Annali d'Italia, vol. 2 - 14
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detestata l'altra di _Teodosio_ conte, governatore allora dell'Africa.
Aveva questo valente uffiziale estinta già in quelle provincie la
ribellion di Fermo[686], restituita la pace a tutto il paese, e
continuava con gran saviezza il suo governo in quelle parti. Ma
gl'invidiosi, gramigna che specialmente alligna in alcune corti, mirando
con gelosia il di lui merito, seppero così ben dipingerlo al giovinetto
incauto Graziano, come persona pericolosa e capace di far delle novità,
che andò in Africa l'ordine di levargli la vita, e questo venne
eseguito. Fu di parere Socrate[687] che, ad istigazion di Valente
Augusto, per cagione del nome di Teodosio da lui odiato, siccome dicemmo
di sopra, a questo bravo generale fossero abbreviati i giorni del
vivere. Valente non comandava nell'Africa, e pare che neppur passasse
grande armonia fra lui e il nipote Graziano, oltre all'osservarsi già
scorsi due anni dopo la di sopra accennata congiura di Teodoro. Comunque
sia, dappoichè il giovane _Teodosio_ suo figlio arrivò ad essere
imperadore, il senato romano onorò con delle statue la memoria di esso
suo padre, il quale, giacchè ricevette il battesimo prima di morire per
ottener la remission dei peccati, è da credere che più gloriosamente
fosse coronato in cielo. La di lui disgrazia intanto si tirò dietro
quella del suddetto Teodosio suo figliuolo, il quale fu obbligato a
dimettere il governo della Mesia, di cui era duca, e a ritirarsi in
Ispagna patria sua. Nulladimeno non andò molto che Graziano, aperti gli
occhi, e pentito, il richiamò per alzarlo all'imperio.
Probabilmente fu in quest'anno che Valente Augusto, seguitando a
dimorare in Antiochia (non si sa per qual motivo), inviò il filosofo
_Temistio_[688] a Graziano suo nipote, abitante allora in Treveri nelle
Gallie. Passò questo pagano filosofo per Roma, dove nel senato stesso
egli pronunciò un'orazione sua, che contien lodi ancora di esso
Graziano, rappresentando la di lui bontà e liberalità, e l'aver egli
come annientati gli esattori crudeli delle imposte. Sappiamo infatti da
Ausonio[689] che questo benigno Augusto avea rimesso ai popoli i debiti
trascorsi, e fatta abbruciare ogni carta dei medesimi con sua singolar
gloria e benedizion della gente. In questi tempi cominciò a farsi
nominare la fiera nazion degli Unni, Tartari abitanti verso la palude
Meotide, oggidì il mar di Zabacca, che tanti guai, siccome vedremo,
recarono di poi alle contrade dell'Europa. Di essi, cioè de' loro
barbari costumi e paesi, parlano a lungo Ammiano[690], Giordano[691] ed
altri antichi scrittori[692]. Costoro, invogliati di miglior abitazione,
mossero prima la guerra agli Alani, abitanti lungo il fiume Tanai, e li
soggiogarono. Poscia rivolsero le armi contra degli Ostrogoti con tal
felicità, che _Ermenirico_ re di essi Goti, e poscia il di lui
successore vi perderono la vita. Il terrore di gente sì inumana, che non
dava quartiere ad alcuno, si sparse per tutti que' paesi, e cagion fu
che quanti Goti poterono salvarsi, non men Visigoti che Ostrogoti,
crederono meglio di abbandonar le loro terre, e di ritirarsi buona parte
di essi verso quelle dell'imperio romano; e non avendo potuto fermarsi
nella Podolia, s'inoltrarono sino alla Moldavia. Di là spedirono
deputati a Valente Augusto, pregandolo di volerli ricevere ne' suoi
Stati, promettendo di servir nelle armate romane, e di vivere da fedeli
suoi sudditi. _Ulfila_, vescovo loro, ch'era, o pur divenne poscia
ariano, come vuol Sozomeno[693], fu il capo dell'ambasceria. Questi
insegnò poi le lettere ai Goti, tradusse in lingua loro le divine
Scritture, e trasse alla religion cristiana quei che fin qui aveano
professata l'idolatria. Gran dibattimento fu nel consiglio di Valente,
se si doveva ammettere o no questa foresteria negli Stati
dell'imperio[694]. Prese l'affermativa, parte perchè si figurò Valente
di superiorizzare colle lor forze i suoi nipoti, e parte perchè parve
gran vantaggio il poter con questi Barbari provveder di reclute le
armate romane; e forse non era male, purchè fossero state ben eseguite
le precauzioni prese per dare loro ricetto. Cioè che si facessero prima
passar di qua dal Danubio i lor figliuoli, i quali si trasportassero in
Asia per servire di ostaggi della fedeltà de' padri; che ognun di essi
Goti prima di passare avesse da consegnar l'armi in mano degli uffiziali
romani. Quest'ultimo ordine fu per disattenzione ed iniquità di essi
uffiziali malamente eseguito. Credesi che ne passassero in questi tempi
circa ducento mila colle lor mogli e figliuoli[695], e questi si
sparsero per la Tracia e lungo il Danubio. Altre nazioni gotiche[696],
le quali restavano di là da quel fiume, veduto sì buon accoglimento
fatto da Valente ai lor nazionali, spedirono anche esse per ottener la
medesima grazia, ma n'ebbero la negativa, perchè troppo pericoloso si
conobbe l'ammetterne di più. Tuttavia questo esempio produsse delle
brutte conseguenze, perchè innumerabili altri Goti da lì a qualche tempo
anch'essi passarono di qua dal Danubio al dispetto de' Romani, e con
esso loro si unirono anche i Taifali, popolo infame per le sue impurità,
di modo che si vide inondata in breve la Tracia colle vicine provincie
da un'immensa folla di Barbari, amici di quattro giorni, e poi nemici
perpetui, e distruggitori del romano imperio. Cominceremo a chiarircene
nell'anno seguente.
NOTE:
[678] Panvin., in Fast.
[679] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[680] Hieron., Epist. 7 ad Laetam. Prudentius, in Symmac.
[681] Ammian., lib. 27. cap. 6. Victor, in Epitome. Themistius, Or. XV.
[682] Rufinus, Hist., lib. 2, cap. 13. Ausonius, in Panegyric.
[683] Zosimus, lib. 4, cap. 36.
[684] Ammianus, lib. 28, cap. 1.
[685] Symmachus, lib. 10, epist. 2.
[686] Orosius, lib. 7, cap. 33.
[687] Socrates, lib. 4 Hist., cap. 15.
[688] Themist., Orat. XIII.
[689] Auson., in Panegyr.
[690] Ammian., lib. 31, cap. 2.
[691] Jordan., de Reb. Get., cap. 37.
[692] Zosimus, lib. 4, cap. 20. Sozomenus, Agathius el alii.
[693] Sozom., lib. 6 Histor., cap. 37.
[694] Eunap., de Legat. Tom. I Histor. Byzant.
[695] Idacius, in Fastis.
[696] Zosim., lib. 4, cap. 20. Orosius. Hieronymus, in Chronic.
Anno di CRISTO CCCLXXVII. Indizione V.
DAMASO papa 12.
VALENTE imperadore 14.
GRAZIANO imperadore 11.
VALENTINIANO II imperad. 3.
_Consoli_
FLAVIO GRAZIANO AUGUSTO per la quarta volta e MEROBAUDE.
Per qualche tempo dell'anno presente continuò ad essere prefetto di Roma
_Gracco_[697], ed ebbe poi per successore _Probiano_. Abbiamo veduto di
sopra come una prodigiosa quantità di Goti avea ottenuta per sua stanza
la Tracia e il lungo del Danubio. Necessaria cosa sarebbe anche stata
che si fosse provveduto al loro bisogno di abitazione e di vitto[698].
Mancò tal provvisione per la colpa di _Lupicino_ conte della Tracia e di
_Massimo_ duca di quelle parti, i quali facevano mercatanzia di quella
povera gente, obbligandola a comperar caro i viveri, e a vendersi
schiavi per ottener del pane. Ecco dunque condotti alla disperazione i
Goti[699], i quali, altro ripiego non conoscendo alla fame che di
ricorrere all'armi, cominciarono a poco a poco ad ammutinarsi.
Accortosene Lupicino, ritirò dalle ripe del Danubio le guarnigioni per
costringerli colla forza a passar più oltre nel paese. Arrivò con essi a
Marcianopoli nella Mesia, e quivi invitò seco a pranzo _Fritigerno_ ed
_Alavivo_ capi dei medesimi, ma senza voler che alcun altro de' Goti
entrasse nella città; e perchè alcuni v'entrarono, li fece uccidere. I
Goti, anch'essi infuriati per questo, ammazzarono alquanti soldati
romani. Fritigerno ebbe l'accortezza di salvarsi, col fingere di
portarsi a pacificare i suoi. Si venne per questo alle mani fra i Goti e
i Romani fuori di Marcianopoli, e gli ultimi ebbero una gran rotta. I
Goti allora colle armi dei vinti molto più vennero a farsi forti. In
questo tempo una infinità d'altri Goti, ch'erano di là dal Danubio,
senza aver potuto ottener la licenza di passar nel paese romano, trovate
sguernite le rive del fiume, e però niun ostacolo ai loro passi, se ne
vennero di qua, e andarono poscia ad unirsi con Fritigerno. Altri Goti
che stanziavano in Andrinopoli fecero lo stesso, e con loro eziandio si
unirono assaissimi altri Goti che erano schiavi; sicchè, divenuta
formidabile l'armata de' medesimi, si mise a dare il sacco alla Tracia,
e si vide infine a crescere ogni dì più il loro numero colla giunta di
moltissimi Romani ridotti alla disperazione per la gravezza delle
imposte. Dimorava tuttavia in Antiochia Valente Augusto, e ricevute
queste amare nuove, e premendogli più i serpenti che egli s'era tirati
in seno, che ogni altro affare, spedì _Vittore_ suo generale al re di
Persia _Sapore_, per conchiudere seco la pace. Fu essa in fatti
conchiusa: non ne sappiam le condizioni; si può ben credere che furono
svantaggiose per chi dovette comperarla.
Intanto Valente premurose lettere inviò al nipote Graziano Augusto,
pregandolo di soccorso in così scabrosa congiuntura. Non mancò
Graziano[700] di mettere in viaggio un buon corpo di gente sotto il
comando di _Ricomere_ capitan delle guardie, e di _Frigerido_ duca. Ma
per la strada molti di queste brigate desertando se ne tornarono alle
lor case, e fu creduto per ordine segreto di _Merobaude_ generale di
esso Graziano, per paura che, sprovvedute le Gallie dell'occorrente
milizia, i Germani, passato il Reno facessero qualche irruzione.
Frigerido anch'egli, preso da vera o da falsa malattia, si fermò per
istrada. Il solo Ricomere, colle truppe che gli restavano, arrivò ad
unirsi con _Profuturo_ e _Traiano_, generali spediti da Valente con
alcune legioni nella Tracia per accudire ai bisogni. Tenuto consiglio di
guerra, determinaro questi uffiziali di andar osservando e stringendo i
Goti, per dar loro alla coda, qualora andassero mutando il campo. Ma i
Goti non erano di parere di lasciarsi divorare a poco a poco; e però,
spediti qua e là avvisi ai loro nazionali, che tutti corsero ad
attrupparsi e formarono un'armata prodigiosa, di lunga mano superiore
alla romana, altra risoluzione non vollero prendere, che quella di una
giornata campale. A questa in fatti si venne un dì nel luogo detto ai
Salici fra Tomi e Salmuride nella picciola Tartaria. Durò la fiera
battaglia dal mattino sino alla sera, senza dichiararsi la vittoria per
alcuna delle parti; ma perchè i Romani erano troppo inferiori di numero
ai Barbari, ogni lor perdita fu più sensibile che quella de' nemici. San
Girolamo[701] all'anno seguente, ed Orosio[702], con iscrivere che i
Romani rimasero sconfitti dai Goti, forse vollero indicare questo
sanguinoso fatto d'armi. Non istimarono bene i generali romani di
tentare ulteriormente la fortuna, e giacchè si avvicinava il verno, si
ritirarono a' quartieri in Marcianopoli. Ingrossati poscia i Goti
coll'arrivo di molti Unni ed Alani, corsi anch'essi all'odore della
preda, non si potè più loro impedire che non facessero continue
scorrerie e saccheggi per la Tracia. Osò Farnobio, uno de' lor capi, con
gran seguito di Taifali di tener dietro a Frigerido generale di
Graziano; ma questi camminando con gran circospenzione, allorchè se la
vide bella, verso Berea gli assalì, e gli sconfisse colla morte dello
stesso Farnobio. Non ne restava un di costoro vivo, se non avessero
implorato il perdono, e si fossero renduti prigioneri. Frigerido mandò
poi costoro in Italia a coltivar le terre poste fra Modena, Reggio e
Parma. Con queste calamità ebbe fine l'anno presente.
NOTE:
[697] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[698] Ammianus, lib. 31, cap. 4.
[699] Hieronymus, in Chronic.
[700] Ammian., lib. 31, cap. 7.
[701] Hieron., in Chron.
[702] Orosius, lib. 7, cap. 33.
Anno di CRISTO CCCLXXVIII. Indiz. VI.
DAMASO papa 13.
GRAZIANO imperadore 12.
VALENTINIANO II imperad. 4.
_Consoli_
FLAVIO VALENTE AUGUSTO per la sesta volta e FLAVIO VALENTINIANO juniore
_Augusto_ per la seconda.
Giacchè niuna memoria ci resta di chi esercitasse nell'anno presente la
prefettura di Roma, sia a noi lecito il conghietturare che in essa
continuasse _Probiano_. Le leggi del Codice teodosiano[703] ci fan
conoscere Graziano Augusto tuttavia dimorante in Treveri nel dì 22
d'aprile di quest'anno. Poco però dovette stare a mettersi in marcia
colle sue milizie per soccorrere Valente Augusto suo zio, addosso al
quale facevano allora da padroni i Goti. Avvisati preventivamente gli
Alamanni cognominati Lenziani[704], abitanti presso le Rezie, da un lor
nazionale, militante nelle guardie di esso Augusto, della spedizion che
si preparava verso l'Illirico, rotta la pace, neppur aspettarono la
divisata partenza delle milizie romane, per far un'irruzione di qua dal
Reno. Ciò fu loro ben facile nel mese di febbraio, per aver trovato il
ponte formato dai ghiacci di quel fiume. Ma furono respinti dalle
guarnigioni poste in que' siti. Avviatesi poi le soldatesche di Graziano
alla volta del Levante, ecco di nuovo con forze di lunga mano maggiori
comparir gli stessi Alamanni di qua dal Reno, e mettersi a saccheggiar
le terre romane con terrore di tutto quel paese. Fece Graziano allora
retrocedere dall'impreso viaggio le sue milizie, ed unitele colle altre
rimaste nelle Gallie, spedì contro dei nemici quell'armata sotto il
comando di _Nannieno_ prudente suo generale, e di _Mellobaude_ re o sia
principe valoroso de' Franchi, il quale non isdegnava di servire allora
nella corte cesarea in grado di capitan delle guardie, nè altro
sospirava che di venire ad un fatto d'armi. Vi si venne infatti,
essendosi affrontati i due nemici eserciti ad Argentaria, creduta oggidì
la città di Colmar nell'Alsazia. Paolo Orosio[705] pretende (e par seco
d'accordo Ammiano) che lo stesso Graziano v'intervenisse in persona,
confidato nella potenza di Gesù Cristo, siccome buon principe cattolico
ch'egli era. Sulle prime i Romani piegarono, sopraffatti
dall'esorbitante numero de' nemici; ma poi, ripigliato coraggio,
talmente menarono le mani, che gli Alamanni andarono in rotta,
restandone trenta mila morti sul campo, se s'ha da credere alla Cronica
di san Girolamo[706], a Cassiodoro[707] suo copiatore e al giovine
Vittore[708]. Ma l'ordinario costume degli storici e de' vincitori si è
di accrescere il pregio delle vittorie. Ammiano solamente scrive essersi
creduto che non più di cinque mila di coloro si salvassero colla fuga, e
che vi restò morto lo stesso _Priario_ re di quella gente. Non bastò a
Graziano questo felice successo; ma, passato all'improvviso il Reno
colla sua armata, entrò nel paese nemico con intenzione di distruggere
un popolo che non sapea mantener la fede, ed inquietava sì sovente il
territorio romano. Altro scampo non trovarono quegli abitanti, che di
ritirarsi ai siti più rapidi e scoscesi delle loro montagne colle
proprie famiglie. Furono anche ivi perseguitati e bloccati, tanto che si
trovarono costretti ad arrendersi ed arrolarsi ne' reggimenti romani,
col non aver più osato que' Barbari durante l'assenza di Graziano di far
alcun altro moto o tentativo. Io so che san Girolamo, a cui tenne dietro
Cassiodoro, mettono questo fatto all'anno precedente, seguitati in ciò
dal Gotofredo[709], e dal Pagi[710]. Ma chi ben riflette a quanto di
tali battaglie e vittorie narra Ammiano, e massimamente al vedere
ch'esse accaddero poco prima che Graziano s'inviasse verso l'Illirico
(il che egli eseguì nell'anno presente) troverà più fondati i conti
dell'Hermant[711] e del Tillemont[712], che ne parlano sotto quest'anno.
Fa qui Ammiano[713], benchè scrittor gentile, un elogio di Graziano con
dire che sembra incredibile la prestezza con cui egli, assistito da Dio,
fece questa impresa, giovine di primo pelo, di indole buona, eloquente,
moderato, bellicoso e clemente; e che avrebbe potuto pareggiar la gloria
dei più rinomati Augusti, se non avesse trascurato, come anche attesta
Vittore[714], il pubblico governo, perdendosi ne' serragli a tirar di
arco alle bestie e che questo era il suo più favorito sollazzo. Continuò
poscia Graziano il suo viaggio coll'esercito alla volta della Pannonia,
per soccorrere Valente, a cui già aveva inviato _Sebastiano_ conte per
comandare la fanteria. Avendo egli tolto a _Frigerido_ il comando
dell'armi dell'Illirico per darlo a _Mauro_ conte, creduto più animoso,
se n'ebbe poscia a pentire, perchè costui in una battaglia coi Goti,
data al passo de' Suchi, n'ebbe la peggio. Arrivò Graziano a Sirmio, e
di là passato sino al luogo appellato _Castra Martis_, spedì _Riomere_
suo generale all'Augusto zio, per avvisarlo del suo arrivo e pregarlo
che lo aspettasse.
Quanto ad esso Valente, stette egli fermo in Antiochia ne' primi mesi
dell'anno corrente, attendendo la primavera per muoversi, ancorchè gli
venissero frequenti corrieri con avviso che i Goti desolavano tutta la
Tracia[715] e scorrevano sino alla Macedonia e Tessaglia, con essere
giunte alcune loro masnade infin sotto Costantinopoli, ed averne
saccheggiati i borghi. Dopo aver egli spedita innanzi la cavalleria de'
Saraceni, che bravamente fece sloggiare i nemici dai contorni di quella
regale città[716], anch'egli arrivò là nel dì 30 di maggio dell'anno
presente[717]. Fu mal veduto dal popolo[718], che alla sua soverchia
tardanza attribuiva i tanti danni e mali inferiti dai Barbari a quella
provincia. Giunsero que' cittadini ne' giuochi del circo con una specie
di ammutinamento a chiedergli delle armi, con esibirsi di andar eglino a
combattere co' nemici. Se l'ebbe forte a male Valente. Levato il comando
della fanteria a _Trajano_ conte cattolico, lo diede al poco fa memorato
conte _Sebastiano_, disponendo tutto la giustizia di Dio per punire il
principe ariano e questo generale manicheo, amendue stati finora fieri
persecutori di chi professava il cattolicismo. Per consiglio appunto di
esso Sebastiano venne Valente dipoi all'infelice battaglia, di cui
ragioneremo fra poco; e ciò contro il parere di _Vittore_ generale
cattolico, e di _Arinteo_ altro suo generale. Poco si fermò Valente in
Costantinopoli, e ne uscì nel dì 11 di giugno, minacciando fiera
vendetta, se poteva ritornare, delle ingiurie che quel popolo gli avea
dette o fatte in questa e in altre occasioni. Nel passare davanti alla
cella di un santo romito, appellato _Isacco_[719], questi il fermò con
predirgli un funesto successo nella guerra contra de' Barbari, dacchè
egli era in disgrazia di Dio, ai cui servi aveva fatta tanta guerra
finora. Valente il fece imprigionare ordinando che fosse ben custodito
sino al suo ritorno. Passò dipoi a Melantiade, luogo distante da
Costantinopoli circa venti miglia, e di là inviò Sebastiano conte con un
corpo scelto di gente a dar la caccia a' Goti. Riuscì infatti a questo
generale di sconfiggere alcune loro brigate, e di torre ad essi un
grandissimo bottino; e, se crediamo a Zosimo[720], il suo parere fu di
risparmiar la battaglia, e di andar pizzicando i Barbari in quella
forma. Non volle ascoltarlo Valente, infatuato della speranza di una
vittoria che non potea mancare alla bravura del poderoso suo esercito, e
con tal idea passò ad Andrinopoli, dove arrivò anche _Ricomere_
coll'ambasciata di Graziano. Era di sentimento il general _Vittore_, che
si aspettasse la unione dell'Augusto nipote: lo desiderava anche
Valente; ma gli adulatori, e fra gli altri lo stesso _Sebastiano_,
mutate già le sue massime, sostennero non doversi permettere che
Graziano entrasse a parte della vittoria. In somma fu risoluta la
battaglia, e, benchè giugnesse una deputazion di Fritigerno, di cui era
capo un prete ariano, per proporre qualche convenzione ed accordo, si
rimandò senza farne caso.
Era il dì 9 d'agosto, giorno in cui Valente credendo di raccogliere una
gloriosa vittoria, da' suoi peccati fu condotto alla perdizione. Avendo
egli lasciato il bagaglio dell'armata presso di Andrinopoli con buona
scorta[721], e mandato il tesoro nella città, sul far del giorno s'inviò
in traccia de' nemici. Dopo otto o pur dodici miglia di cammino, sul
bollente mezzogiorno arrivò l'imperiale armata a scoprire il campo de'
Barbari, cinto all'intorno dal numeroso loro carriaggio; e si diedero i
capitani a formar le schiere. Lo astuto Fritigerno volendo guadagnar
tempo, perchè Alateo e Safrace suoi capitani con un buon corpo di gente,
che si aspettava, non eran giunti peranche, spedì ambasciatori a Valente
per pregarlo di pace. La risposta fu, che se Fritigerno mandasse per
ostaggi dei principali della sua nazione, si darebbe orecchio. Innanzi e
indietro andarono le parole, e intanto l'esercito romano in armi pel
caldo e per la sete languiva. Mandò Fritigerno a dire che in persona
sarebbe egli venuto a trattare, purchè se gli dessero de' buoni ostaggi.
_Ricomere_ spontaneamente si esibì di andarvi, e in fatti era già
incamminato verso il campo nemico, quando _Bacuro_, capitano degli
arcieri, senza aspettar gli ordini de' comandanti, attaccò la mischia; e
poco stettero ad essere alle mani tutte le due armate. Terribile e
sanguinoso fu il conflitto, di cui si legge la descrizione in
Ammiano[722]. A me basterà di dire che o venisse il difetto dal poco
buon ordine de' Romani, come vuol taluno, trovandosi la cavalleria
troppo lontana, o pure dal non aver essa cavalleria fatto il suo dovere
con sostener la fanteria: certo è che l'armata romana restò intieramente
sconfitta con sì fatta perdita, che almeno due terzi di essa vi
perirono; e, dopo la battaglia di Canne, altra simil perdita non avea
mai sofferto l'imperio romano. Fra gli altri primi offiziali che vi
lasciarono la vita, si contarono _Trajano_, _Sebastiano_ conte,
_Valeriano_ contestabile, _Equizio_ mastro del palazzo, e trentacinque
tribuni. Ma ciò che maggiormente rendè memorabile così funesta giornata
fu l'infelice morte del medesimo imperadore Valente, che in due maniere
vien raccontata. Vogliono alcuni[723] che malamente ferito restasse
morto nel campo della battaglia, e che spogliato poi dai Barbari senza
conoscere il corpo suo, e confuso con gli altri, non se ne avesse più
contezza. Gli altri (e questi sono i più) tengono[724] ch'egli ferito
cercò di salvarsi, ma non potendo reggersi a cavallo, e sorpreso anche
dalla notte, si rifugiò in una casa contadinesca, alla quale
sopraggiunti i Barbari attaccarono il fuoco, ed egli con gli altri del
suo seguito restò quivi bruciato. Un solo giovane, che ebbe la sorte di
salvarsi con uscire per una finestra, per quanto portò la fama, questi
fu che raccontò poi questo lagrimevol esempio della vanità delle umane
grandezze; e quella certo di Valente Augusto con un soffio venne meno,
con restar egli privo anche dell'onore della sepoltura. La morte sua,
succeduta nell'anno cinquantesimo della sua età, fu dipoi dai cattolici
riguardata come un giusto castigo della mano di Dio per le persecuzioni
da lui fatte al cattolicismo affin di promuovere l'arianesimo; e gli
stessi pagani, ancorchè non molestati per le loro superstizioni, non che
i cristiani, la tennero per un pagamento da lui meritato per le tante
crudeltà commesse. Ammiano[725], raccontando vari presagi della rovina
di Valente, confessa avere avuto in uso il popolo d'Antiochia di dire:
_Che sia bruciato vivo Valente_. Vien poi il medesimo storico
rammentando tanto il buono che il cattivo di questo imperadore.
Soprattutto fra i suoi pregi conta il non aver egli mai accresciuto le
gabelle e gli aggravii del pubblico, ed essere stato rigoroso esattor
della giustizia; nemico de' ladri e dei giudici che si lasciavano
sovvertir dai doni: liberale e splendido per le fabbriche da lui fatte
in varie città. Altre sue lodi si truovano in una orazion di
Temistio[726]. Ma, voltando carta, Ammiano sembra distruggere quanto ha
detto di buono, con rappresentar Valente insaziabile nel radunar danaro;
solito a deputar giudici onorati per le cause criminali, ma con volerne
poi riserbate le decisioni all'arbitrio suo; selvatico, collerico e
troppo inclinato a spargere il sangue de' sudditi col familiar suo
pretesto di essere offesa o sprezzata la principesca sua maestà. Di più
non ne dico, bastando sapere che non fu punto compianta la morte di lui:
il che suol essere la pietra del paragone del merito o demerito dei
regnanti.
Terminata la sanguinosa battaglia coll'eccidio de' Romani, nel dì
seguente i vittoriosi Goti, ben informati che in Andrinopoli erano
ricoverati i tesori e i principali uffiziali della corte, volarono ad
assediar quella città[727]. Ma, privi affatto di attrezzi militari, e
non pratici della maniera di formar assedii, diedero ben dei feroci
assalti, ma con loro gran perdita furono respinti, in guisa tale, che
scorgendo l'impossibilità di quell'impresa, se ne partirono. Andarono
poscia a mettere il campo in vicinanza della città di Perinto, ma senza
osare di assalir quella città, intenti unicamente al saccheggio di quel
fertile paese, con ammazzare o fare schiavi quanti infelici contadini
cadevano nelle loro mani[728]. Di là facevano varie scorrerie sino a
Costantinopoli; ma dalla cavalleria de' Saraceni, che era alla guardia
di quella città, riportarono varie percosse; e però giudicarono meglio
di spendere altrove il tempo e i passi. Diedersi dunque pel restante di
quest'anno a scorrere e saccheggiare per la Tracia, Mesia e Tartaria
minore senza trovare in luogo alcuno opposizione. Troppo erano
sbigottiti, troppo avviliti i Romani. Ebbe perciò a dire uno dei
principali Goti[729], che si maravigliava molto dell'imprudenza di essi
Romani, perchè non solamente negavano di ceder loro quelle provincie, ma
speravano ancora di vincere, quando poi si lasciavano scannare come
tante pecore; e che quanto a lui era già stanco per non aver fatto altro
che ucciderne. Parimente Eunapio[730] attesta che in quei tempi, siccome
i Goti tremavano all'udire il nome degli Unni, altrettanto facevano i
Romani udendo il nome dei Goti: a tale stato avea la empietà e la
imprudenza di Valente e dei suoi cattivi ministri ridotto il romano
imperio in quelle parti. Nè già si fermò nella Tracia e nei vicini paesi
la rabbia ed avidità di quei Barbari; passò nell'Illirico stendendo
coloro i saccheggi sino ai confini dell'Italia. Di questa favorevol
congiuntura si prevalsero anche gli Alani i Quadi e Sarmati per venire
di qua dal Danubio, e devastar quanto paese poterono: il flagello di
tanti Barbari durò poi più anni coll'esterminio delle misere provincie
romane. S. Girolamo[731] circa l'anno di Cristo 396 fece un lagrimevol
ritratto di tante disavventure, con dire che correano già venti anni,
dacchè i Goti, Sarmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali e Marcomanni
continuavano a saccheggiare e guastare la Scizia romana, la Tracia, la
Macedonia, la Dardania, la Dacia, la Tessalia, l'Acaia, i due Epiri, la
Dalmazia, e le due Pannonie. Si vedevano uccisi o condotti in ischiavitù
fino i vescovi, non che gli altri del popolo; svergognate le nobili
matrone e le sacre vergini, uccisi i preti e gli altri ministri dei
santi altari; smantellate o divenute stalle di cavalli le chiese, e
conculcate le sacre reliquie. In una parola, tutto era pieno di gemiti e
grida, ed altro dappertutto non si vedeva se non un orrido aspetto di
morte, andando in rovina l'imperio romano, ancorchè neppure per tante
percosse della mano di Dio la superbia degli uomini si potesse piegare.
Altrove attesta il medesimo santo[732], che l'Illirico composto di varie
provincie, la Tracia e la Dalmazia sua patria, erano restate paesi
incolti, senza abitatori, senza bestie, e divenuti boschi e spinai.
Altrettanto va deplorando i mali di allora s. Gregorio Nazianzeno[733].
Era in pericolo di partecipar di somiglianti sciagure anche l'Asia[734],
dove si trovava dianzi gran copia di Goti, i quali, all'udire i
fortunati avvenimenti dei lor nazionali in Europa, già cominciavano a
macchinar sedizioni nelle città d'Oriente. Ma, accortosene _Giulio_
generale dell'armi in quelle parti, seppe così accortamente dar gli
ordini opportuni a diverse di quelle città, che un determinato giorno li
fece tutti tagliare a pezzi. Con questo racconto termina Ammiano
Marcellino la sua storia, siccome ancora s. Girolamo la sua cronica,
continuata dipoi da Prospero Aquitano.
Aveva questo valente uffiziale estinta già in quelle provincie la
ribellion di Fermo[686], restituita la pace a tutto il paese, e
continuava con gran saviezza il suo governo in quelle parti. Ma
gl'invidiosi, gramigna che specialmente alligna in alcune corti, mirando
con gelosia il di lui merito, seppero così ben dipingerlo al giovinetto
incauto Graziano, come persona pericolosa e capace di far delle novità,
che andò in Africa l'ordine di levargli la vita, e questo venne
eseguito. Fu di parere Socrate[687] che, ad istigazion di Valente
Augusto, per cagione del nome di Teodosio da lui odiato, siccome dicemmo
di sopra, a questo bravo generale fossero abbreviati i giorni del
vivere. Valente non comandava nell'Africa, e pare che neppur passasse
grande armonia fra lui e il nipote Graziano, oltre all'osservarsi già
scorsi due anni dopo la di sopra accennata congiura di Teodoro. Comunque
sia, dappoichè il giovane _Teodosio_ suo figlio arrivò ad essere
imperadore, il senato romano onorò con delle statue la memoria di esso
suo padre, il quale, giacchè ricevette il battesimo prima di morire per
ottener la remission dei peccati, è da credere che più gloriosamente
fosse coronato in cielo. La di lui disgrazia intanto si tirò dietro
quella del suddetto Teodosio suo figliuolo, il quale fu obbligato a
dimettere il governo della Mesia, di cui era duca, e a ritirarsi in
Ispagna patria sua. Nulladimeno non andò molto che Graziano, aperti gli
occhi, e pentito, il richiamò per alzarlo all'imperio.
Probabilmente fu in quest'anno che Valente Augusto, seguitando a
dimorare in Antiochia (non si sa per qual motivo), inviò il filosofo
_Temistio_[688] a Graziano suo nipote, abitante allora in Treveri nelle
Gallie. Passò questo pagano filosofo per Roma, dove nel senato stesso
egli pronunciò un'orazione sua, che contien lodi ancora di esso
Graziano, rappresentando la di lui bontà e liberalità, e l'aver egli
come annientati gli esattori crudeli delle imposte. Sappiamo infatti da
Ausonio[689] che questo benigno Augusto avea rimesso ai popoli i debiti
trascorsi, e fatta abbruciare ogni carta dei medesimi con sua singolar
gloria e benedizion della gente. In questi tempi cominciò a farsi
nominare la fiera nazion degli Unni, Tartari abitanti verso la palude
Meotide, oggidì il mar di Zabacca, che tanti guai, siccome vedremo,
recarono di poi alle contrade dell'Europa. Di essi, cioè de' loro
barbari costumi e paesi, parlano a lungo Ammiano[690], Giordano[691] ed
altri antichi scrittori[692]. Costoro, invogliati di miglior abitazione,
mossero prima la guerra agli Alani, abitanti lungo il fiume Tanai, e li
soggiogarono. Poscia rivolsero le armi contra degli Ostrogoti con tal
felicità, che _Ermenirico_ re di essi Goti, e poscia il di lui
successore vi perderono la vita. Il terrore di gente sì inumana, che non
dava quartiere ad alcuno, si sparse per tutti que' paesi, e cagion fu
che quanti Goti poterono salvarsi, non men Visigoti che Ostrogoti,
crederono meglio di abbandonar le loro terre, e di ritirarsi buona parte
di essi verso quelle dell'imperio romano; e non avendo potuto fermarsi
nella Podolia, s'inoltrarono sino alla Moldavia. Di là spedirono
deputati a Valente Augusto, pregandolo di volerli ricevere ne' suoi
Stati, promettendo di servir nelle armate romane, e di vivere da fedeli
suoi sudditi. _Ulfila_, vescovo loro, ch'era, o pur divenne poscia
ariano, come vuol Sozomeno[693], fu il capo dell'ambasceria. Questi
insegnò poi le lettere ai Goti, tradusse in lingua loro le divine
Scritture, e trasse alla religion cristiana quei che fin qui aveano
professata l'idolatria. Gran dibattimento fu nel consiglio di Valente,
se si doveva ammettere o no questa foresteria negli Stati
dell'imperio[694]. Prese l'affermativa, parte perchè si figurò Valente
di superiorizzare colle lor forze i suoi nipoti, e parte perchè parve
gran vantaggio il poter con questi Barbari provveder di reclute le
armate romane; e forse non era male, purchè fossero state ben eseguite
le precauzioni prese per dare loro ricetto. Cioè che si facessero prima
passar di qua dal Danubio i lor figliuoli, i quali si trasportassero in
Asia per servire di ostaggi della fedeltà de' padri; che ognun di essi
Goti prima di passare avesse da consegnar l'armi in mano degli uffiziali
romani. Quest'ultimo ordine fu per disattenzione ed iniquità di essi
uffiziali malamente eseguito. Credesi che ne passassero in questi tempi
circa ducento mila colle lor mogli e figliuoli[695], e questi si
sparsero per la Tracia e lungo il Danubio. Altre nazioni gotiche[696],
le quali restavano di là da quel fiume, veduto sì buon accoglimento
fatto da Valente ai lor nazionali, spedirono anche esse per ottener la
medesima grazia, ma n'ebbero la negativa, perchè troppo pericoloso si
conobbe l'ammetterne di più. Tuttavia questo esempio produsse delle
brutte conseguenze, perchè innumerabili altri Goti da lì a qualche tempo
anch'essi passarono di qua dal Danubio al dispetto de' Romani, e con
esso loro si unirono anche i Taifali, popolo infame per le sue impurità,
di modo che si vide inondata in breve la Tracia colle vicine provincie
da un'immensa folla di Barbari, amici di quattro giorni, e poi nemici
perpetui, e distruggitori del romano imperio. Cominceremo a chiarircene
nell'anno seguente.
NOTE:
[678] Panvin., in Fast.
[679] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[680] Hieron., Epist. 7 ad Laetam. Prudentius, in Symmac.
[681] Ammian., lib. 27. cap. 6. Victor, in Epitome. Themistius, Or. XV.
[682] Rufinus, Hist., lib. 2, cap. 13. Ausonius, in Panegyric.
[683] Zosimus, lib. 4, cap. 36.
[684] Ammianus, lib. 28, cap. 1.
[685] Symmachus, lib. 10, epist. 2.
[686] Orosius, lib. 7, cap. 33.
[687] Socrates, lib. 4 Hist., cap. 15.
[688] Themist., Orat. XIII.
[689] Auson., in Panegyr.
[690] Ammian., lib. 31, cap. 2.
[691] Jordan., de Reb. Get., cap. 37.
[692] Zosimus, lib. 4, cap. 20. Sozomenus, Agathius el alii.
[693] Sozom., lib. 6 Histor., cap. 37.
[694] Eunap., de Legat. Tom. I Histor. Byzant.
[695] Idacius, in Fastis.
[696] Zosim., lib. 4, cap. 20. Orosius. Hieronymus, in Chronic.
Anno di CRISTO CCCLXXVII. Indizione V.
DAMASO papa 12.
VALENTE imperadore 14.
GRAZIANO imperadore 11.
VALENTINIANO II imperad. 3.
_Consoli_
FLAVIO GRAZIANO AUGUSTO per la quarta volta e MEROBAUDE.
Per qualche tempo dell'anno presente continuò ad essere prefetto di Roma
_Gracco_[697], ed ebbe poi per successore _Probiano_. Abbiamo veduto di
sopra come una prodigiosa quantità di Goti avea ottenuta per sua stanza
la Tracia e il lungo del Danubio. Necessaria cosa sarebbe anche stata
che si fosse provveduto al loro bisogno di abitazione e di vitto[698].
Mancò tal provvisione per la colpa di _Lupicino_ conte della Tracia e di
_Massimo_ duca di quelle parti, i quali facevano mercatanzia di quella
povera gente, obbligandola a comperar caro i viveri, e a vendersi
schiavi per ottener del pane. Ecco dunque condotti alla disperazione i
Goti[699], i quali, altro ripiego non conoscendo alla fame che di
ricorrere all'armi, cominciarono a poco a poco ad ammutinarsi.
Accortosene Lupicino, ritirò dalle ripe del Danubio le guarnigioni per
costringerli colla forza a passar più oltre nel paese. Arrivò con essi a
Marcianopoli nella Mesia, e quivi invitò seco a pranzo _Fritigerno_ ed
_Alavivo_ capi dei medesimi, ma senza voler che alcun altro de' Goti
entrasse nella città; e perchè alcuni v'entrarono, li fece uccidere. I
Goti, anch'essi infuriati per questo, ammazzarono alquanti soldati
romani. Fritigerno ebbe l'accortezza di salvarsi, col fingere di
portarsi a pacificare i suoi. Si venne per questo alle mani fra i Goti e
i Romani fuori di Marcianopoli, e gli ultimi ebbero una gran rotta. I
Goti allora colle armi dei vinti molto più vennero a farsi forti. In
questo tempo una infinità d'altri Goti, ch'erano di là dal Danubio,
senza aver potuto ottener la licenza di passar nel paese romano, trovate
sguernite le rive del fiume, e però niun ostacolo ai loro passi, se ne
vennero di qua, e andarono poscia ad unirsi con Fritigerno. Altri Goti
che stanziavano in Andrinopoli fecero lo stesso, e con loro eziandio si
unirono assaissimi altri Goti che erano schiavi; sicchè, divenuta
formidabile l'armata de' medesimi, si mise a dare il sacco alla Tracia,
e si vide infine a crescere ogni dì più il loro numero colla giunta di
moltissimi Romani ridotti alla disperazione per la gravezza delle
imposte. Dimorava tuttavia in Antiochia Valente Augusto, e ricevute
queste amare nuove, e premendogli più i serpenti che egli s'era tirati
in seno, che ogni altro affare, spedì _Vittore_ suo generale al re di
Persia _Sapore_, per conchiudere seco la pace. Fu essa in fatti
conchiusa: non ne sappiam le condizioni; si può ben credere che furono
svantaggiose per chi dovette comperarla.
Intanto Valente premurose lettere inviò al nipote Graziano Augusto,
pregandolo di soccorso in così scabrosa congiuntura. Non mancò
Graziano[700] di mettere in viaggio un buon corpo di gente sotto il
comando di _Ricomere_ capitan delle guardie, e di _Frigerido_ duca. Ma
per la strada molti di queste brigate desertando se ne tornarono alle
lor case, e fu creduto per ordine segreto di _Merobaude_ generale di
esso Graziano, per paura che, sprovvedute le Gallie dell'occorrente
milizia, i Germani, passato il Reno facessero qualche irruzione.
Frigerido anch'egli, preso da vera o da falsa malattia, si fermò per
istrada. Il solo Ricomere, colle truppe che gli restavano, arrivò ad
unirsi con _Profuturo_ e _Traiano_, generali spediti da Valente con
alcune legioni nella Tracia per accudire ai bisogni. Tenuto consiglio di
guerra, determinaro questi uffiziali di andar osservando e stringendo i
Goti, per dar loro alla coda, qualora andassero mutando il campo. Ma i
Goti non erano di parere di lasciarsi divorare a poco a poco; e però,
spediti qua e là avvisi ai loro nazionali, che tutti corsero ad
attrupparsi e formarono un'armata prodigiosa, di lunga mano superiore
alla romana, altra risoluzione non vollero prendere, che quella di una
giornata campale. A questa in fatti si venne un dì nel luogo detto ai
Salici fra Tomi e Salmuride nella picciola Tartaria. Durò la fiera
battaglia dal mattino sino alla sera, senza dichiararsi la vittoria per
alcuna delle parti; ma perchè i Romani erano troppo inferiori di numero
ai Barbari, ogni lor perdita fu più sensibile che quella de' nemici. San
Girolamo[701] all'anno seguente, ed Orosio[702], con iscrivere che i
Romani rimasero sconfitti dai Goti, forse vollero indicare questo
sanguinoso fatto d'armi. Non istimarono bene i generali romani di
tentare ulteriormente la fortuna, e giacchè si avvicinava il verno, si
ritirarono a' quartieri in Marcianopoli. Ingrossati poscia i Goti
coll'arrivo di molti Unni ed Alani, corsi anch'essi all'odore della
preda, non si potè più loro impedire che non facessero continue
scorrerie e saccheggi per la Tracia. Osò Farnobio, uno de' lor capi, con
gran seguito di Taifali di tener dietro a Frigerido generale di
Graziano; ma questi camminando con gran circospenzione, allorchè se la
vide bella, verso Berea gli assalì, e gli sconfisse colla morte dello
stesso Farnobio. Non ne restava un di costoro vivo, se non avessero
implorato il perdono, e si fossero renduti prigioneri. Frigerido mandò
poi costoro in Italia a coltivar le terre poste fra Modena, Reggio e
Parma. Con queste calamità ebbe fine l'anno presente.
NOTE:
[697] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[698] Ammianus, lib. 31, cap. 4.
[699] Hieronymus, in Chronic.
[700] Ammian., lib. 31, cap. 7.
[701] Hieron., in Chron.
[702] Orosius, lib. 7, cap. 33.
Anno di CRISTO CCCLXXVIII. Indiz. VI.
DAMASO papa 13.
GRAZIANO imperadore 12.
VALENTINIANO II imperad. 4.
_Consoli_
FLAVIO VALENTE AUGUSTO per la sesta volta e FLAVIO VALENTINIANO juniore
_Augusto_ per la seconda.
Giacchè niuna memoria ci resta di chi esercitasse nell'anno presente la
prefettura di Roma, sia a noi lecito il conghietturare che in essa
continuasse _Probiano_. Le leggi del Codice teodosiano[703] ci fan
conoscere Graziano Augusto tuttavia dimorante in Treveri nel dì 22
d'aprile di quest'anno. Poco però dovette stare a mettersi in marcia
colle sue milizie per soccorrere Valente Augusto suo zio, addosso al
quale facevano allora da padroni i Goti. Avvisati preventivamente gli
Alamanni cognominati Lenziani[704], abitanti presso le Rezie, da un lor
nazionale, militante nelle guardie di esso Augusto, della spedizion che
si preparava verso l'Illirico, rotta la pace, neppur aspettarono la
divisata partenza delle milizie romane, per far un'irruzione di qua dal
Reno. Ciò fu loro ben facile nel mese di febbraio, per aver trovato il
ponte formato dai ghiacci di quel fiume. Ma furono respinti dalle
guarnigioni poste in que' siti. Avviatesi poi le soldatesche di Graziano
alla volta del Levante, ecco di nuovo con forze di lunga mano maggiori
comparir gli stessi Alamanni di qua dal Reno, e mettersi a saccheggiar
le terre romane con terrore di tutto quel paese. Fece Graziano allora
retrocedere dall'impreso viaggio le sue milizie, ed unitele colle altre
rimaste nelle Gallie, spedì contro dei nemici quell'armata sotto il
comando di _Nannieno_ prudente suo generale, e di _Mellobaude_ re o sia
principe valoroso de' Franchi, il quale non isdegnava di servire allora
nella corte cesarea in grado di capitan delle guardie, nè altro
sospirava che di venire ad un fatto d'armi. Vi si venne infatti,
essendosi affrontati i due nemici eserciti ad Argentaria, creduta oggidì
la città di Colmar nell'Alsazia. Paolo Orosio[705] pretende (e par seco
d'accordo Ammiano) che lo stesso Graziano v'intervenisse in persona,
confidato nella potenza di Gesù Cristo, siccome buon principe cattolico
ch'egli era. Sulle prime i Romani piegarono, sopraffatti
dall'esorbitante numero de' nemici; ma poi, ripigliato coraggio,
talmente menarono le mani, che gli Alamanni andarono in rotta,
restandone trenta mila morti sul campo, se s'ha da credere alla Cronica
di san Girolamo[706], a Cassiodoro[707] suo copiatore e al giovine
Vittore[708]. Ma l'ordinario costume degli storici e de' vincitori si è
di accrescere il pregio delle vittorie. Ammiano solamente scrive essersi
creduto che non più di cinque mila di coloro si salvassero colla fuga, e
che vi restò morto lo stesso _Priario_ re di quella gente. Non bastò a
Graziano questo felice successo; ma, passato all'improvviso il Reno
colla sua armata, entrò nel paese nemico con intenzione di distruggere
un popolo che non sapea mantener la fede, ed inquietava sì sovente il
territorio romano. Altro scampo non trovarono quegli abitanti, che di
ritirarsi ai siti più rapidi e scoscesi delle loro montagne colle
proprie famiglie. Furono anche ivi perseguitati e bloccati, tanto che si
trovarono costretti ad arrendersi ed arrolarsi ne' reggimenti romani,
col non aver più osato que' Barbari durante l'assenza di Graziano di far
alcun altro moto o tentativo. Io so che san Girolamo, a cui tenne dietro
Cassiodoro, mettono questo fatto all'anno precedente, seguitati in ciò
dal Gotofredo[709], e dal Pagi[710]. Ma chi ben riflette a quanto di
tali battaglie e vittorie narra Ammiano, e massimamente al vedere
ch'esse accaddero poco prima che Graziano s'inviasse verso l'Illirico
(il che egli eseguì nell'anno presente) troverà più fondati i conti
dell'Hermant[711] e del Tillemont[712], che ne parlano sotto quest'anno.
Fa qui Ammiano[713], benchè scrittor gentile, un elogio di Graziano con
dire che sembra incredibile la prestezza con cui egli, assistito da Dio,
fece questa impresa, giovine di primo pelo, di indole buona, eloquente,
moderato, bellicoso e clemente; e che avrebbe potuto pareggiar la gloria
dei più rinomati Augusti, se non avesse trascurato, come anche attesta
Vittore[714], il pubblico governo, perdendosi ne' serragli a tirar di
arco alle bestie e che questo era il suo più favorito sollazzo. Continuò
poscia Graziano il suo viaggio coll'esercito alla volta della Pannonia,
per soccorrere Valente, a cui già aveva inviato _Sebastiano_ conte per
comandare la fanteria. Avendo egli tolto a _Frigerido_ il comando
dell'armi dell'Illirico per darlo a _Mauro_ conte, creduto più animoso,
se n'ebbe poscia a pentire, perchè costui in una battaglia coi Goti,
data al passo de' Suchi, n'ebbe la peggio. Arrivò Graziano a Sirmio, e
di là passato sino al luogo appellato _Castra Martis_, spedì _Riomere_
suo generale all'Augusto zio, per avvisarlo del suo arrivo e pregarlo
che lo aspettasse.
Quanto ad esso Valente, stette egli fermo in Antiochia ne' primi mesi
dell'anno corrente, attendendo la primavera per muoversi, ancorchè gli
venissero frequenti corrieri con avviso che i Goti desolavano tutta la
Tracia[715] e scorrevano sino alla Macedonia e Tessaglia, con essere
giunte alcune loro masnade infin sotto Costantinopoli, ed averne
saccheggiati i borghi. Dopo aver egli spedita innanzi la cavalleria de'
Saraceni, che bravamente fece sloggiare i nemici dai contorni di quella
regale città[716], anch'egli arrivò là nel dì 30 di maggio dell'anno
presente[717]. Fu mal veduto dal popolo[718], che alla sua soverchia
tardanza attribuiva i tanti danni e mali inferiti dai Barbari a quella
provincia. Giunsero que' cittadini ne' giuochi del circo con una specie
di ammutinamento a chiedergli delle armi, con esibirsi di andar eglino a
combattere co' nemici. Se l'ebbe forte a male Valente. Levato il comando
della fanteria a _Trajano_ conte cattolico, lo diede al poco fa memorato
conte _Sebastiano_, disponendo tutto la giustizia di Dio per punire il
principe ariano e questo generale manicheo, amendue stati finora fieri
persecutori di chi professava il cattolicismo. Per consiglio appunto di
esso Sebastiano venne Valente dipoi all'infelice battaglia, di cui
ragioneremo fra poco; e ciò contro il parere di _Vittore_ generale
cattolico, e di _Arinteo_ altro suo generale. Poco si fermò Valente in
Costantinopoli, e ne uscì nel dì 11 di giugno, minacciando fiera
vendetta, se poteva ritornare, delle ingiurie che quel popolo gli avea
dette o fatte in questa e in altre occasioni. Nel passare davanti alla
cella di un santo romito, appellato _Isacco_[719], questi il fermò con
predirgli un funesto successo nella guerra contra de' Barbari, dacchè
egli era in disgrazia di Dio, ai cui servi aveva fatta tanta guerra
finora. Valente il fece imprigionare ordinando che fosse ben custodito
sino al suo ritorno. Passò dipoi a Melantiade, luogo distante da
Costantinopoli circa venti miglia, e di là inviò Sebastiano conte con un
corpo scelto di gente a dar la caccia a' Goti. Riuscì infatti a questo
generale di sconfiggere alcune loro brigate, e di torre ad essi un
grandissimo bottino; e, se crediamo a Zosimo[720], il suo parere fu di
risparmiar la battaglia, e di andar pizzicando i Barbari in quella
forma. Non volle ascoltarlo Valente, infatuato della speranza di una
vittoria che non potea mancare alla bravura del poderoso suo esercito, e
con tal idea passò ad Andrinopoli, dove arrivò anche _Ricomere_
coll'ambasciata di Graziano. Era di sentimento il general _Vittore_, che
si aspettasse la unione dell'Augusto nipote: lo desiderava anche
Valente; ma gli adulatori, e fra gli altri lo stesso _Sebastiano_,
mutate già le sue massime, sostennero non doversi permettere che
Graziano entrasse a parte della vittoria. In somma fu risoluta la
battaglia, e, benchè giugnesse una deputazion di Fritigerno, di cui era
capo un prete ariano, per proporre qualche convenzione ed accordo, si
rimandò senza farne caso.
Era il dì 9 d'agosto, giorno in cui Valente credendo di raccogliere una
gloriosa vittoria, da' suoi peccati fu condotto alla perdizione. Avendo
egli lasciato il bagaglio dell'armata presso di Andrinopoli con buona
scorta[721], e mandato il tesoro nella città, sul far del giorno s'inviò
in traccia de' nemici. Dopo otto o pur dodici miglia di cammino, sul
bollente mezzogiorno arrivò l'imperiale armata a scoprire il campo de'
Barbari, cinto all'intorno dal numeroso loro carriaggio; e si diedero i
capitani a formar le schiere. Lo astuto Fritigerno volendo guadagnar
tempo, perchè Alateo e Safrace suoi capitani con un buon corpo di gente,
che si aspettava, non eran giunti peranche, spedì ambasciatori a Valente
per pregarlo di pace. La risposta fu, che se Fritigerno mandasse per
ostaggi dei principali della sua nazione, si darebbe orecchio. Innanzi e
indietro andarono le parole, e intanto l'esercito romano in armi pel
caldo e per la sete languiva. Mandò Fritigerno a dire che in persona
sarebbe egli venuto a trattare, purchè se gli dessero de' buoni ostaggi.
_Ricomere_ spontaneamente si esibì di andarvi, e in fatti era già
incamminato verso il campo nemico, quando _Bacuro_, capitano degli
arcieri, senza aspettar gli ordini de' comandanti, attaccò la mischia; e
poco stettero ad essere alle mani tutte le due armate. Terribile e
sanguinoso fu il conflitto, di cui si legge la descrizione in
Ammiano[722]. A me basterà di dire che o venisse il difetto dal poco
buon ordine de' Romani, come vuol taluno, trovandosi la cavalleria
troppo lontana, o pure dal non aver essa cavalleria fatto il suo dovere
con sostener la fanteria: certo è che l'armata romana restò intieramente
sconfitta con sì fatta perdita, che almeno due terzi di essa vi
perirono; e, dopo la battaglia di Canne, altra simil perdita non avea
mai sofferto l'imperio romano. Fra gli altri primi offiziali che vi
lasciarono la vita, si contarono _Trajano_, _Sebastiano_ conte,
_Valeriano_ contestabile, _Equizio_ mastro del palazzo, e trentacinque
tribuni. Ma ciò che maggiormente rendè memorabile così funesta giornata
fu l'infelice morte del medesimo imperadore Valente, che in due maniere
vien raccontata. Vogliono alcuni[723] che malamente ferito restasse
morto nel campo della battaglia, e che spogliato poi dai Barbari senza
conoscere il corpo suo, e confuso con gli altri, non se ne avesse più
contezza. Gli altri (e questi sono i più) tengono[724] ch'egli ferito
cercò di salvarsi, ma non potendo reggersi a cavallo, e sorpreso anche
dalla notte, si rifugiò in una casa contadinesca, alla quale
sopraggiunti i Barbari attaccarono il fuoco, ed egli con gli altri del
suo seguito restò quivi bruciato. Un solo giovane, che ebbe la sorte di
salvarsi con uscire per una finestra, per quanto portò la fama, questi
fu che raccontò poi questo lagrimevol esempio della vanità delle umane
grandezze; e quella certo di Valente Augusto con un soffio venne meno,
con restar egli privo anche dell'onore della sepoltura. La morte sua,
succeduta nell'anno cinquantesimo della sua età, fu dipoi dai cattolici
riguardata come un giusto castigo della mano di Dio per le persecuzioni
da lui fatte al cattolicismo affin di promuovere l'arianesimo; e gli
stessi pagani, ancorchè non molestati per le loro superstizioni, non che
i cristiani, la tennero per un pagamento da lui meritato per le tante
crudeltà commesse. Ammiano[725], raccontando vari presagi della rovina
di Valente, confessa avere avuto in uso il popolo d'Antiochia di dire:
_Che sia bruciato vivo Valente_. Vien poi il medesimo storico
rammentando tanto il buono che il cattivo di questo imperadore.
Soprattutto fra i suoi pregi conta il non aver egli mai accresciuto le
gabelle e gli aggravii del pubblico, ed essere stato rigoroso esattor
della giustizia; nemico de' ladri e dei giudici che si lasciavano
sovvertir dai doni: liberale e splendido per le fabbriche da lui fatte
in varie città. Altre sue lodi si truovano in una orazion di
Temistio[726]. Ma, voltando carta, Ammiano sembra distruggere quanto ha
detto di buono, con rappresentar Valente insaziabile nel radunar danaro;
solito a deputar giudici onorati per le cause criminali, ma con volerne
poi riserbate le decisioni all'arbitrio suo; selvatico, collerico e
troppo inclinato a spargere il sangue de' sudditi col familiar suo
pretesto di essere offesa o sprezzata la principesca sua maestà. Di più
non ne dico, bastando sapere che non fu punto compianta la morte di lui:
il che suol essere la pietra del paragone del merito o demerito dei
regnanti.
Terminata la sanguinosa battaglia coll'eccidio de' Romani, nel dì
seguente i vittoriosi Goti, ben informati che in Andrinopoli erano
ricoverati i tesori e i principali uffiziali della corte, volarono ad
assediar quella città[727]. Ma, privi affatto di attrezzi militari, e
non pratici della maniera di formar assedii, diedero ben dei feroci
assalti, ma con loro gran perdita furono respinti, in guisa tale, che
scorgendo l'impossibilità di quell'impresa, se ne partirono. Andarono
poscia a mettere il campo in vicinanza della città di Perinto, ma senza
osare di assalir quella città, intenti unicamente al saccheggio di quel
fertile paese, con ammazzare o fare schiavi quanti infelici contadini
cadevano nelle loro mani[728]. Di là facevano varie scorrerie sino a
Costantinopoli; ma dalla cavalleria de' Saraceni, che era alla guardia
di quella città, riportarono varie percosse; e però giudicarono meglio
di spendere altrove il tempo e i passi. Diedersi dunque pel restante di
quest'anno a scorrere e saccheggiare per la Tracia, Mesia e Tartaria
minore senza trovare in luogo alcuno opposizione. Troppo erano
sbigottiti, troppo avviliti i Romani. Ebbe perciò a dire uno dei
principali Goti[729], che si maravigliava molto dell'imprudenza di essi
Romani, perchè non solamente negavano di ceder loro quelle provincie, ma
speravano ancora di vincere, quando poi si lasciavano scannare come
tante pecore; e che quanto a lui era già stanco per non aver fatto altro
che ucciderne. Parimente Eunapio[730] attesta che in quei tempi, siccome
i Goti tremavano all'udire il nome degli Unni, altrettanto facevano i
Romani udendo il nome dei Goti: a tale stato avea la empietà e la
imprudenza di Valente e dei suoi cattivi ministri ridotto il romano
imperio in quelle parti. Nè già si fermò nella Tracia e nei vicini paesi
la rabbia ed avidità di quei Barbari; passò nell'Illirico stendendo
coloro i saccheggi sino ai confini dell'Italia. Di questa favorevol
congiuntura si prevalsero anche gli Alani i Quadi e Sarmati per venire
di qua dal Danubio, e devastar quanto paese poterono: il flagello di
tanti Barbari durò poi più anni coll'esterminio delle misere provincie
romane. S. Girolamo[731] circa l'anno di Cristo 396 fece un lagrimevol
ritratto di tante disavventure, con dire che correano già venti anni,
dacchè i Goti, Sarmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali e Marcomanni
continuavano a saccheggiare e guastare la Scizia romana, la Tracia, la
Macedonia, la Dardania, la Dacia, la Tessalia, l'Acaia, i due Epiri, la
Dalmazia, e le due Pannonie. Si vedevano uccisi o condotti in ischiavitù
fino i vescovi, non che gli altri del popolo; svergognate le nobili
matrone e le sacre vergini, uccisi i preti e gli altri ministri dei
santi altari; smantellate o divenute stalle di cavalli le chiese, e
conculcate le sacre reliquie. In una parola, tutto era pieno di gemiti e
grida, ed altro dappertutto non si vedeva se non un orrido aspetto di
morte, andando in rovina l'imperio romano, ancorchè neppure per tante
percosse della mano di Dio la superbia degli uomini si potesse piegare.
Altrove attesta il medesimo santo[732], che l'Illirico composto di varie
provincie, la Tracia e la Dalmazia sua patria, erano restate paesi
incolti, senza abitatori, senza bestie, e divenuti boschi e spinai.
Altrettanto va deplorando i mali di allora s. Gregorio Nazianzeno[733].
Era in pericolo di partecipar di somiglianti sciagure anche l'Asia[734],
dove si trovava dianzi gran copia di Goti, i quali, all'udire i
fortunati avvenimenti dei lor nazionali in Europa, già cominciavano a
macchinar sedizioni nelle città d'Oriente. Ma, accortosene _Giulio_
generale dell'armi in quelle parti, seppe così accortamente dar gli
ordini opportuni a diverse di quelle città, che un determinato giorno li
fece tutti tagliare a pezzi. Con questo racconto termina Ammiano
Marcellino la sua storia, siccome ancora s. Girolamo la sua cronica,
continuata dipoi da Prospero Aquitano.
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