Annali d'Italia, vol. 2 - 02
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orazione[62] a tessere le lodi dell'Augusto Costanzo, non parla che di
pochi Romani restati in quel conflitto. Libanio[63] slarga un po' più la
bocca. Per lo contrario, Ammiano Marcellino[64], anch'egli vivente
allora, e che volea poco bene a Costanzo, scrive che grande strage fu
ivi fatta delle soldatesche romane: il che si può anche dedurre da Rufo
Festo. Altro non dice Eutropio[65], se non che i Romani per loro
caparbietà si lasciarono togliere di mano una sicura vittoria; e le di
lui parole furono copiate da san Girolamo[66]. Tutti poi gli storici van
d'accordo in dire che il re Sapore prese la fuga; nè mai si credette in
salvo, finchè non ebbe passato il fiume Tigri. Giuliano pretende che
anche prima della zuffa quel valoroso re, al solo mirar da lungi la
poderosa armata de' Romani, battesse la ritirata, e lasciasse il comando
al figliuolo, che poi miseramente morì. Del pari è certo che non
tardarono i Persiani a levar il campo nel giorno seguente, e a ritirarsi
precipitosamente di là dal Tigri, con rompere tosto i ponti per paura di
essere inseguiti dai creduti vincitori Romani. Sicchè, se essi Romani
non poterono cantar la vittoria, nè pure i loro nemici ebbero campo di
attribuirla a sè stessi. E san Girolamo nota che di nove battaglie
succedute durante la guerra suddetta coi Persiani, questa fu la più
riguardevole e sanguinosa; ed essa almen per allora fece svanire i
boriosi disegni del re nemico, il quale, senza aver presa città o
fortezza alcuna, malconcio si ridusse al suo paese.
NOTE:
[50] Hieron., in Chronico.
[51] Aurel. Vict., de Caesarib.
[52] Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 28. Socrat., Histor., lib. 2, cap.
21.
[53] Athan., in Apolog.
[54] Hieron., in Chron.
[55] Idacius, in Fastis.
[56] Julian., Orat. I.
[57] Liban., Orat. III.
[58] Gothofr., Chron. Cod. Theodos.
[59] Liban., Orat. III.
[60] Rufus Festus, in Breviar.
[61] Idem, ibidem.
[62] Julian., Orat. I.
[63] Liban., Orat. III.
[64] Ammianus, lib. 18, cap. 5.
[65] Eutrop., in Brev.
[66] Hieron., in Chron.
Anno di CRISTO CCCXLIX. Indizione VII.
GIULIO papa 13.
COSTANZO e
COSTANTE imperadori 13.
_Consoli_
ULPIO LIMENIO e ACONE ossia ACONIO CATULINO FILOMAZIO o FILONIANO.
Dal Catalogo de' prefetti di Roma, pubblicato dal Cuspiniano e dal
Bucherio[67], abbiamo che il console _Limenio_ seguitò ad essere
prefetto di Roma e prefetto del pretorio sino al dì 8 di aprile.
Restarono vacanti queste due dignità, senza che se ne sappia il perchè,
sino al dì 18 di maggio, in cui tutte e due furono conferite ad
_Ermogene_. Dall'Apologia di sant'Atanasio[68] si può ricavare che
Costante Augusto ne' primi mesi di quest'anno soggiornasse nelle Gallie;
perchè il santo vescovo, chiamato da lui, si portò colà prima di passare
ad Alessandria, giacchè finalmente di consenso dell'imperadore Costanzo
egli ricuperò in quest'anno la sedia sua. Truovasi poi Costante in
Sirmio della Pannonia nel dì 27 di maggio, ciò apparendo da una sua
legge. Libanio[69] anche egli attesta che questo principe nell'anno
presente visitò le città d'essa Pannonia. Quanto all'Augusto Costanzo,
apprendiamo dalle leggi del Codice Teodosiano ch'egli nel principio
d'aprile soggiornava in Antiochia, e da Emesa scrisse a sant'Atanasio
per sollecitarlo a tornarsene in Oriente. Alcune leggi da lui date in
quest'anno ci fan conoscere la premura di lui per reclutar le milizie
sue, e per ben disciplinarle. Imperciocchè i Persiani, con tutte le
percosse patite nell'anno precedente, non rallentavano punto le
disposizioni per seguitar le guerra, divenuta oramai una perniciosa
cancrena de' Romani in quelle parti; imperciocchè anno non passò,
durante il regno di Costanzo, in cui egli fosse esente dalle minaccie ed
incursioni di quella nemica e potente nazione, ora con vantaggio, ed ora
con isvantaggio delle sue genti. Intorno a che convien osservare due
diverse figure che fecero i due pagani Giuliano Apostata[70] e
Libanio[71]. Finchè visse Costanzo, l'eloquenza loro trovò dei luoghi
topici per esaltare il di lui valore e la sua condotta in fare e
sostenere quella guerra. Ma da che egli compiè la carriera de' suoi
giorni, amendue se ne fecero beffe, e formarono di lui un ben diverso
ritratto. All'udir questi due adulatori, Costanzo più volte gittò dei
ponti sul fiume Tigri, e passò anche sulle terre nemiche, tal terrore
spargendo ne' Persiani, che non osavano di lasciarsi vedere per
difendersi dai saccheggi. Passava egli il verno in Antiochia, e nella
state era in campagna contro i nemici, i quali si stimavano felici se
potevano fuggire e nascondersi dal valore di questo augusto eroe. Che se
riuscì talvolta a coloro di riportar qualche vantaggio sopra i Romani,
fu solamente per mezzo d'imboscate, e col mancare alle tregue. Passato
poi all'altra vita esso Costanzo, mutò linguaggio il sofista Libanio,
con dire che a lui non mancavano già buone milizie per vincere i
Persiani, ma bensì un cuore di principe e una testa di capitano. Alla
primavera comparivano i nemici per assediar qualche fortezza, e Costanzo
aspettava la state per uscire in campagna; ed usciva, non già per andar
contra di loro con tutto il suo magnifico apparato, ma per fuggir con
diligenza, informandosi studiosamente a tal fine de' lor movimenti per
ischivarli; di maniera che terminava ordinariamente la campagna in
tornarsene i Persiani alle lor case pieni di spoglie dei miseri abitanti
della Mesopotamia: dopo di che Costanzo si lasciava vedere per le città
e luoghi saccheggiati, quasichè la venuta sua avesse messo lo spavento
in cuore ai nemici, e fattili ritirare. In somma ci rappresentano
Costanzo per un vile coniglio; e pur troppo, se si ha da parlare
schietto, contuttochè, siccome abbiam veduto, san Girolamo[72] parli di
nove combattimenti seguiti in tutto il corso di questa guerra fra i
Romani e i Persiani; pure ogni storico[73] in fine confessa che l'armi
di Costanzo non cantarono mai vittoria alcuna, anzi ebbero sempre delle
busse; e che i Persiani presero e saccheggiarono or questa, or quella
città, fecero gran copia di prigioni; e quantunque d'essi ancora fosse
talvolta fatta strage, secondo le vicende giornaliere della guerra, pure
senza paragone fu il danno patito dalle armate e terre romane. Ed ecco
in succinto un'idea della lunghissima guerra di Costanzo coi Persiani,
guerra infelice per lui, perchè principe sprovveduto di coraggio e saper
militare, e perchè egli aveva ancora dei non lievi peccati che
meritavano poco l'assistenza di Dio per felicitarlo in questa vita.
Abbiamo da Teofane[74] che un fiero tremuoto diroccò in quest'anno la
maggior parte della città di Berito nella Fenicia, il che fu cagione che
molti di que' pagani ricorressero alla chiesa e chiedessero il
battesimo. Ma costoro dipoi, separatisi dai cristiani, fecero una
assemblea, dove praticavano le cerimonie imparate da essi, vivendo nel
rimanente da pagani.
NOTE:
[67] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.
[68] Athan., in Apolog.
[69] Liban., Orat. III.
[70] Julian., Orat. I et II.
[71] Liban., Orat. III.
[72] Hieron., in Chron.
[73] Ammianus. Socrates. Festus. Eutropius et alii.
[74] Theophan., in Chronogr.
Anno di CRISTO CCCL. Indizione VIII.
GIULIO papa 14.
COSTANZO imperadore 14.
_Consoli_
SERGIO e NIGRINIANO.
Ad Ermogene nella prefettura di Roma succedette nel dì 27 di
febbraio[75] _Tiberio Fabio Tiziano_. Funestissimi furono gli
avvenimenti e le rivoluzioni di quest'anno specialmente per la
sventurata morte di _Costanzo Augusto_. Truovavasi egli nelle Gallie, e
perchè regnava la pace fra tutti i popoli, il familiare suo divertimento
consisteva nella caccia, dietro alla quale era perduto: il che dicono
alcuni fatto per tenersi con questo esercizio sempre disposto per le
occorrenze e fatiche della guerra. Non badò egli che nel suo stesso seno
nudriva de' più fieri nemici. _Magno Magnenzio_ (così il miriamo
nominato nei marmi e nelle medaglie), capitano allora di una o due
compagnie delle guardie, prevalendosi della disattenzione del principe,
quegli fu[76] che nella città di Autun tramò una congiura contra la vita
di lui, con tirar nel suo partito Marcellino, presidente della camera
angustale, Cresto ed altri uffiziali della milizia. Venuto il dì
destinato a fare scoppiar la mina, cioè il dì 18 di gennaio, come s'ha
da Idazio e dalla Cronica Alessandrina, Marcellino (se pur non fu lo
stesso Magnenzio), col pretesto di solennizzare il giorno natalizio di
un suo figliuolo, invitò l'uffizialità ad un lauto convito, e
massimamente Magnenzio. Dopo aver costoro ben rallegrato il cuore, e
fatto durare il banchetto sino ad una parte della notte, _Magnenzio_
alzatosi, e ritiratosi in una camera, quivi si vestì della porpora
imperiale, e poi tornò a farsi vedere in quell'abito ai convitati. Una
parte d'essi già congiurata l'acclamò _Augusto_; gli altri per le parole
e promesse dell'usurpatore si lasciarono anche essi condurre a
riconoscerlo tale. Presa poi la cassa del principe, coll'impiego di quel
danaro seppe Magnenzio guadagnar le milizie quivi acquartierate e il
popolo di Autun, e qualche cavalleria venuta di fresco dall'Illirico.
Proclamato che fu imperadore l'indegno Magnenzio, non differì punto
d'inviar gente per levar la vita all'Augusto Costante, con far anche
tener serrate le porte della città, affinchè niuno uscendo gli recasse
l'avviso della nata ribellione, e lasciando solamente l'adito a chi
voleva entrarvi. Secondo Zonara, fu ucciso il misero Costante verso il
fiume Rodano, dove, ritrovato a dormire stanco per le fatiche della
caccia, da questo passò ad un più lungo sonno. Ma convengono i più
antichi storici[77] in dire ch'egli, non ostante la precauzion presa dal
tiranno, fu immediatamente avvertito della succeduta novità; e però,
deposti gli abiti e le insegne imperiali, fuggì con isperanza di
salvarsi in Ispagna. Ma avendogli tenuto dietro Gaisone con alquanti
cavalieri scelti per ordine di Magnenzio, il raggiunse ad Elena,
castello vicino ai monti Pirenei, a cui Costantino il Grande suo padre
avea dato questo nome in onor della madre, e quivi il trucidò. Presero
di qui motivo alcuni d'inventar una favola, narrata poi da Zonara[78]
come una verità, cioè che dagli strologhi fu predetto a Costantino suo
padre che questo figliuolo morrebbe in seno dell'avola, cioè di
sant'Elena. Morta ella prima di Costante, fu derisa la predizione
suddetta, che poi in altra maniera si verificò, con essere egli stato
svenato nel suddetto castello in età di soli trent'anni.
Come è il costume, dopo la morte di questo sventurato principe, chi ne
fece elogi, e chi mille iniquità raccontò o, per dir meglio, inventò
della sua persona. Si può ben credere che i partigiani di Magnenzio non
lasciarono via alcuna per iscreditar lui, e nello stesso tempo scusare,
se era possibile, la rivolta detestabile del tiranno. E perchè egli fu
principe zelante della religione cristiana, non è da stupire se gli
scrittori pagani[79], cioè Eutropio, Aurelio Vittore e il velenoso
Zosimo, l'infamarono a tutto potere, attribuendogli gran copia di vizii.
E Zonara poi, prestando fede a Zosimo, denigrò anch'egli non poco la di
lui memoria. Sopra gli altri esso Zosimo il descrive per un cane verso
de' suoi sudditi, trattandoli con inaudita crudeltà, ed aggravandoli con
eccessive imposte, e tenendo al suo servigio dei Barbari, ai quali
permetteva l'usare ogni sorta di violenza. Il tacciano ancora d'una
sfrenata libidine, e fin della più abbominevole, di una sordida
avarizia, e di avere sprezzato le persone militari. Sopra tutto dicono
ch'egli sommamente pregiudicò a sè stesso colla cattiva scelta dei
governatori delle provincie, vendendo le cariche, e che specialmente i
perversi suoi ministri gli tirarono addosso l'odio di ognuno; di modo
che divenne insopportabile il suo governo. Può darsi che parte di tanti
vizii non fosse sognata, ma più verisimilmente ancora si dee credere che
con alcune verità sieno mescolate molte calunnie. Certamente gli autori
cristiani[80] parlano con lode di questo principe, gran difensore della
religione cattolica contro gli ariani e donatisti, propagatore del
Cristianesimo, e che non cessava di esercitar la sua liberalità verso i
sacri templi. Confessano gli stessi pagani[81] che gran pruove diede
egli del suo valore in varie congiunture, e che era assai temuto dai
popoli della Germania. Libanio[82] poi, nell'orazione recitata nell'anno
precedente, di lui vivente fa un bell'elogio, rappresentandolo come
principe attivo, vigilante, sobrio, e nemico, non solamente degli
eccessi del vino e delle femmine, ma anche dei teatri e d'altri simili
divertimenti. Pare, in somma, che buona parte de' disordini nascesse non
da lui, perchè la poca sanità sua, per essere gottoso di mani e di
piedi, non gli permetteva di far molto, ma bensì da' suoi cattivi
ministri. Comunque sia, non dovettero mancar dei reati di Costante nel
tribunale di Dio; e grande soprattutto ne sarebbe stato uno, se fosse
vero, cioè che ingiustamente e a tradimento egli avesse procurata la
morte del suo maggior fratello Costantino: del che parlammo di sopra.
Non si sa ch'egli lasciasse dopo di sè figliuoli. E nè pur ebbe moglie.
Avea ben egli contratti gli sponsali con Olimpiade figliuola di Ablavio,
primo ministro di suo padre, ma di tenera età, e per la di lui morte
violenta non si effettuarono le nozze. Questa giovinetta fu poi data da
Costanzo in moglie ad Arsace re dell'Armenia, che se ne compiacque
assaissimo, come di un insigne favore, siccome attesta Ammiano[83]. Ma a
sant'Atanasio[84] parve uno strano mancamento di rispetto al fratello
l'aver Costanzo Augusto maritata con un Barbaro chi era stata
considerata qual moglie dell'imperador Costante.
Restò dunque l'usurpatore _Magnenzio_ padrone delle Gallie, alle quali
tennero dietro le Spagne e la Bretagna; ed essendosi egli affrettato a
spedir truppe, regali e larghe promesse in Italia[85], trasse ancor
queste provincie colla Sicilia e coll'altre isole, ed anche l'Africa
alla sua divozione. Ch'egli, dopo aver ucciso Costante, scrivesse a nome
di lui varie lettere agli uffiziali lontani, che o per lo merito loro, o
per l'amore a Costanzo potessero disapprovar l'assunzione suo al trono,
e che per istrada li facesse uccidere, lo scrive Zonara[86], ma con poca
verisimiglianza. Certo è bensì che Magnenzio, considerando il bisogno
ch'egli aveva di buone braccia per sostenersi nell'usurpata signoria,
conferì dipoi, cioè nell'anno seguente, il titolo di _Cesare_ a
_Decenzio_, che, secondo il giovane Vittore[87], era suo parente, o pure
suo fratello, come vuol l'altro Vittore[88] ed Eutropio[89]. Questi si
trova nelle monete[90] appellato _Magno Decenzio_. Similmente diede
dipoi il nome di _Cesare_ a _Desiderio_ suo fratello, di cui si trova
ancora qualche medaglia, se di legittimo conio, non so. Era
Magnenzio[91] originario dalla Germania, nato da Magno, uno forse di
coloro che furono trasportati da' paesi germanici ad abitar nelle
Gallie. Però Aurelio Vittore[92] il fa nato nelle medesime Gallie. Ma
Giuliano Apostata chiaramente scrive che costui fu condotto prigioniero
dalla Germania nelle Gallie a' tempi di Costantino il Grande, ed,
ottenuta la libertà, si diede alla milizia, dove fece di molte prodezze.
Alto di statura, robusto di corpo, avea studiato lettere, e si dilettava
molto di leggere, nè gli mancava eloquenza e forza nel discorso. Secondo
Zonara[93], egli comandava allora ad alcune milizie appellate Gioviane
ed Erculie, che si suppongono guardie del corpo formate da Diocleziano e
Massimiano Augusti. Filostorgio[94] pretende ch'egli fosse pagano; ma le
medaglie cel rappresentano cristiano, forse di solo nome, e di coloro,
senza fallo, ne' quali l'ambizione sconciamente prevale alla religione.
Chiunque degli antichi[95] parla de' costumi di lui, cel dipinge per
uomo d'insopportabil avarizia e crudeltà, e che tutte le sue azioni
spiravano quella barbarie e salvatichezza ch'egli portò dalla nascita.
Fiero nelle prosperità, timido e vile nelle avversità, dotato
nondimeno[96] di tale accortezza, che sapea comparire un bravo allorchè
più tremava. Sant'Atanasio[97], il quale, per esperienza, sapeva qual
fosse il merito di costui, non ebbe difficoltà di scrivere che egli era
un empio verso Dio, spergiuro, infedele agli amici, amico degli stregoni
ed incantatori, e finalmente una bestia crudele, un diavolo. Non indegno
certamente di questi titoli comparve chi contra tutte le leggi della
religione e della natura aveva assassinato il proprio principe, e
toltogli imperio e vita. Dovette ben tentare Magnenzio ancora di
stendere le griffe alle provincie dell'Illirico, anch'esse in addietro
sottoposte al dominio dell'ucciso Costante; ma gli andò fallito il
colpo.
Trovavasi nella Pannonia generale della fanteria _Vetranione_[98], uomo
originario della Mesia superiore, invecchiato nel mestier della guerra,
cristiano di professione, come eziandio si deduce dalle medaglie[99].
All'udire Aurelio Vittore[100], questi era persona di brutal barbarie,
corrispondente alla vil sua nascita, che nè pur sapea leggere, che
pareva uno stolido, ed era in fine un pessimo uomo. Ben diversamente
parla di lui Giuliano l'Apostata[101], mostrando stima delle di lui
qualità; ed Eutropio[102] ne fa un elogio, con descriverlo vecchio,
fortunato nell'armi, che si faceva amare da tutti per la sua civiltà ed
umore allegro, per la sua probità e pel suo vivere all'antica, ancorchè
nulla avesse studiato, e cominciasse solamente in questi tempi ad
imparar di leggere e scrivere. Vetranione adunque, intesa ch'ebbe la
morte dell'Augusto Costante, e trovata sì bella occasione, si fece
acclamare _Augusto_ dalla sua armata, ed occupò tutte le dipendenze
dell'Illirico, cioè la Pannonia, le Mesie, la Grecia, la Macedonia ed
ogni altra parte di quelle contrade; e ciò nel primo giorno di marzo,
come s'ha dalla Cronica Alessandrina[103], e non già di maggio, come per
errore si legge nel testo d'Idazio[104]. Se abbiamo qui a prestar fede a
Filostorgio[105]; non di suo capriccio Vetranione prese la porpora, ma
per consiglio di _Costantina Augusta_, sorella di Costanzo Augusto e
vedova di Annibaliano, già re del Ponto, la quale, temendo che Magnenzio
non s'impadronisse anche dell'Illirico, con questo ripiego volle parare
il colpo. Aggiugne quello storico che si andò ancora di concerto con
esso Costanzo, e che egli mandò il diadema a Vetranione. Teofane[106]
del pari lasciò scritta la risoluzion suddetta di Costantina, per
opporre questo Augusto, creatura sua, al tiranno Magnenzio; e lo stesso
vien accennato da Giuliano[107]. Scrive inoltre Zonara[108] che
Vetranione mandò a chiedere soccorso di gente e danaro a Costanzo, da
cui, per testimonianza di Giuliano, venne fornito di tutto, giacchè
Vetranione protestava di voler tenere esso Costanzo per suo imperadore,
con far egli non altra figura che quella di suo luogotenente. Dal che
veniamo ad intendere, perchè, avendo anche Magnenzio inviato a lui dei
deputati per tirarlo nel suo partito, tuttavia Vetranione preferì sempre
l'alleanza di Costanzo, e si dichiarò contra del tiranno Magnenzio.
Vegniamo alla terza scena. Avea ben Roma accettato per suo signore il
suddetto Magnenzio; ma _Flavio Popilio Nepoziano_, già stato console
nell'anno 336, per essere figliuolo d'_Eutropia_ sorella del gran
Costantino, trovò d'avere dal canto suo più diritto al dominio di Roma,
che il barbaro traditore Magnenzio; e però[109], unita una gran frotta
di giovani scapestrati, ladri e gladiatori, e presa la porpora nel dì 3
di giugno, venne alla volta di Roma. Uscito con sue genti contra di lui
_Aniceto_, o sia _Anicio_, prefetto del pretorio di Magnenzio, tardò
poco a tornarsene indietro sconfitto, e fece serrar le porte di Roma.
Per forza, al dire d'Aurelio Vittore, Nepoziano v'entrò dipoi, e gran
sangue sparse, verisimilmente di chi sosteneva la fazion di Magnenzio.
Ma che? non passò un mese, che quel _Marcellino_, da cui si può dire che
Magnenzio avea in certa guisa ricevuto l'imperio, e che era divenuto
sopraintendente a tutta la di lui corte, spedito con grandi forze da
esso Magnenzio, venne ad affrontarsi coi Romani[110]. Abbiamo da san
Girolamo[111], che per tradimento di un Eraclida senatore rimasero
sconfitti i Romani, ed ucciso Nepoziano, la cui testa sopra una picca fu
dipoi portata per Roma. A questa vittoria tenne dietro un gran macello
di chiunque s'era dichiarato parziale di Nepoziano. Sfogò Marcellino
inoltre la rabbia sua contra di qualunque persona che avesse attinenza
per via di donne alla famiglia imperiale, e vi perì fra l'altre la
stessa _Eutropia_ madre di Nepoziano e zia dell'Augusto Costanzo. Anche
Temistio fa menzione[112] delle crudeltà usate da Magnenzio contra del
senato e popolo di Roma; queste nondimeno si veggono attribuite da
Giuliano[113] ai ministri di lui, cioè, per quanto si può credere, al
suddetto Marcellino. Santo Atanasio[114] parla anch'egli di tali
carnificine, siccome altresì nella sua Storia Socrate[115], con asserire
che molti senatori vi perderono la vita, e con supporre che Magnenzio in
persona venisse a Roma: del che non resta alcun altro segnale nelle
antiche storie. Abbiamo bensì da Giuliano[116] ch'egli fece morir molti
uffiziali della propria armata, ed obbligò con un eccesso di tirannia i
popoli a pagare al suo fisco la metà dei lor beni sotto pena della vita
(il che se non s'intende della metà delle rendite, io non so credere
vero e nè pur possibile). Diede anche licenza agli schiavi di denunciare
i lor padroni, e sforzò altri a comperar le terre del principato, con
altre iniquità che non sono espressamente dichiarate dagli scrittori
d'allora. E tutto per ammassar danaro e milizie, sotto pretesto di voler
muover guerra ai Barbari, ma in effetto per farla contra di Costanzo.
Mentre in queste rivoluzioni di cose si trovava involto l'Occidente, non
era meno in tempesta l'Oriente. Imperocchè in quest'anno, di nuovo
ritornò Sapore re della Persia[117] ad assediar Nisibi nella
Mesopotamia, dopo aver dato un gran guasto a que' paesi e presi ancora
varii castelli. Non oso io decidere se questo sia il secondo o pure il
terzo assedio di quella città, come fu d'avviso il Tillemont[118]; il
quale scrive che _Lucilliano_, suocero di Gioviano, che fu poi
imperadore, era comandante allora di Nisibi, e fece una maravigliosa
difesa. Zosimo[119], parlando d'esso Lucilliano, e della sua bravura in
difendere quella città, chiaramente riferisce quell'assedio, non al
presente anno, ma bensì all'anno 360, siccome allora vedremo. Può essere
che Zosimo s'ingannasse scambiando i tempi, come il Petavio
avvertì[120]. Quanto al presente, l'abbiamo descritto da Giuliano[121],
da Teodoreto[122], da Zonara[123] e da altri, i quali ci fan vedere i
mirabili sforzi de' Persiani per espugnar quella fortezza. Giacchè a
nulla servivano gli assalti, gli arieti e le mine, ricorse Sapore al
ripiego di levar l'acqua ai cittadini, con voltare altrove il fiume
Migdonio che passava per mezzo alla città. Ma pozzi e fontane non
mancarono al bisogno di quegli abitanti. Quindi si studiò Sapore
d'inondar con quel fiume la città; ma essendo alto il piano d'essa,
altro non fecero le acque che allagarla d'intorno. Se con delle macchine
poste sopra navi fu fatta guerra alle mura, vi si trovarono anche
valorosi difensori che vano renderono ogni sforzo nemico. L'ultima e più
formidabile pruova per vincere l'ostinata città, fu quella di trattener
l'acque del fiume alla maggior possibile altezza, e poi di lasciarle
precipitar addosso alle mura. In fatti ne restò abbattuta una parte, ed
allora i Persiani alzarono un grido, come se già si vedessero padroni di
Nisibi. Ma affacciatisi dipoi alla breccia per entrarvi, vi trovarono
una resistenza sì forte, che furono obbligati a ritirarsi, avendo anche
il cielo combattuto con pioggia e fulmini in favore de' difensori.
Concordano gli storici cristiani che l'assistenza e le preghiere del
santo vescovo della città suddetta, Jacopo, quelle furono che ottennero
da Dio la preservazione di Nisibi tanto ora, quanto ne' precedenti
assedii, sicchè non cadesse in man dei Persiani. Rifecero i Nisibini un
muro interiore, e contuttochè Sapore continuasse pertinacemente anche un
mese l'assedio, pure altro non ne riportò che la perdita d'assaissime
migliaia d'uomini e cavalli, e di moltissimi elefanti, per tal maniera
che scornato dopo quattro mesi si vide sforzato a levar il campo, e a
ritornarsene al suo paese, dove sfogò la sua rabbia contro molti de'
suoi uffiziali, imputando a lor difetto l'infelice riuscita di
quell'impresa, secondo l'uso dei tiranni d'Oriente, presso i quali ogni
perdita si attribuisce a colpa de' generali, e si punisce la sfortuna
come un grave delitto. Restò con ciò abbassata non poco la superbia e
fierezza del re persiano, nel cui regno entrati intanto i Massageti,
fecero vendetta anch'essi dei danni recati al paese cristiano.
Durante questo celebre assedio s'era trattenuto l'Augusto Costanzo in
Edessa e in Antiochia senza osare di comparir in campo contra
dell'innumerabil esercito de' Persiani; e poichè intese la loro
ritirata, tutto lieto rivolse più che mai i pensieri agli affari
dell'Occidente, non parendo probabile ch'egli partisse prima di
quell'assedio dalla Soria, come ha l'autore della Cronica
Alessandrina[124]. Aveva egli in questo tempo raunata quanta gente atta
all'armi egli potè raccogliere dai suoi Stati, ed allestita anche una
formidabil flotta di navi, che dall'adulatore Giuliano[125] vien
chiamata superiore a quella di Serse. L'intenzione sua era di procedere
con tutto queste forze contra del tiranno Magnenzio; ed affinchè i
nemici persiani non si prevalessero della sua lontananza, provvide tutte
le fortezze di frontiera di buone guarnigioni, di macchine e di viveri;
e poi si mosse dalla Soria alla volta di Costantinopoli. Aveva più d'una
volta Magnenzio spediti suoi deputati ad esso Costanzo, per trattare un
qualche accordo, affin di assicurare e legittimare l'usurpazion sua: e
di ciò parla anche sant'Atanasio[126]. Ma Costanzo, che si credeva avere
dalla sua Vetranione, divenuto imperadore dell'Illirico, e, per
conseguente, giudicava il suo partito superiore di forze a quello del
tiranno, niun ascolto avea dato finora a sì fatte proposizioni. Restò
egli dipoi ben sorpreso o stordito, allorchè gli giunse l'avviso che
Vetranione e Magnenzio aveano fatta pace fra loro. Più ancora crebbe
l'apprensione e l'affanno suo, quando arrivò ad Eraclea della
Tracia[127], perchè ivi se gli presentarono gli ambasciadori di amendue,
cioè _Rufino_ prefetto del pretorio, _Marcellino_ già da noi veduto il
braccio diritto di Magnenzio, e general delle sue armi, insieme con due
altri primarii uffiziali, cioè Nuneco e Massimo. Esposero costoro che
Magnenzio e Vetranione erano pronti a riconoscere Costanzo per Augusto
primario, purchè egli volesse lasciar loro godere il medesimo titolo,
cercando di persuaderglielo con ricordare gl'incerti avvenimenti delle
guerre. Magnenzio inoltre, per assodar meglio l'amicizia, proponeva di
torre per moglie Costanza, o pur Costantina, sorella del medesimo
Costanzo, esibendo nello stesso tempo a Costanzo una sua figliuola per
moglie: segno che egli era vedovo allora. Trovossi ben imbrogliato
Costanzo, nè sapea qual risoluzion prendere, se non che Zonara[128]
scrive essergli apparuto in sogno Costantino suo padre, che presentargli
Costante, gli ordinò di vendicarne la morte, e gli promise la vittoria.
Vera o falsa che sia tal diceria, certo è intanto che Costanzo rigettò
ogni proposizion di Magnenzio; ma forse trattò più dolcemente con quei
di Vetranione.
Quindi coraggiosamente marciò innanzi, ed arrivò sino a Serdica,
capitale della Dacia novella[129]. Turbossi veramente Vetranione
all'improvvisa venuta di Costanzo: ma non lasciò di andare ad
incontrarlo con un corpo vigoroso d'armata, maggiore ancora di quella di
Costanzo: il che si crede che inducesse Costanzo a trattar
amichevolmente con lui, e dopo avergli confermato il titolo d'Augusto,
ed unite le sue colle di lui milizie, si diede a trattar seco delle
pochi Romani restati in quel conflitto. Libanio[63] slarga un po' più la
bocca. Per lo contrario, Ammiano Marcellino[64], anch'egli vivente
allora, e che volea poco bene a Costanzo, scrive che grande strage fu
ivi fatta delle soldatesche romane: il che si può anche dedurre da Rufo
Festo. Altro non dice Eutropio[65], se non che i Romani per loro
caparbietà si lasciarono togliere di mano una sicura vittoria; e le di
lui parole furono copiate da san Girolamo[66]. Tutti poi gli storici van
d'accordo in dire che il re Sapore prese la fuga; nè mai si credette in
salvo, finchè non ebbe passato il fiume Tigri. Giuliano pretende che
anche prima della zuffa quel valoroso re, al solo mirar da lungi la
poderosa armata de' Romani, battesse la ritirata, e lasciasse il comando
al figliuolo, che poi miseramente morì. Del pari è certo che non
tardarono i Persiani a levar il campo nel giorno seguente, e a ritirarsi
precipitosamente di là dal Tigri, con rompere tosto i ponti per paura di
essere inseguiti dai creduti vincitori Romani. Sicchè, se essi Romani
non poterono cantar la vittoria, nè pure i loro nemici ebbero campo di
attribuirla a sè stessi. E san Girolamo nota che di nove battaglie
succedute durante la guerra suddetta coi Persiani, questa fu la più
riguardevole e sanguinosa; ed essa almen per allora fece svanire i
boriosi disegni del re nemico, il quale, senza aver presa città o
fortezza alcuna, malconcio si ridusse al suo paese.
NOTE:
[50] Hieron., in Chronico.
[51] Aurel. Vict., de Caesarib.
[52] Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 28. Socrat., Histor., lib. 2, cap.
21.
[53] Athan., in Apolog.
[54] Hieron., in Chron.
[55] Idacius, in Fastis.
[56] Julian., Orat. I.
[57] Liban., Orat. III.
[58] Gothofr., Chron. Cod. Theodos.
[59] Liban., Orat. III.
[60] Rufus Festus, in Breviar.
[61] Idem, ibidem.
[62] Julian., Orat. I.
[63] Liban., Orat. III.
[64] Ammianus, lib. 18, cap. 5.
[65] Eutrop., in Brev.
[66] Hieron., in Chron.
Anno di CRISTO CCCXLIX. Indizione VII.
GIULIO papa 13.
COSTANZO e
COSTANTE imperadori 13.
_Consoli_
ULPIO LIMENIO e ACONE ossia ACONIO CATULINO FILOMAZIO o FILONIANO.
Dal Catalogo de' prefetti di Roma, pubblicato dal Cuspiniano e dal
Bucherio[67], abbiamo che il console _Limenio_ seguitò ad essere
prefetto di Roma e prefetto del pretorio sino al dì 8 di aprile.
Restarono vacanti queste due dignità, senza che se ne sappia il perchè,
sino al dì 18 di maggio, in cui tutte e due furono conferite ad
_Ermogene_. Dall'Apologia di sant'Atanasio[68] si può ricavare che
Costante Augusto ne' primi mesi di quest'anno soggiornasse nelle Gallie;
perchè il santo vescovo, chiamato da lui, si portò colà prima di passare
ad Alessandria, giacchè finalmente di consenso dell'imperadore Costanzo
egli ricuperò in quest'anno la sedia sua. Truovasi poi Costante in
Sirmio della Pannonia nel dì 27 di maggio, ciò apparendo da una sua
legge. Libanio[69] anche egli attesta che questo principe nell'anno
presente visitò le città d'essa Pannonia. Quanto all'Augusto Costanzo,
apprendiamo dalle leggi del Codice Teodosiano ch'egli nel principio
d'aprile soggiornava in Antiochia, e da Emesa scrisse a sant'Atanasio
per sollecitarlo a tornarsene in Oriente. Alcune leggi da lui date in
quest'anno ci fan conoscere la premura di lui per reclutar le milizie
sue, e per ben disciplinarle. Imperciocchè i Persiani, con tutte le
percosse patite nell'anno precedente, non rallentavano punto le
disposizioni per seguitar le guerra, divenuta oramai una perniciosa
cancrena de' Romani in quelle parti; imperciocchè anno non passò,
durante il regno di Costanzo, in cui egli fosse esente dalle minaccie ed
incursioni di quella nemica e potente nazione, ora con vantaggio, ed ora
con isvantaggio delle sue genti. Intorno a che convien osservare due
diverse figure che fecero i due pagani Giuliano Apostata[70] e
Libanio[71]. Finchè visse Costanzo, l'eloquenza loro trovò dei luoghi
topici per esaltare il di lui valore e la sua condotta in fare e
sostenere quella guerra. Ma da che egli compiè la carriera de' suoi
giorni, amendue se ne fecero beffe, e formarono di lui un ben diverso
ritratto. All'udir questi due adulatori, Costanzo più volte gittò dei
ponti sul fiume Tigri, e passò anche sulle terre nemiche, tal terrore
spargendo ne' Persiani, che non osavano di lasciarsi vedere per
difendersi dai saccheggi. Passava egli il verno in Antiochia, e nella
state era in campagna contro i nemici, i quali si stimavano felici se
potevano fuggire e nascondersi dal valore di questo augusto eroe. Che se
riuscì talvolta a coloro di riportar qualche vantaggio sopra i Romani,
fu solamente per mezzo d'imboscate, e col mancare alle tregue. Passato
poi all'altra vita esso Costanzo, mutò linguaggio il sofista Libanio,
con dire che a lui non mancavano già buone milizie per vincere i
Persiani, ma bensì un cuore di principe e una testa di capitano. Alla
primavera comparivano i nemici per assediar qualche fortezza, e Costanzo
aspettava la state per uscire in campagna; ed usciva, non già per andar
contra di loro con tutto il suo magnifico apparato, ma per fuggir con
diligenza, informandosi studiosamente a tal fine de' lor movimenti per
ischivarli; di maniera che terminava ordinariamente la campagna in
tornarsene i Persiani alle lor case pieni di spoglie dei miseri abitanti
della Mesopotamia: dopo di che Costanzo si lasciava vedere per le città
e luoghi saccheggiati, quasichè la venuta sua avesse messo lo spavento
in cuore ai nemici, e fattili ritirare. In somma ci rappresentano
Costanzo per un vile coniglio; e pur troppo, se si ha da parlare
schietto, contuttochè, siccome abbiam veduto, san Girolamo[72] parli di
nove combattimenti seguiti in tutto il corso di questa guerra fra i
Romani e i Persiani; pure ogni storico[73] in fine confessa che l'armi
di Costanzo non cantarono mai vittoria alcuna, anzi ebbero sempre delle
busse; e che i Persiani presero e saccheggiarono or questa, or quella
città, fecero gran copia di prigioni; e quantunque d'essi ancora fosse
talvolta fatta strage, secondo le vicende giornaliere della guerra, pure
senza paragone fu il danno patito dalle armate e terre romane. Ed ecco
in succinto un'idea della lunghissima guerra di Costanzo coi Persiani,
guerra infelice per lui, perchè principe sprovveduto di coraggio e saper
militare, e perchè egli aveva ancora dei non lievi peccati che
meritavano poco l'assistenza di Dio per felicitarlo in questa vita.
Abbiamo da Teofane[74] che un fiero tremuoto diroccò in quest'anno la
maggior parte della città di Berito nella Fenicia, il che fu cagione che
molti di que' pagani ricorressero alla chiesa e chiedessero il
battesimo. Ma costoro dipoi, separatisi dai cristiani, fecero una
assemblea, dove praticavano le cerimonie imparate da essi, vivendo nel
rimanente da pagani.
NOTE:
[67] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.
[68] Athan., in Apolog.
[69] Liban., Orat. III.
[70] Julian., Orat. I et II.
[71] Liban., Orat. III.
[72] Hieron., in Chron.
[73] Ammianus. Socrates. Festus. Eutropius et alii.
[74] Theophan., in Chronogr.
Anno di CRISTO CCCL. Indizione VIII.
GIULIO papa 14.
COSTANZO imperadore 14.
_Consoli_
SERGIO e NIGRINIANO.
Ad Ermogene nella prefettura di Roma succedette nel dì 27 di
febbraio[75] _Tiberio Fabio Tiziano_. Funestissimi furono gli
avvenimenti e le rivoluzioni di quest'anno specialmente per la
sventurata morte di _Costanzo Augusto_. Truovavasi egli nelle Gallie, e
perchè regnava la pace fra tutti i popoli, il familiare suo divertimento
consisteva nella caccia, dietro alla quale era perduto: il che dicono
alcuni fatto per tenersi con questo esercizio sempre disposto per le
occorrenze e fatiche della guerra. Non badò egli che nel suo stesso seno
nudriva de' più fieri nemici. _Magno Magnenzio_ (così il miriamo
nominato nei marmi e nelle medaglie), capitano allora di una o due
compagnie delle guardie, prevalendosi della disattenzione del principe,
quegli fu[76] che nella città di Autun tramò una congiura contra la vita
di lui, con tirar nel suo partito Marcellino, presidente della camera
angustale, Cresto ed altri uffiziali della milizia. Venuto il dì
destinato a fare scoppiar la mina, cioè il dì 18 di gennaio, come s'ha
da Idazio e dalla Cronica Alessandrina, Marcellino (se pur non fu lo
stesso Magnenzio), col pretesto di solennizzare il giorno natalizio di
un suo figliuolo, invitò l'uffizialità ad un lauto convito, e
massimamente Magnenzio. Dopo aver costoro ben rallegrato il cuore, e
fatto durare il banchetto sino ad una parte della notte, _Magnenzio_
alzatosi, e ritiratosi in una camera, quivi si vestì della porpora
imperiale, e poi tornò a farsi vedere in quell'abito ai convitati. Una
parte d'essi già congiurata l'acclamò _Augusto_; gli altri per le parole
e promesse dell'usurpatore si lasciarono anche essi condurre a
riconoscerlo tale. Presa poi la cassa del principe, coll'impiego di quel
danaro seppe Magnenzio guadagnar le milizie quivi acquartierate e il
popolo di Autun, e qualche cavalleria venuta di fresco dall'Illirico.
Proclamato che fu imperadore l'indegno Magnenzio, non differì punto
d'inviar gente per levar la vita all'Augusto Costante, con far anche
tener serrate le porte della città, affinchè niuno uscendo gli recasse
l'avviso della nata ribellione, e lasciando solamente l'adito a chi
voleva entrarvi. Secondo Zonara, fu ucciso il misero Costante verso il
fiume Rodano, dove, ritrovato a dormire stanco per le fatiche della
caccia, da questo passò ad un più lungo sonno. Ma convengono i più
antichi storici[77] in dire ch'egli, non ostante la precauzion presa dal
tiranno, fu immediatamente avvertito della succeduta novità; e però,
deposti gli abiti e le insegne imperiali, fuggì con isperanza di
salvarsi in Ispagna. Ma avendogli tenuto dietro Gaisone con alquanti
cavalieri scelti per ordine di Magnenzio, il raggiunse ad Elena,
castello vicino ai monti Pirenei, a cui Costantino il Grande suo padre
avea dato questo nome in onor della madre, e quivi il trucidò. Presero
di qui motivo alcuni d'inventar una favola, narrata poi da Zonara[78]
come una verità, cioè che dagli strologhi fu predetto a Costantino suo
padre che questo figliuolo morrebbe in seno dell'avola, cioè di
sant'Elena. Morta ella prima di Costante, fu derisa la predizione
suddetta, che poi in altra maniera si verificò, con essere egli stato
svenato nel suddetto castello in età di soli trent'anni.
Come è il costume, dopo la morte di questo sventurato principe, chi ne
fece elogi, e chi mille iniquità raccontò o, per dir meglio, inventò
della sua persona. Si può ben credere che i partigiani di Magnenzio non
lasciarono via alcuna per iscreditar lui, e nello stesso tempo scusare,
se era possibile, la rivolta detestabile del tiranno. E perchè egli fu
principe zelante della religione cristiana, non è da stupire se gli
scrittori pagani[79], cioè Eutropio, Aurelio Vittore e il velenoso
Zosimo, l'infamarono a tutto potere, attribuendogli gran copia di vizii.
E Zonara poi, prestando fede a Zosimo, denigrò anch'egli non poco la di
lui memoria. Sopra gli altri esso Zosimo il descrive per un cane verso
de' suoi sudditi, trattandoli con inaudita crudeltà, ed aggravandoli con
eccessive imposte, e tenendo al suo servigio dei Barbari, ai quali
permetteva l'usare ogni sorta di violenza. Il tacciano ancora d'una
sfrenata libidine, e fin della più abbominevole, di una sordida
avarizia, e di avere sprezzato le persone militari. Sopra tutto dicono
ch'egli sommamente pregiudicò a sè stesso colla cattiva scelta dei
governatori delle provincie, vendendo le cariche, e che specialmente i
perversi suoi ministri gli tirarono addosso l'odio di ognuno; di modo
che divenne insopportabile il suo governo. Può darsi che parte di tanti
vizii non fosse sognata, ma più verisimilmente ancora si dee credere che
con alcune verità sieno mescolate molte calunnie. Certamente gli autori
cristiani[80] parlano con lode di questo principe, gran difensore della
religione cattolica contro gli ariani e donatisti, propagatore del
Cristianesimo, e che non cessava di esercitar la sua liberalità verso i
sacri templi. Confessano gli stessi pagani[81] che gran pruove diede
egli del suo valore in varie congiunture, e che era assai temuto dai
popoli della Germania. Libanio[82] poi, nell'orazione recitata nell'anno
precedente, di lui vivente fa un bell'elogio, rappresentandolo come
principe attivo, vigilante, sobrio, e nemico, non solamente degli
eccessi del vino e delle femmine, ma anche dei teatri e d'altri simili
divertimenti. Pare, in somma, che buona parte de' disordini nascesse non
da lui, perchè la poca sanità sua, per essere gottoso di mani e di
piedi, non gli permetteva di far molto, ma bensì da' suoi cattivi
ministri. Comunque sia, non dovettero mancar dei reati di Costante nel
tribunale di Dio; e grande soprattutto ne sarebbe stato uno, se fosse
vero, cioè che ingiustamente e a tradimento egli avesse procurata la
morte del suo maggior fratello Costantino: del che parlammo di sopra.
Non si sa ch'egli lasciasse dopo di sè figliuoli. E nè pur ebbe moglie.
Avea ben egli contratti gli sponsali con Olimpiade figliuola di Ablavio,
primo ministro di suo padre, ma di tenera età, e per la di lui morte
violenta non si effettuarono le nozze. Questa giovinetta fu poi data da
Costanzo in moglie ad Arsace re dell'Armenia, che se ne compiacque
assaissimo, come di un insigne favore, siccome attesta Ammiano[83]. Ma a
sant'Atanasio[84] parve uno strano mancamento di rispetto al fratello
l'aver Costanzo Augusto maritata con un Barbaro chi era stata
considerata qual moglie dell'imperador Costante.
Restò dunque l'usurpatore _Magnenzio_ padrone delle Gallie, alle quali
tennero dietro le Spagne e la Bretagna; ed essendosi egli affrettato a
spedir truppe, regali e larghe promesse in Italia[85], trasse ancor
queste provincie colla Sicilia e coll'altre isole, ed anche l'Africa
alla sua divozione. Ch'egli, dopo aver ucciso Costante, scrivesse a nome
di lui varie lettere agli uffiziali lontani, che o per lo merito loro, o
per l'amore a Costanzo potessero disapprovar l'assunzione suo al trono,
e che per istrada li facesse uccidere, lo scrive Zonara[86], ma con poca
verisimiglianza. Certo è bensì che Magnenzio, considerando il bisogno
ch'egli aveva di buone braccia per sostenersi nell'usurpata signoria,
conferì dipoi, cioè nell'anno seguente, il titolo di _Cesare_ a
_Decenzio_, che, secondo il giovane Vittore[87], era suo parente, o pure
suo fratello, come vuol l'altro Vittore[88] ed Eutropio[89]. Questi si
trova nelle monete[90] appellato _Magno Decenzio_. Similmente diede
dipoi il nome di _Cesare_ a _Desiderio_ suo fratello, di cui si trova
ancora qualche medaglia, se di legittimo conio, non so. Era
Magnenzio[91] originario dalla Germania, nato da Magno, uno forse di
coloro che furono trasportati da' paesi germanici ad abitar nelle
Gallie. Però Aurelio Vittore[92] il fa nato nelle medesime Gallie. Ma
Giuliano Apostata chiaramente scrive che costui fu condotto prigioniero
dalla Germania nelle Gallie a' tempi di Costantino il Grande, ed,
ottenuta la libertà, si diede alla milizia, dove fece di molte prodezze.
Alto di statura, robusto di corpo, avea studiato lettere, e si dilettava
molto di leggere, nè gli mancava eloquenza e forza nel discorso. Secondo
Zonara[93], egli comandava allora ad alcune milizie appellate Gioviane
ed Erculie, che si suppongono guardie del corpo formate da Diocleziano e
Massimiano Augusti. Filostorgio[94] pretende ch'egli fosse pagano; ma le
medaglie cel rappresentano cristiano, forse di solo nome, e di coloro,
senza fallo, ne' quali l'ambizione sconciamente prevale alla religione.
Chiunque degli antichi[95] parla de' costumi di lui, cel dipinge per
uomo d'insopportabil avarizia e crudeltà, e che tutte le sue azioni
spiravano quella barbarie e salvatichezza ch'egli portò dalla nascita.
Fiero nelle prosperità, timido e vile nelle avversità, dotato
nondimeno[96] di tale accortezza, che sapea comparire un bravo allorchè
più tremava. Sant'Atanasio[97], il quale, per esperienza, sapeva qual
fosse il merito di costui, non ebbe difficoltà di scrivere che egli era
un empio verso Dio, spergiuro, infedele agli amici, amico degli stregoni
ed incantatori, e finalmente una bestia crudele, un diavolo. Non indegno
certamente di questi titoli comparve chi contra tutte le leggi della
religione e della natura aveva assassinato il proprio principe, e
toltogli imperio e vita. Dovette ben tentare Magnenzio ancora di
stendere le griffe alle provincie dell'Illirico, anch'esse in addietro
sottoposte al dominio dell'ucciso Costante; ma gli andò fallito il
colpo.
Trovavasi nella Pannonia generale della fanteria _Vetranione_[98], uomo
originario della Mesia superiore, invecchiato nel mestier della guerra,
cristiano di professione, come eziandio si deduce dalle medaglie[99].
All'udire Aurelio Vittore[100], questi era persona di brutal barbarie,
corrispondente alla vil sua nascita, che nè pur sapea leggere, che
pareva uno stolido, ed era in fine un pessimo uomo. Ben diversamente
parla di lui Giuliano l'Apostata[101], mostrando stima delle di lui
qualità; ed Eutropio[102] ne fa un elogio, con descriverlo vecchio,
fortunato nell'armi, che si faceva amare da tutti per la sua civiltà ed
umore allegro, per la sua probità e pel suo vivere all'antica, ancorchè
nulla avesse studiato, e cominciasse solamente in questi tempi ad
imparar di leggere e scrivere. Vetranione adunque, intesa ch'ebbe la
morte dell'Augusto Costante, e trovata sì bella occasione, si fece
acclamare _Augusto_ dalla sua armata, ed occupò tutte le dipendenze
dell'Illirico, cioè la Pannonia, le Mesie, la Grecia, la Macedonia ed
ogni altra parte di quelle contrade; e ciò nel primo giorno di marzo,
come s'ha dalla Cronica Alessandrina[103], e non già di maggio, come per
errore si legge nel testo d'Idazio[104]. Se abbiamo qui a prestar fede a
Filostorgio[105]; non di suo capriccio Vetranione prese la porpora, ma
per consiglio di _Costantina Augusta_, sorella di Costanzo Augusto e
vedova di Annibaliano, già re del Ponto, la quale, temendo che Magnenzio
non s'impadronisse anche dell'Illirico, con questo ripiego volle parare
il colpo. Aggiugne quello storico che si andò ancora di concerto con
esso Costanzo, e che egli mandò il diadema a Vetranione. Teofane[106]
del pari lasciò scritta la risoluzion suddetta di Costantina, per
opporre questo Augusto, creatura sua, al tiranno Magnenzio; e lo stesso
vien accennato da Giuliano[107]. Scrive inoltre Zonara[108] che
Vetranione mandò a chiedere soccorso di gente e danaro a Costanzo, da
cui, per testimonianza di Giuliano, venne fornito di tutto, giacchè
Vetranione protestava di voler tenere esso Costanzo per suo imperadore,
con far egli non altra figura che quella di suo luogotenente. Dal che
veniamo ad intendere, perchè, avendo anche Magnenzio inviato a lui dei
deputati per tirarlo nel suo partito, tuttavia Vetranione preferì sempre
l'alleanza di Costanzo, e si dichiarò contra del tiranno Magnenzio.
Vegniamo alla terza scena. Avea ben Roma accettato per suo signore il
suddetto Magnenzio; ma _Flavio Popilio Nepoziano_, già stato console
nell'anno 336, per essere figliuolo d'_Eutropia_ sorella del gran
Costantino, trovò d'avere dal canto suo più diritto al dominio di Roma,
che il barbaro traditore Magnenzio; e però[109], unita una gran frotta
di giovani scapestrati, ladri e gladiatori, e presa la porpora nel dì 3
di giugno, venne alla volta di Roma. Uscito con sue genti contra di lui
_Aniceto_, o sia _Anicio_, prefetto del pretorio di Magnenzio, tardò
poco a tornarsene indietro sconfitto, e fece serrar le porte di Roma.
Per forza, al dire d'Aurelio Vittore, Nepoziano v'entrò dipoi, e gran
sangue sparse, verisimilmente di chi sosteneva la fazion di Magnenzio.
Ma che? non passò un mese, che quel _Marcellino_, da cui si può dire che
Magnenzio avea in certa guisa ricevuto l'imperio, e che era divenuto
sopraintendente a tutta la di lui corte, spedito con grandi forze da
esso Magnenzio, venne ad affrontarsi coi Romani[110]. Abbiamo da san
Girolamo[111], che per tradimento di un Eraclida senatore rimasero
sconfitti i Romani, ed ucciso Nepoziano, la cui testa sopra una picca fu
dipoi portata per Roma. A questa vittoria tenne dietro un gran macello
di chiunque s'era dichiarato parziale di Nepoziano. Sfogò Marcellino
inoltre la rabbia sua contra di qualunque persona che avesse attinenza
per via di donne alla famiglia imperiale, e vi perì fra l'altre la
stessa _Eutropia_ madre di Nepoziano e zia dell'Augusto Costanzo. Anche
Temistio fa menzione[112] delle crudeltà usate da Magnenzio contra del
senato e popolo di Roma; queste nondimeno si veggono attribuite da
Giuliano[113] ai ministri di lui, cioè, per quanto si può credere, al
suddetto Marcellino. Santo Atanasio[114] parla anch'egli di tali
carnificine, siccome altresì nella sua Storia Socrate[115], con asserire
che molti senatori vi perderono la vita, e con supporre che Magnenzio in
persona venisse a Roma: del che non resta alcun altro segnale nelle
antiche storie. Abbiamo bensì da Giuliano[116] ch'egli fece morir molti
uffiziali della propria armata, ed obbligò con un eccesso di tirannia i
popoli a pagare al suo fisco la metà dei lor beni sotto pena della vita
(il che se non s'intende della metà delle rendite, io non so credere
vero e nè pur possibile). Diede anche licenza agli schiavi di denunciare
i lor padroni, e sforzò altri a comperar le terre del principato, con
altre iniquità che non sono espressamente dichiarate dagli scrittori
d'allora. E tutto per ammassar danaro e milizie, sotto pretesto di voler
muover guerra ai Barbari, ma in effetto per farla contra di Costanzo.
Mentre in queste rivoluzioni di cose si trovava involto l'Occidente, non
era meno in tempesta l'Oriente. Imperocchè in quest'anno, di nuovo
ritornò Sapore re della Persia[117] ad assediar Nisibi nella
Mesopotamia, dopo aver dato un gran guasto a que' paesi e presi ancora
varii castelli. Non oso io decidere se questo sia il secondo o pure il
terzo assedio di quella città, come fu d'avviso il Tillemont[118]; il
quale scrive che _Lucilliano_, suocero di Gioviano, che fu poi
imperadore, era comandante allora di Nisibi, e fece una maravigliosa
difesa. Zosimo[119], parlando d'esso Lucilliano, e della sua bravura in
difendere quella città, chiaramente riferisce quell'assedio, non al
presente anno, ma bensì all'anno 360, siccome allora vedremo. Può essere
che Zosimo s'ingannasse scambiando i tempi, come il Petavio
avvertì[120]. Quanto al presente, l'abbiamo descritto da Giuliano[121],
da Teodoreto[122], da Zonara[123] e da altri, i quali ci fan vedere i
mirabili sforzi de' Persiani per espugnar quella fortezza. Giacchè a
nulla servivano gli assalti, gli arieti e le mine, ricorse Sapore al
ripiego di levar l'acqua ai cittadini, con voltare altrove il fiume
Migdonio che passava per mezzo alla città. Ma pozzi e fontane non
mancarono al bisogno di quegli abitanti. Quindi si studiò Sapore
d'inondar con quel fiume la città; ma essendo alto il piano d'essa,
altro non fecero le acque che allagarla d'intorno. Se con delle macchine
poste sopra navi fu fatta guerra alle mura, vi si trovarono anche
valorosi difensori che vano renderono ogni sforzo nemico. L'ultima e più
formidabile pruova per vincere l'ostinata città, fu quella di trattener
l'acque del fiume alla maggior possibile altezza, e poi di lasciarle
precipitar addosso alle mura. In fatti ne restò abbattuta una parte, ed
allora i Persiani alzarono un grido, come se già si vedessero padroni di
Nisibi. Ma affacciatisi dipoi alla breccia per entrarvi, vi trovarono
una resistenza sì forte, che furono obbligati a ritirarsi, avendo anche
il cielo combattuto con pioggia e fulmini in favore de' difensori.
Concordano gli storici cristiani che l'assistenza e le preghiere del
santo vescovo della città suddetta, Jacopo, quelle furono che ottennero
da Dio la preservazione di Nisibi tanto ora, quanto ne' precedenti
assedii, sicchè non cadesse in man dei Persiani. Rifecero i Nisibini un
muro interiore, e contuttochè Sapore continuasse pertinacemente anche un
mese l'assedio, pure altro non ne riportò che la perdita d'assaissime
migliaia d'uomini e cavalli, e di moltissimi elefanti, per tal maniera
che scornato dopo quattro mesi si vide sforzato a levar il campo, e a
ritornarsene al suo paese, dove sfogò la sua rabbia contro molti de'
suoi uffiziali, imputando a lor difetto l'infelice riuscita di
quell'impresa, secondo l'uso dei tiranni d'Oriente, presso i quali ogni
perdita si attribuisce a colpa de' generali, e si punisce la sfortuna
come un grave delitto. Restò con ciò abbassata non poco la superbia e
fierezza del re persiano, nel cui regno entrati intanto i Massageti,
fecero vendetta anch'essi dei danni recati al paese cristiano.
Durante questo celebre assedio s'era trattenuto l'Augusto Costanzo in
Edessa e in Antiochia senza osare di comparir in campo contra
dell'innumerabil esercito de' Persiani; e poichè intese la loro
ritirata, tutto lieto rivolse più che mai i pensieri agli affari
dell'Occidente, non parendo probabile ch'egli partisse prima di
quell'assedio dalla Soria, come ha l'autore della Cronica
Alessandrina[124]. Aveva egli in questo tempo raunata quanta gente atta
all'armi egli potè raccogliere dai suoi Stati, ed allestita anche una
formidabil flotta di navi, che dall'adulatore Giuliano[125] vien
chiamata superiore a quella di Serse. L'intenzione sua era di procedere
con tutto queste forze contra del tiranno Magnenzio; ed affinchè i
nemici persiani non si prevalessero della sua lontananza, provvide tutte
le fortezze di frontiera di buone guarnigioni, di macchine e di viveri;
e poi si mosse dalla Soria alla volta di Costantinopoli. Aveva più d'una
volta Magnenzio spediti suoi deputati ad esso Costanzo, per trattare un
qualche accordo, affin di assicurare e legittimare l'usurpazion sua: e
di ciò parla anche sant'Atanasio[126]. Ma Costanzo, che si credeva avere
dalla sua Vetranione, divenuto imperadore dell'Illirico, e, per
conseguente, giudicava il suo partito superiore di forze a quello del
tiranno, niun ascolto avea dato finora a sì fatte proposizioni. Restò
egli dipoi ben sorpreso o stordito, allorchè gli giunse l'avviso che
Vetranione e Magnenzio aveano fatta pace fra loro. Più ancora crebbe
l'apprensione e l'affanno suo, quando arrivò ad Eraclea della
Tracia[127], perchè ivi se gli presentarono gli ambasciadori di amendue,
cioè _Rufino_ prefetto del pretorio, _Marcellino_ già da noi veduto il
braccio diritto di Magnenzio, e general delle sue armi, insieme con due
altri primarii uffiziali, cioè Nuneco e Massimo. Esposero costoro che
Magnenzio e Vetranione erano pronti a riconoscere Costanzo per Augusto
primario, purchè egli volesse lasciar loro godere il medesimo titolo,
cercando di persuaderglielo con ricordare gl'incerti avvenimenti delle
guerre. Magnenzio inoltre, per assodar meglio l'amicizia, proponeva di
torre per moglie Costanza, o pur Costantina, sorella del medesimo
Costanzo, esibendo nello stesso tempo a Costanzo una sua figliuola per
moglie: segno che egli era vedovo allora. Trovossi ben imbrogliato
Costanzo, nè sapea qual risoluzion prendere, se non che Zonara[128]
scrive essergli apparuto in sogno Costantino suo padre, che presentargli
Costante, gli ordinò di vendicarne la morte, e gli promise la vittoria.
Vera o falsa che sia tal diceria, certo è intanto che Costanzo rigettò
ogni proposizion di Magnenzio; ma forse trattò più dolcemente con quei
di Vetranione.
Quindi coraggiosamente marciò innanzi, ed arrivò sino a Serdica,
capitale della Dacia novella[129]. Turbossi veramente Vetranione
all'improvvisa venuta di Costanzo: ma non lasciò di andare ad
incontrarlo con un corpo vigoroso d'armata, maggiore ancora di quella di
Costanzo: il che si crede che inducesse Costanzo a trattar
amichevolmente con lui, e dopo avergli confermato il titolo d'Augusto,
ed unite le sue colle di lui milizie, si diede a trattar seco delle
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