati, quelle, in pria sciagurate, caddero in ispaventevol abisso di
guai, come avvenne che n'uscissero salve, se non fu la efficacia di
quelle istituzioni medesime che le castigarono sì da non disperarle,
le percossero, ma per redimerle, e, da ultimo, le restituirono a Dio
purificate?». Terminata la stampa, il Dandolo s'affrettò a inviarne
un esemplare al Manzoni; il quale, scorsa che n'ebbe la prefazione,
perduta la pazienza (cosa affatto insolita in lui) scriveva al male
accorto editore: «Nel libro offertomi da Lei in dono questa mattina,
trovo un giudizio che non può riguardare altro che me. Chi _ha alzato
un lembo di tal dramma spaventoso, dianzi sconosciuto, che scambia un
monastero di vergini in caverna d'assassini_: cosa che _forse potè
parere a rigoristi un argomento fornito a' mali comentarii de' nemici
delle istituzioni monastiche_; chi ne ha fatta _clamorosa comunicazione
al pubblico_; chi ha _lanciata la fiera tragedia ad essere aggirata
nel vortice della opinione, derelitta in balìa ai contrarii parlari
degli uomini_; chi ne ha fatto un _tanto più facil ludibrio, e accetta
pastura d'oziosi, di tristi, in quanto che notevol parte ne rimase in
ombra, indefinito campo a comentarii sfrenati_, avrei a esser io. La
conclusione voluta dalle parole che ho dovuto citare, sarebbe che il
_rimovere del tutto la tenda insanguinata_, era una cosa necessaria a
riparare tutto quel male, al quale io avrei data occasione, e la più
comoda occasione. Sono ben lontano dal voler discutere, nè ora, nè mai
la giustizia d'una tale accusa; ma Ella non si maraviglierà che il
libro che la contiene non possa rimaner presso di me come un dono»[90].
Il colpo fu tremendo e inaspettato. Il Dandolo, peraltro, seppe
cavarsela, e bene, rispondendogli lo stesso giorno (era l'8 luglio
del '55): «Non ebbi intenzione di offenderla e assai m'incresce se
Le recai pena. Al ricevere del suo foglio son corso dallo stampatore
ed ho già presi con lui gli opportuni concerti acciò quanto Ella ha
notato sia tolto via dalla intera edizione, la quale, come Le dissi,
compiuta ieri, cominciava domani ad esser posta in vendita. Cessando
così d'avere uno scopo la lettera che m'indirizza, Ella mi permetta di
rinviarla».
La pubblicazione di questo singolare processo non mancò di levar
rumore; e in Francia ne formarono soggetto di un racconto Filarete
Chasles[91] ed A. Renzi[92]; in Italia ne trattò Agostino Verona[93].
Nella prefazione, scritta al Deserto tra' monti di Arcisate il 1º
giugno del 1854, il Dandolo, tra l'altre cose, aveva detto: «al
celebre autore dei _Promessi Sposi_ la Signora di Monza si rese nota
nelle Storie Milanesi del Ripamonti; ignorava, quando scrisse il suo
immortale romanzo, che il processo da quei tremendi casi provocato,
dal primo costituto all'ultima sentenza, ne' suoi manoscritti originali
ed autografi, giacea contenuto in dieci grossi fascicoli polverosi,
dimenticati in un tarlato scaffale d'un Archivio lombardo». Queste
parole ventun'anni dopo fecero avvampare dallo sdegno Francesco Cusani.
«Falso» (egli esclama) «che Manzoni ignorasse il processo. Questo non
_giaceva dimenticato in un Archivio lombardo_, ma era gelosamente
custodito in quello della Curia arcivescovile di Milano.... Uscito
il libro, il Manzoni si dolse co' suoi amici di trovarvi affermato
che il processo originale eragli ignoto allorchè trent'anni prima
scriveva i _Promessi Sposi_; ed a ragione, giacchè l'asserto era falso.
_Sappiate_, dicevami un giorno, _che il processo lo tenni mesi e mesi
su questo scrittoio, essendosi degnato l'arcivescovo Gaisruck di
affidarmelo_. Era la pura verità, nota da lungo tempo a me e ad altri;
il processo l'ebbe il Manzoni per intromissione dell'abate Gaetano
Giudici, che aveva molta entratura coll'Arcivescovo, trattando come
Consigliere del Governo gli affari ecclesiastici»[94].
È impossibile che il Manzoni si sia lamentato con gli amici «di
trovarvi affermato che il processo originale eragli ignoto allorchè
trent'anni prima scriveva i _Promessi Sposi_», giacchè il Manzoni
stesso impose al Dandolo di non manifestare che l'aveva avuto nelle
mani. Tra le carte sue, ho trovato la minuta autografa di questa
lettera, che il 17 giugno del '54 indirizzò al conte Tullio: «Essendomi
venuto all'orecchio che in un manifesto che deve precedere la
pubblicazione del di Lei scritto sul processo della Signora di Monza,
si faccia menzione dell'aver io avuta cognizione del processo medesimo,
profitto della bontà sua per rivolgermi direttamente a Lei, a fine di
venire in chiaro della verità. Se non fosse altro che una falsa voce,
confido in codesta bontà medesima per ottenere il perdono d'averla
importunata senza proposito; ma se fosse altrimenti, La pregherei con
ogni istanza di voler levare dal manifesto suddetto tutto ciò che si
riferisca a cose dette da me confidenzialmente, e che non avrei dette
di certo, se avessi potuto immaginarmi che fossero per esser rese
pubbliche». Del resto, quando il Manzoni diceva al Cusani: «Sappiate
che il processo lo tenni mesi e mesi su questo scrittoio», affermava
un fatto vero; come affermava un fatto vero il Dandolo quando scriveva
che il Manzoni ignorava l'esistenza del processo «quando scrisse il
suo immortale romanzo». Il Manzoni l'ebbe in prestito dall'arcivescovo
Gaisruck, col mezzo dell'abate Giudici, come asserisce il Cusani;
ma l'ebbe dopo che fu pubblicata l'edizione originale de' _Promessi
Sposi_; se ne valse, ma in piccolissima parte, per la seconda edizione
fatta da lui, quella illustrata del '40. Infatti nel capitolo X,
raccontando le colpe di Gertrude, accenna alla conversa, che aveva
minacciato di svelare il segreto, e venne fatta sparire. Nella prima
edizione si legge: «Si spedirono tosto corrieri su diverse vie per
darle dietro e raggiungerla»; nella seconda invece: «Si fecero gran
ricerche in Monza e ne' contorni, e _principalmente a Meda, di dov'era
quella conversa_». Appunto dal processo aveva appreso che costei era
Caterina de' Cassini nativa di Meda. Quando il Manzoni tratteggiò la
figura della Signora di Monza ebbe per unica fonte il Ripamonti, e
gli fu ignoto perfino il Frisi[95], che non solo svela il nome e il
cognome di lei, ma quello pure dell'amante[96].
«Il Manzoni è un psicologo di primo ordine», ebbe a scrivere Eugenio
Camerini; «invece di analizzare, a modo di Jouffroy, i fatti interni,
ne pinge lo sviluppo, come nell'episodio della Signora di Monza, ove
ci parve sempre mirabile il processo della corruzione di quell'anima.
Nella _Religieuse_ di Diderot il processo è tutto materiale, il senso
si deprava e non conduce che a turpezze; qui si deprava l'anima e
conduce al delitto»[97]. Il Cantù affermava: «il Manzoni anche sulle
cose che toglieva da altri a prestanza metteva la sua impronta.
Diderot aveva rozzamente romanzato una, fatta monaca per forza; il
Manzoni il tema stesso elevò a quello stupendo studio del cuore umano
e a sapientissima morale»[98]. Alessandro Luzio dice: «Il Manzoni
studiosissimo, nella sua giovinezza, della letteratura francese,
imbevuto dello spirito filosofico, conobbe e ammirò senza dubbio il
romanzo di Diderot; e, più tardi, il ricordo di questo non poteva
essere estraneo a determinare l'episodio della Monaca di Monza. Nel
quale anzi dovett'essere intendimento del Manzoni di ripigliare sopra
un addentellato storico il motivo della _Religieuse_, la violenza
cioè fatta da' genitori a una figlia, ripigliarlo e svolgerlo alla
sua maniera, sceverando e dalla narrazione, o addebitando al secolo,
all'individuo, quanto il Diderot aveva prodotto di tristo e di odioso
all'istituzione, all'idea religiosa; cercando, assai visibilmente in
qualche punto, di contrapporre un'indiretta, ma efficace confutazione
al libro tendenzioso del filosofo»[99]. Il Luzio si sforza di provarlo;
v'impiega ingegno e acume, ma non riesce a persuadere[100].
In questi ultimi anni Carlo Casati mise in sodo che una figlia di
Tommaso Marini di Genova, Duca di Terranova, andata sposa a Don Martino
de Leyva, fu la madre della Gertrude de' _Promessi Sposi_[101]; Luca
Beltrami precisò la stanza del palazzo Marino dove nacque[102];
Giovanni Vidari prese a dimostrare come l'episodio di «Gertrude sia nel
romanzo, indipendentemente dal merito artistico, uno studio storico,
un'analisi psicologica, un alto avvertimento pedagogico-morale»[103];
Luigi Zerbi, non contento di averla rischiarata di nuova luce con la
monografia: _La Signora di Monza nella Storia_, volle studiare anche il
suo amante[104]; e di lei tornarono a occuparsi e a scrivere Damiano
Avancini[105] e Gentile Pagani[106].
Virginia (così si chiamava la madre) in prime nozze sposò Ercole Pio di
Savoia, Signore di Sassuolo; ed ebbe da lui Marco e Benedetta. Mortogli
ben presto, dopo un anno di vedovanza si rimaritò nel decembre del 1574
con Martino, secondogenito di Don Luigi de Leyva Principe d'Ascoli,
portandogli in dote cinquantamila scudi. Martino, gentiluomo di bocca
di Re Filippo II e cavaliere di Sant'Jago, aveva combattuto a Granata,
a Lepanto e alla Goletta, e teneva allora il comando d'una compagnia
di lance a Milano. Dal nuovo matrimonio, verso la fine del 1575,
nacque Marianna (la Signora di Monza); la quale, di appena un anno,
perdette la madre. Vittima della peste, Donna Virginia, con testamento
del 1º ottobre 1576 la fece erede a perfetta metà col fratello Marco
Pio di Savoia. Non legò che l'usufrutto della dote e un anello al
marito, che di lì a poco andò in Fiandra sotto le bandiere di Don
Giovanni d'Austria, lasciando sola la figlia. Il testamento di Donna
Virginia dette luogo a un lungo litigio, finito con una transazione nel
1580. L'asse ereditario venne diviso in dodici parti, delle quali ne
toccarono cinque a Don Martino e alla figlia; sette al Pio di Savoia.
Sulla parte destinata alla figlia il padre stese avidamente la mano.
Sposata in seconde nozze Anna Viquez de Moncada, aveva egli riposto
ogni cura e ogni affetto nella sua nuova famiglia, composta di tre
maschi e una femmina: Luigi, Antonio, Girolamo e Adriana.
Sembra che l'orfanella venisse affidata alla zia materna Marianna de
Leyva, moglie di Massimiliano Stampa marchese di Soncino. Infatti
l'anno stesso della morte di lei venne portata a Monza e messa in
educazione nel monastero di S. Margherita. A tredici anni e tre mesi
prese il velo; dopo ventinove mesi e ventotto giorni di noviziato,
il 12 settembre del 1591 divenne monaca per sempre, col nome di Suor
Virginia Maria. Il padre nel costituirle la dote spirituale (pagata a
promesse e menzogne) finì con spogliarla del tutto. Se vi furono de'
motivi di nullità nel proferire i voti, «questi motivi» (a giudizio
dello Zerbi) «riducevansi a questione di giorni, giacchè è indubitato
che la professione avvenne nell'età canonica». La qual cosa però non
toglie «che dare il velo a una fanciulla di tredici anni e tre mesi,
e farle emettere voti solenni, incancellabili per tutta la vita, a
sedici, fu, è, e sarà sempre un delitto di lesa umanità».
De' congiunti di Suor Virginia Maria, il fratello Marco Pio di
Savoia, «potente per le sue aderenze e di carattere orgoglioso e
violento»[107], fu assassinato a Modena nel 1599, e qualcuno ci vide la
mano degli Estensi; Benedetta morì in carcere a Parma nel 1617, dopo
che il carnefice ebbe troncata la testa, prima al marito, Girolamo
Sanvitale, poi al suo figliuolo primogenito. L'altro fratello, Don
Luigi de Leyva, conte di Monza, barone di Trippi, di Racalmalma e
Sabuche, lasciò manoscritta la genealogia della propria famiglia, e in
essa afferma che il padre (uscito di vita a Valenza nel '99) si accasò
con Virginia Marini, ma da lei non ebbe prole: «no tuvo en ella hijos»;
aperta menzogna, che giustifica pienamente il Ripamonti, veritiero
sempre, il quale disse: Suor Virginia Maria «alienata «adhuc domo,
infensisque proximorum animis». Degli altri due fratelli, Don Antonio
morì combattendo contro i Mori nella giornata di Querquenez; Girolamo
fu governatore e capitano generale nel Perù; Adriana, vittima essa
pure dell'avarizia domestica, venne serrata a Madrid nelle Francescane
Scalze.
Ai figli di Martino de Leyva toccava a turno, di due anni in due anni,
la giurisdizione feudale di Monza; giurisdizione che alla propria volta
veniva esercitata anche da Suor Virginia Maria. Osserva con acume lo
Zerbi: «Vivente nella necessità di rimanere al cospetto di tutti la
_Signora del paese_, circondata da alcuni scellerati, per metà nel
chiostro e per metà in pieno tribunale, non poteva di certo conservare
la purezza di un sentimento innocente e ascendere da questo al _mistico
vaso di elezione_. Cotale impossibile accordo di monaca e di contessa
prova altresì che non fu l'ambizione di famiglia quella che lanciò
Suor Virginia Maria nell'abisso, bensì la più sordida avarizia: _non
tam sua sponte guani avaritiae stimulis_, come scrive il Ripamonti;
e che per essa sola videsi al diadema e al manto comitale sostituiti
il velo e il saio, accompagnati da un'autorità svestita d'ogni
prestigio. Fu per tal modo avvicinata alle noie del mondo materiale,
che toglie ogni freschezza di poetiche immaginazioni, per sostituirvi
le volgarità della vita pratica. Così Suor Virginia Maria rendeva in sè
stessa possibile il predominio della sensualità sulle astratte forme
dell'ascetismo monastico, in una parola doveva subire gli effetti di un
ambiente che erale pericoloso per ragione dirgli stessi suoi uffici».
Il Ripamonti, vissuto al fianco del Cardinal Federigo e partecipe de'
suoi segreti, ebbe modo di conoscere la verità e la conobbe nella sua
pienezza. Il racconto che lasciò degli amori di Suor Virginia Maria
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