Annali d'Italia, vol. 2 - 08
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Theophan., in Chronogr.
[351] Ammianus. Aurel. Victor, de Caesaribus.
[352] Themist., Orat. I et II. Julian., Orat. I et II.
[353] Eutrop., in Breviar.
[354] Ammianus, lib. 21, cap. 16.
[355] Julian., Orat. VII. Liban., Orat. XI.
[356] Athanasius, de Syn.
[357] Ammianus, lib. 16, c. 6, et lib. 21, cap. 16.
[358] Athanasius, de Syn. Socrat., lib. 2, cap. 47. Philostorg., lib. 6,
c. 6.
[359] Mamert., in Panegyr. Ammianus, lib. 22, cap. 1. Idacius, in
Fastis. Chronicon Alexandr.
Anno di CRISTO CCCLXII. Indizione V.
LIBERIO papa 11.
GIULIANO imperadore 2.
_Consoli_
MAMERTINO e NEVITTA.
Fu alzato _Nevitta_ alla dignità consolare, perchè uomo di molto credito
nel mestiere delle armi, e perchè di lui si fidava molto Giuliano, dopo
averlo creato generale della cavalleria. Essendo costui barbaro di
nazione, e probabilmente Goto, di costumi crudeli, ebbe motivo Ammiano
Marcellino[360] di riflettere, come accennammo di sopra, alla malignità
di Giuliano, il quale poco prima avea tacciato Costantino di aver
conferito il consolato a personaggi barbari, quando egli poco appresso
fece lo stesso. Quanto a _Mamertino_ primo console, Giuliano lo avea
dianzi creato prefetto del pretorio dell'Illirico. Essendo egli uomo
eloquente, compose e recitò nel dì primo di quest'anno, cioè nell'entrar
console, un panegirico in lode di Giuliano, componimento salvato dalle
ingiurie del tempo, e giunto sino ai dì nostri. Ma prima di raccontar le
azioni spettanti a Giuliano nell'anno presente, non dispiacerà ai
lettori di conoscere prima chi fosse questo novello Augusto. Altrove
dicemmo che _Flavio Claudio Giuliano_ avea avuto per padre Giulio
Costanzo, fratello del gran Costantino, e per fratello Gallo Cesare, da
noi veduto ucciso da Costanzo imperadore. Nacque in Costantinopoli[361]
nell'anno 331. Allorchè mancò di vita Costantino il Grande nell'anno
337, e fu ucciso suo padre con altri parenti d'esso Augusto per ordine
di Costanzo, anche Giuliano corse rischio di perdere la vita[362]. Il
salvò la sua tenera età. In Macello, luogo della Cappadocia, in
Costantinopoli, e poscia in Nicomedia s'applicò allo studio delle
lettere, avendo per maestro Eusebio vescovo di quella città[363], famoso
capo dell'arianesimo. Essendogli toccato per aio un eunuco, uomo di gran
senno, chiamato Mardonio, questi per tempo gli diede buoni documenti di
moderazione, di sprezzo dei divertimenti, e di fare resistenza alle
passioni. Fu provveduto sempre di eccellenti maestri, ma cristiani, da
Costanzo; e siccome a lui non mancava la felicità del talento, così fece
non lieve profitto nelle scienze, e massimamente nell'eloquenza. Ma
questa felicità d'ingegno consisteva piuttosto in una prontezza
d'intendere e in una vivacità di esprimere i suoi sentimenti, e non già
in una soda penetrazione e riflessione sopra le cose, essendo
superficiale la forza della sua mente, e portata sempre alle novità la
di lui inclinazione. Già si osservò che di nuovo fu in pericolo la di
lui vita, allorchè quella di Gallo Cesare suo fratello mancò. Il
sottrasse a quel rischio Eusebia Augusta, la di cui protezione servì
ancora a farlo promuovere alla dignità di Cesare e al governo delle
Gallie; dal che poi nacque la di lui ribellione contra del benefattore
Costanzo.
Ma la più obbrobriosa delle azioni di Giuliano è quella che riguarda la
sua religione. Era egli, non men che il fratello, stato allevato in
quella di Gesù Cristo sotto varii precettori cristiani; la professava
egli, e con varie opere di pietà si dava a conoscere (ed era in fatti
allora) persuaso della verità e santità della medesima[364]. Confessa
egli stesso che sino all'età di vent'anni stette saldo in essa
religione; anzi, per togliere a Costanzo i sospetti ch'egli aspirasse in
guisa alcuna all'imperio, si arrolò nella milizia ecclesiastica, e col
fratello Gallo esercitò nel clero l'uffizio di lettore. Ma siccome egli
era un cervello leggero e fantastico, insensibilmente si lasciò portare
al paganesimo. Ordine espresso avea dato Costanzo[365] ch'egli non
praticasse con Libanio sofista, letterato di gran credito allora per la
sua eloquenza, ma gentile, per timore che noi sovvertissero le di lui
ciance. Giuliano tanto più s'accese di voglia di leggere e di studiar
segretamente le di lui opere, che servirono non poco ad infettarlo:
tanta era la stima ch'egli professava a quel sofista. La scuola
principale nondimeno della sua apostasia ed impietà fu l'essersi egli
dato a praticar con gl'indovini, strologhi, maghi ed altri impostori,
che gli fecero sperar la cognizion dell'avvenire: con che maggiormente
se gli ammaliò e riempiè il capo d'illusioni, di oracoli, e della
potenza dei falsi dii, con terminar poi i suoi studii in un'aperta
empietà e somma prosunzione. Libanio stesso[366] non ebbe difficoltà di
confessare ch'egli era visitato dagli dii, da loro sapeva quanto si
faceva sopra la terra: il che chiaramente ci fa comprendere le illusioni
della magia. Per maestri di così sacrileghe arti e dottrine ebbe
spezialmente Giuliano[367] Massimo Efesio, mago di professione, Eusebio
discepolo di Edesio, un Jamblico diverso dal pitagorico, ed altri simili
ciurmatori, più tosto che filosofi, i quali colle empie loro istruzioni
il trassero in fine ad abbandonare il Cristianesimo, e ad abbracciare il
culto degl'idoli. Ma come mai potè passare uomo intendente della santità
della religion cristiana e della sua celeste morale all'aperta
sciocchezza dell'idolatria, e a credere e a dare alle creature e a sorde
statue di numi ossia di demonii il culto ed incenso dovuto al solo vero
Dio? In poche parole ne dirò il perchè. Da che la religion cristiana
luminosa comparve sul candelliere con tanta raccomandazione di verità, i
filosofi, pagani, non sapendo come difendere tanta deformità
dell'idolatria, ricorsero al ripiego di sostenere che sotto le più
ridicole favole ed azioni vergognose dei lor creduti dii si nascondeva
qualche mistero o verità o teologica, o istorica, o morale; e
riconoscendo non esservi che un Dio, dicevano poi che nelle differenti
deità si adorava quel medesimo Dio, cioè qualche suo attributo,
rappresentato dai poeti sotto il velo di molte favole. In somma
inorpellavano tanto la detestabil empietà e superstizione del
paganesimo, ne predicavano l'antichità, ne esaltavano l'ampiezza, che la
testa leggiera di Giuliano (per tale la riguardò anche Ammiano[368]) vi
precipitò dentro[369]. E forse la spinta maggiore venne dal promettergli
que' ciarlatani di pervenire per tal via al romano imperio. Dopo questo
salto si studiava ben Giuliano di coprir la sua apostasia e idolatria
nel suo cuore; finchè visse Costanzo Augusto, professava nell'esteriore
il Cristianesimo, e poi la notte faceva dei sacrifizii a Mercurio, senza
mettersi pensiero s'egli tradiva Dio e la propria coscienza. Ma chi
sapeva ben esaminar le di lui azioni, i ragionamenti e quel suo spirito
volubile, inquieto, buffone, sprezzante, giungeva a scorgere ch'egli non
era cristiano, o pur era un mal cristiano, e che si allevava in lui un
fiero mostro all'imperio romano. San Gregorio Nazianzeno[370], che il
conobbe e praticò in Atene, ce ne lasciò un vivo ritratto, per cui
predisse quello che in fatti poi fu. Aggiungasi ora che Giuliano, dopo
essersi applicato alla filosofia di que' tempi, affettò da lì innanzi di
comparir filosofo non solamente in molte azioni, ma con prender anche
l'abito proprio de' filosofi, cioè il mantello, e nudrire le barba:
tutto per acquistarsi credito con tale apparenza presso chi solo misura
gli uomini dal portamento esterno. La sua sobrietà era grande[371]; poco
sonno prendeva, e questo sopra un tappeto e una pelle. De' piaceri e
divertimenti del teatro, del circo, de' combattimenti nulla si
dilettava; in una parola, da che fu creato Cesare, con questa severità
di costumi molta riputazione s'acquistò nelle Gallie, col ministrar
buona giustizia, con frenar le insolenze e l'avidità delle arpie, cioè
dei pubblici uffiziali, che con taglie ed avanie cercavano di accrescere
le calamità de' popoli, e di empiere la propria borsa.
Ritornando ora al corso della storia, convien ripetere che nel dicembre
del precedente anno, mentre esso Giuliano soggiornava in Naisso città
della Dacia (Socrate[372] scrive nella Tracia), gli giunse l'avviso
della morte di Costanzo, avviso il più grato che mai gli potesse
avvenire. Secondo Ammiano[373], fecero a lui credere gli ambasciatori
che Costanzo, prima di spirar l'anima, l'avea dichiarato suo successore:
il che non par vero, quando sussista che l'apostasia di Giuliano fosse a
lui già nota. San Gregorio Nazianzeno[374] aggiugne essere stata fama
che Costanzo sul fin della vita si pentisse di tre cose: cioè di avere
sparso il sangue de' suoi parenti, di aver conferita a Giuliano la
dignità di Cesare e di aver cagionato tante turbolenze nella Chiesa di
Dio. Quando pur si accettasse per vero che Costanzo, giacchè non potea
togliere a Giuliano la successione, gliel'avesse lasciata, ciò sarebbe
stato per procacciare il di lui favore a Faustina Augusta sua moglie, la
quale restava gravida, e partorì dipoi una femmina. Tutto lieto, siccome
già dicemmo, passò Giuliano a Costantinopoli, dove qualche poco ancora
fece la figura di cristiano, e poscia, per attestato di Socrate[375] e
di Ammiano[376], cavatasi la maschera, apertamente professò l'idolatria.
Anzi non aveva aspettato fino a questo tempo, perchè Libanio[377] e il
Nazianzeno[378] attestano che, appena giunto nell'Illirico, avea
ordinato che si aprissero i templi de' pagani, e che si sacrificasse
agl'idoli[379]; nè tardarono punto gli Ateniesi a valersi di questo
sacrilego indulto. Che allegrezza per questa metamorfosi provassero i
gentili, che orrore e dispiacere i cristiani, non occorre ch'io lo dica.
Corsero a gara i deputati delle città e provincie a riconoscere il nuovo
sovrano[380], portandogli delle corone d'oro; e gli Armeni ed altri re
dell'Oriente, fuorchè il persiano, e fin gl'Indiani tributarongli dei
regali. Anche dagli stessi Goti gli furono spediti ambasciatori per
rinnovare i precedenti trattati; ma Giuliano fu vicino a romperla con
loro, perchè non volea legge da que' Barbari, nè lasciarsi far paura,
com'era avvenuto sotto il precedente Augusto. Quindi si diede a riformar
la corte imperiale per risparmiare le spese, cassando una prodigiosa
quantità di cuochi, barbieri ed altri simili, ed anche più riguardevoli
uffiziali, che mangiavano a tradimento il pane del principe.
Specialmente mandò a spasso tutti coloro che aveano servito a Costanzo,
non distinguendo i buoni dai cattivi[381], e sostituendo degli altri a
suo talento. Ancorchè Ammiano[382] pretenda che la maggior parte di
costoro fosse piena di vizii, e s'ingrassasse a forza d'iniquità e di
rubamenti, con dire fra le altre cose che avendo Giuliano dimandato un
barbiere per farsi tosare, se gliene presentò uno sì magnificamente
vestito, che Giuliano gridò[383]: _L'ordine mio è stato che si chiamasse
un barbiere, e non già un senatore_: contuttociò lo stesso Ammiano
condanna sì rigorosa riforma da lui fatta, con ridurre tanta gente in
una misera povertà. Libanio[384] all'incontro il loda forte per questo,
aggiugnendo ch'egli ristrinse al numero di mille e settecento coloro che
si chiamavano _agentes in rebus_, ufficiali del fisco, poco diversi, o
pure gli stessi che i curiosi e frumentarii, cioè ispettori ed esattori
che si mandavano per le provincie. Dianzi si contavano dieci mila di
costoro.
Qui nondimeno non si fermò Giuliano. Eresse un tribunal di giustizia,
affinchè quivi si ascoltassero le molte querele de' particolari contro
gli uffiziali del defunto Costanzo. Capo ne fu _Sallustio Secondo_,
dichiarato prefetto del pretorio d'Oriente, a cui furono aggiunti
_Mamertino_ e _Nevitta_, consoli di quest'anno, _Arbezione_ ed
_Agilone_[385]. Costoro, iti a Calcedonia, cominciarono a processar
chiunque non godea la grazia di Giuliano, principalmente chi gli era in
disgrazia. _Palladio_, già mastro degli uffizii (splendida dignità della
corte), fu relegato in Bretagna; _Tauro_, già prefetto del pretorio, a
Vercelli, benchè non sel meritasse; _Fiorenzo_, anch'esso mastro degli
uffizii, in un'isola della Dalmazia. L'altro _Fiorenzo_ già prefetto del
pretorio delle Gallie, che aveva irritato forte Giuliano, se ne fuggì
colla moglie, e nascoso stette finchè visse Giuliano, perchè contra di
lui fulminata fu la sentenza di morte. D'altri cospicui uffiziali
processati e condannati chi all'esilio, chi a perdere il capo, parla
Ammiano; e perchè non solo a' colpevoli, ma anche a molti innocenti si
stesero le condannagioni, Giuliano si tirò dietro le maledizioni, non
che le mormorazioni de' suoi parziali, e molto più di chi era nemico,
per sì fatte crudeltà. Con tal occasione si può dire che cominciò la
persecuzione di Giuliano contra de' cristiani, perchè tutti i cortigiani
professanti la legge santa di Cristo furono da lui cacciati fuori del
palazzo. Dalle lettere del medesimo Giuliano[386] risulta, aver esso
invitato alla sua corte Massimo filosofo, quello stesso che poco fa
dicemmo essergli stato maestro di magia[387], e dell'arte empia ed
ingannatoria di cercar l'avvenire. Allorchè seguì l'arrivo di costui
alla corte[388], Giuliano era nel senato, e, dimenticata la propria
dignità, corse ad incontrar l'impostore, come se fosse stato qualche re,
o divinità, abbracciandolo e baciandolo: azione lodata da Libanio, ma
ritrovata assai impropria da Ammiano. Questa sua eccessiva degnazione
verso le barbe de' filosofi cagion fu che altri di tal professione[389]
a folla accorsero da varie parti alla corte; alcuni anche vi furono
chiamati. Di carezze e belle parole certamente si mostrò liberale con
esso loro il filosofo imperadore: di tanto in tanto teneva ancora alcun
di essi alla sua tavola, e beveva alla lor salute: pavoneggiavasi
inoltre, nell'uscir di palazzo, di esser corteggiato da essi; ma in fine
i più di loro lasciava colle mani piene di mosche, e laddove erano
coloro venuti lusingandosi di far gran fortuna, si trovavano poi
costretti, per non morir di fame, a ritornarsene delusi ai lor paesi,
maledicendo non so dire se più la furberia ed avarizia di Giuliano, o
pure la stolta loro credulità. Ci lasciò san Giovanni Grisostomo[390]
una descrizion della corte d'esso Giuliano, tale che fa orrore.
Imperocchè, appena si seppe ristabilita da lui l'idolatria, e come egli
era perduto dietro allo studio dell'avvenire, che da ogni banda
fioccarono colà maghi, incantatori, auguri, indovini, e simil razza di
gente, alcuni dei quali di pezzenti divenivano appresso non solo
sacerdoti, ma pontefici del gentilesimo. Con costoro si tratteneva
Giuliano, poco curando i generali e magistrati; e qualora usciva in
pubblico, il seguitava un infame corteggio di tali ciurmatori; nè vi
mancava quello di molte femmine che professavano le medesime empie arti
ed illusioni, uscite da' bordelli e d'altri luoghi, dove vendevano le
inique loro mercatanzie. In testimonio di questa verità il Grisostomo
chiama moltissimi tuttavia allora viventi, e ben pratici della corte
dell'apostata Augusto. E il Nazianzeno[391], che fioriva nell'istesso
tempo, ci assicura che si vedeva Giuliano mangiare pubblicamente e
divertirsi con quelle infami donne, coprendo quest'obbrobrio col
pretesto ch'esse servivano alle cerimonie dei suoi sagrifizii e misteri.
E tale era la vita di questo imperatore, il quale nientedimeno non
ometteva di applicarsi ai pubblici affari, come consta da molte sue
leggi[392]; ed era frequente al senato, dove spezialmente campeggiava la
di lui vanità nel recitar delle arringhe ed orazioni, e nel decidere le
liti. Volendo poi esercitare la gratitudine verso di Costantinopoli
patria sua, per attestato di Zosimo[393], vi costituì un senato simile a
quel di Roma. Ma sapendosi che anche prima d'ora un senato v'era in
quella gran città, vorrà egli dire che gli concedè i privilegii medesimi
e lo stesso decoro che godeva il senato di Roma. Vi fabbricò eziandio un
porto che difendesse dal vento australe le navi, ed anche un portico che
guidava ad esso porto, della figura del sigma greco, che si solea allora
scrivere come il C de' Latini. Formò ancora[394] sopra il portico regale
una biblioteca, dove ripose quanti libri egli possedeva. Studiossi
ancora di condurre da Alessandria colà un obelisco: cosa già meditata
dall'imperador Costanzo, ma nè pure da lui eseguita dipoi per la sua
morte. Di questo parla egli in una epistola da me data alla luce[395].
Bella azione dovette poi parere quella di Giuliano[396], allorchè liberò
dell'esilio tutti i vescovi già banditi da Costanzo ariano, uno de'
quali fu santo Atanasio, benchè poi nel seguente anno per ordine del
medesimo Giuliano di nuovo ne fosse cacciato. Ma infin lo stesso
Ammiano, e poi Sozomeno[397] ed altri chiaramente riconobbero aver ciò
fatto il malizioso Augusto, non già per alcun buon cuore verso i pastori
del popolo cristiano, ma affinchè, trovandosi eglino liberi, si
continuassero come prima le civili discordie tra loro, cioè tra'
cattolici, ariani, donatisti, macedoniani ed eunomiani; e la plebe
interessata in quelle contese non pensasse a far tumulti e sedizioni
contra del regnante: il che fu ancora avvertito da sant'Agostino in
riguardo ad essi donatisti. Dieci mesi pretende Zosimo[398] che Giuliano
si fermasse in Costantinopoli. Dovea dire quasi otto; imperciocchè le
leggi del Codice Teodosiano[399] cel rappresentano in quella città forse
per tutto maggio. Di là poi mosse per passare in Antiochia con disegno
di far pentire i Persiani di tanti danni recati al romano imperio. Per
qualche tempo si fermò nella Bitinia; e massimamente in Nicomedia, città
sì grandiosa ne' tempi addietro, e diroccata dal terribil tremuoto
dell'anno 358: il che cavò le lagrime dagli occhi di Giuliano, e dalla
sua borsa molto danaro per riparar quelle rovine. Una sua legge abbiamo
quivi data nel luglio del presente anno. Per viaggio visitò quanti
templi famosi la gentilità avea riaperti in quelle parti, sagrificando
dappertutto con gioia immensa de' pagani e dolor de' cristiani. Non finì
il luglio che giunse ad Antiochia, ricevuto con acclamazioni indicibili
da quel popolo, e molte leggi si veggono date da lui nei susseguenti
mesi in quella città[400]. Quivi si applicò ad ascoltar le querele dei
particolari, e a decidere le loro liti con giuste bilancio, e senza
guardar in faccia a chi che sia, nè qual fosse la di lui religione.
Confessa nondimeno Ammiano ch'egli camminava in ciò con troppa fretta, e
che, conoscendo poi la leggerezza del suo ingegno e l'impetuosità della
sua collera, raccomandava ai suoi assessori di frenarlo, per non
fallare. Un dì si presentò a' suoi piedi Teodoto, uno de' primi
cittadini di Jerapoli, ma tremando, perchè sapeva d'essere in disgrazia
di lui. Giuliano il ricevette con volto cortese, e gli disse[401] che se
ne ritornasse a casa senza paura, affidato dalla clemenza di un principe
che solamente bramava di sminuire il numero de' suoi nemici con farseli
amici. Belle parole, quand'anche in Antiochia fece continuar i processi
e le condanne contra di molti, da' quali si pretendeva offeso. Ed in
essa città ancora si diede più che mai a perseguitare i cristiani, per
l'odio che portava alla lor religione, e per rabbia, sapendo di essere
detestato da essi, essendovi stati alcuni che a visiera calata lo aveano
rimproverato per la sua apostasia ed empietà. Fin sotto il precedente
anno già dicemmo aver gli dato principio a sfogar questo suo mal animo
contra d'essi cristiani, cacciando dalla sua corte chiunque abborriva di
adorare i suoi falsi dii, uno de' quali specialmente fu celebre[402],
cioè san _Cesario_, fratello di san Gregorio Nazianzeno, e medico suo,
che generosamente abbandonò il posto per non abbandonar la fede di Gesù
Cristo. Escluse dipoi dalla milizia tutti i cristiani; ordinò che niuna
carica si desse, se non agli amatori degl'idoli; proibì ai Cristiani
l'insegnare ed imparar le scienze e le belle lettere. E quantunque non
osasse pubblicamente di levar la vita a chi seguitava la legge di
Cristo, perchè infinito era il lor numero, ed egli paventava delle
sollevazioni: pure in segreto gran copia ne fece uccidere, e sotto di
lui la Chiesa contò moltissimi gloriosi martiri[403], senza poter nè
pure raccogliere il numero di tutti. Mise anche in opera tutte le arti,
lusinghe e premii per sovvertire i medesimi cristiani; e pur troppo non
pochi ne trovò che si lasciarono vincere da così dolci batterie. Ma
intorno a ciò rimetto io il lettore agli Annali Ecclesiastici del
Baronio[404], e sopra tutto al Tillemont[405], che egregiamente ha
trattato questo argomento, siccome ancora al Fleury nella sua Storia
Ecclesiastica[406].
NOTE:
[360] Ammian., lib. 21, c. 11 et 12.
[361] Julian., Epist. LI.
[362] Idem, in Misopog.
[363] Socrates, Hist., lib. 3, c. 1.
[364] Julian., Epist. LI.
[365] Socrates, Histor., lib. 3, cap. 1. Libanius, Orat. V et XII.
[366] Liban., Orat. X.
[367] Eunap., Vit. Sophist., cap. 5. Socrat., Hist., lib. 3, cap. 1.
Liban., Orat. V.
[368] Ammianus, lib. 16.
[369] Theodoret., Hist., lib. 3, c. 1. Gregorius Nazianz., Orat. III.
[370] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[371] Ammianus, lib. 16. Julian., in Misopog. Libanius, Orat. X et XII.
[372] Socrat., lib. 3, cap. 1.
[373] Ammian., lib. 22, cap. 2.
[374] Gregor. Nazianz., Orat. XXI.
[375] Socrat., lib. 3, cap. 1.
[376] Ammianus, lib. 22, cap. 5.
[377] Liban., Orat. XII.
[378] Gregor. Nazianz., Orat. III.
[379] Julian., Epist. ad Atheniens.
[380] Julian., in Misopog. Eunap., Vit. Sophist.
[381] Liban., Orat. X.
[382] Ammianus, lib. 22, cap. 4.
[383] Zonaras, in Annal.
[384] Liban., Orat. X.
[385] Ammianus, lib. 22, cap. 3.
[386] Julian., Epist. XXXVIII.
[387] Liban., Orat. XII.
[388] Ammianus, lib. 22, cap. 7.
[389] Gregor. Nazianz., Orat. IV. Eunapius, Vit. Sophist., cap. 5.
Socrates, lib. 3, cap. 1.
[390] Chrysostomus, in Gent.
[391] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[392] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[393] Zosimus, lib. 3, cap. 11.
[394] Julian., Epist. LVIII. Themistius, Orat. IV.
[395] Anecdota Graeca, pag. 325.
[396] Ammian., lib. 22, cap. 5.
[397] Sozomen., lib. 5 Hist., cap. 5. Chron. Alexandr. Chrysost., Orat.
II in Babyl.
[398] Zosimus, lib. 3, cap. 11.
[399] Gothofred., Chronol. Cod. Theod.
[400] Ammian., lib. 22, cap. 10.
[401] Ammian., lib. 22, cap. 14.
[402] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[403] Idem, Orat. III. Theodor., lib. 3. Hist., cap. 11 et seq.
[404] Baron., in Annalib. Eccl.
[405] Tillemont, Mémoires pour l'Histoire Ecclesiastiq.
[406] Fleury, Hist. Eccl.
Anno di CRISTO CCCLXIII. Indizione VI.
LIBERIO papa 12.
GIOVIANO imperadore 1.
_Consoli_
FLAVIO CLAUDIO GIULIANO AUGUSTO per la quarta volta e SECONDO SALLUSTIO.
Era questo _Sallustio_ console anche prefetto del pretorio delle Gallie,
e diverso da un altro _Sallustio_ prefetto del pretorio d'Oriente,
siccome può vedersi presso il padre Pagi[407]. _Lucio Turcio Secondo
Aproniano Asterio_, uno de' senatori che da Roma furono inviati a
Giuliano, fu creato prefetto di Roma in questo anno, ed è sommamente
lodato da Ammiano[408] pel buon governo che fece col mantenervi
l'abbondanza de' viveri e la pace, e col perseguitar severamente gli
incantatori e malefici che il paganesimo produceva in gran copia. Volle
Giuliano onorato il suo consolato da un panegirico di _Libanio sofista_,
e questo l'abbiam tuttavia. Varii segni diede in questi tempi Iddio
dello sdegno suo con molte calamità inviate all'imperio romano, le quali
avrebbono potuto avvertir Giuliano della sua empietà, s'egli fosse stato
capace di correzione[409]. Frequenti furono i tremuoti che afflissero
molte città. Nicomedia stessa che, per ordine di Giuliano, cominciava a
risorgere, tornò di nuovo alle primiere rovine. Nicea in gran parte andò
per terra; e Costantinopoli corse rischio di un eguale esterminio.
Libanio[410] è testimonio che ne patirono forte le città della Palestina
e della Libia, e traballarono le più grandi della Sicilia e tutte quelle
della Grecia. Si bruciò in Roma il tempio d'Apollo, e nell'ottobre
antecedente era del pari rimasto divorato dalle fiamme l'altro insigne
tempio d'Apollo esistente in Dafne, luogo posto in vicinanza
d'Antiochia[411]. Trovavasi allora in essa città Giuliano; e perchè
sospettò che il fuoco fosse stato attaccato dai cristiani per l'odio che
professavano contra di lui, fece far molti processi, tormentar molte
persone, e chiudere la chiesa maggiore. Anche Alessandria in Egitto
restò fieramente inondata e danneggiata dal mare a dismisura gonfiato. A
questi mali si aggiunse una orribil carestia che afflisse tutto il
romano imperio, e fu seguitata dalla peste: malori che fecero perire una
gran quantità di persone. Entrò la fame con Giuliano in Antiochia, o pur
crebbe a cagion della numerosa sua corte[412]. Il popolo smaniava, e
portò i suoi lamenti ad esso imperadore, con accusare i ricchi, come
cagione del caro de' viveri, tenendo chiusi i loro granai. A questo
disordine si credette di rimediare col suo gran senno Giuliano, tassando
il prezzo di essi viveri assai bassamente. Ne seguì appunto un effetto
tutto contrario a' suoi disegni, perchè laddove prima si scarseggiava
solamente di grano, venne anche a mancare l'olio, il vino ed altre
specie di commestibili, non potendo i mercatanti vendere a quel basso
prezzo la vettovaglia senza rovinarsi. Questa imprudenza di Giuliano
vien condannata fin da Ammiano[413] e da Libanio[414] suoi panegiristi.
Ma il popolo d'Antiochia, che, oltre all'essere naturalmente inclinato
alla satira e alle pasquinate, si trovava per la fame assai malcontento
di Giuliano[415], e maggiormente ancora perchè, troppo avvezzo agli
spettacoli pubblici, osservò che Giuliano gli abborriva, e di alcun
d'essi non li regalò: quel popolo, dissi, ne fece quella vendetta che
potè, dileggiandolo pubblicamente con dei motti pungenti, e deridendolo
con dei versi satirici[416]. Specialmente mettevano in burla la di lui
piccola statura, benchè marciasse con passi da gigante, e la sua lunga
barba, per cui somigliava un caprone, e con cui si poteano far delle
funi. Gli davano il titolo di macellaio per tante bestie ch'egli svenava
ne' suoi empii sagrifizii. Similmente il beffavano per la vanità di
portar egli colle proprie mani i vasi ed altre cose sacre, facendo
piuttosto la funzion di sagrificatore che di principe. Si può ben
credere che molti cristiani, dei quali era senza paragone più che di
pagani piena Antiochia, ebbero parte con imprudenza a questi scherni
dell'apostata Augusto. Al vedersi Giuliano sì sconciamente messo in
commedia[417], smaniava ben per la collera, e minacciava pene e scempii
a quell'indiscreto popolo; ma perchè la positura de' suoi affari non gli
permetteva di venir per ora a verun pubblico gastigo, la vendetta che ne
fece, fu di comporre coll'aiuto di Libanio una invettiva[418] satirica
contro il popolo d'Antiochia, intitolata _Misopogon_, cioè _Nemico della
barba_, carica di velenose ironie, spacciando que' cittadini per gente
interessata, data al lusso, alla crapola, vana, e perduta unicamente
dietro a' teatri e alle bagattelle. Pubblicò egli solamente nel gennaio
di quest'anno essa satira, applaudita non poco dai parziali pagani, ma
derisa prima e dopo la morte di lui dai cristiani. Il peggio fu ch'essa
ad altro non servì[419] che ad aguzzar maggiormente le lingue di quel
popolo contro di lui. In questi tempi evidente fu, celeste e degno di
grande attenzione, un miracolo operato dalla mano di Dio. Avea conceduto
Giuliano, per far dispetto ai cristiani, che i Giudei potessero
rimettere in piedi il loro tempio di Gerusalemme. Corsero da tutte le
parti costoro con immense oblazioni d'oro per eseguire la disegnata
fabbrica. Demolirono le reliquie dell'antico tempio per farne un nuovo,
venendo essi a verificar sempre più la predicazione di Gesù Cristo[420].
Ma dacchè ebbero ben cavato per cominciare i fondamenti, ecco un
[351] Ammianus. Aurel. Victor, de Caesaribus.
[352] Themist., Orat. I et II. Julian., Orat. I et II.
[353] Eutrop., in Breviar.
[354] Ammianus, lib. 21, cap. 16.
[355] Julian., Orat. VII. Liban., Orat. XI.
[356] Athanasius, de Syn.
[357] Ammianus, lib. 16, c. 6, et lib. 21, cap. 16.
[358] Athanasius, de Syn. Socrat., lib. 2, cap. 47. Philostorg., lib. 6,
c. 6.
[359] Mamert., in Panegyr. Ammianus, lib. 22, cap. 1. Idacius, in
Fastis. Chronicon Alexandr.
Anno di CRISTO CCCLXII. Indizione V.
LIBERIO papa 11.
GIULIANO imperadore 2.
_Consoli_
MAMERTINO e NEVITTA.
Fu alzato _Nevitta_ alla dignità consolare, perchè uomo di molto credito
nel mestiere delle armi, e perchè di lui si fidava molto Giuliano, dopo
averlo creato generale della cavalleria. Essendo costui barbaro di
nazione, e probabilmente Goto, di costumi crudeli, ebbe motivo Ammiano
Marcellino[360] di riflettere, come accennammo di sopra, alla malignità
di Giuliano, il quale poco prima avea tacciato Costantino di aver
conferito il consolato a personaggi barbari, quando egli poco appresso
fece lo stesso. Quanto a _Mamertino_ primo console, Giuliano lo avea
dianzi creato prefetto del pretorio dell'Illirico. Essendo egli uomo
eloquente, compose e recitò nel dì primo di quest'anno, cioè nell'entrar
console, un panegirico in lode di Giuliano, componimento salvato dalle
ingiurie del tempo, e giunto sino ai dì nostri. Ma prima di raccontar le
azioni spettanti a Giuliano nell'anno presente, non dispiacerà ai
lettori di conoscere prima chi fosse questo novello Augusto. Altrove
dicemmo che _Flavio Claudio Giuliano_ avea avuto per padre Giulio
Costanzo, fratello del gran Costantino, e per fratello Gallo Cesare, da
noi veduto ucciso da Costanzo imperadore. Nacque in Costantinopoli[361]
nell'anno 331. Allorchè mancò di vita Costantino il Grande nell'anno
337, e fu ucciso suo padre con altri parenti d'esso Augusto per ordine
di Costanzo, anche Giuliano corse rischio di perdere la vita[362]. Il
salvò la sua tenera età. In Macello, luogo della Cappadocia, in
Costantinopoli, e poscia in Nicomedia s'applicò allo studio delle
lettere, avendo per maestro Eusebio vescovo di quella città[363], famoso
capo dell'arianesimo. Essendogli toccato per aio un eunuco, uomo di gran
senno, chiamato Mardonio, questi per tempo gli diede buoni documenti di
moderazione, di sprezzo dei divertimenti, e di fare resistenza alle
passioni. Fu provveduto sempre di eccellenti maestri, ma cristiani, da
Costanzo; e siccome a lui non mancava la felicità del talento, così fece
non lieve profitto nelle scienze, e massimamente nell'eloquenza. Ma
questa felicità d'ingegno consisteva piuttosto in una prontezza
d'intendere e in una vivacità di esprimere i suoi sentimenti, e non già
in una soda penetrazione e riflessione sopra le cose, essendo
superficiale la forza della sua mente, e portata sempre alle novità la
di lui inclinazione. Già si osservò che di nuovo fu in pericolo la di
lui vita, allorchè quella di Gallo Cesare suo fratello mancò. Il
sottrasse a quel rischio Eusebia Augusta, la di cui protezione servì
ancora a farlo promuovere alla dignità di Cesare e al governo delle
Gallie; dal che poi nacque la di lui ribellione contra del benefattore
Costanzo.
Ma la più obbrobriosa delle azioni di Giuliano è quella che riguarda la
sua religione. Era egli, non men che il fratello, stato allevato in
quella di Gesù Cristo sotto varii precettori cristiani; la professava
egli, e con varie opere di pietà si dava a conoscere (ed era in fatti
allora) persuaso della verità e santità della medesima[364]. Confessa
egli stesso che sino all'età di vent'anni stette saldo in essa
religione; anzi, per togliere a Costanzo i sospetti ch'egli aspirasse in
guisa alcuna all'imperio, si arrolò nella milizia ecclesiastica, e col
fratello Gallo esercitò nel clero l'uffizio di lettore. Ma siccome egli
era un cervello leggero e fantastico, insensibilmente si lasciò portare
al paganesimo. Ordine espresso avea dato Costanzo[365] ch'egli non
praticasse con Libanio sofista, letterato di gran credito allora per la
sua eloquenza, ma gentile, per timore che noi sovvertissero le di lui
ciance. Giuliano tanto più s'accese di voglia di leggere e di studiar
segretamente le di lui opere, che servirono non poco ad infettarlo:
tanta era la stima ch'egli professava a quel sofista. La scuola
principale nondimeno della sua apostasia ed impietà fu l'essersi egli
dato a praticar con gl'indovini, strologhi, maghi ed altri impostori,
che gli fecero sperar la cognizion dell'avvenire: con che maggiormente
se gli ammaliò e riempiè il capo d'illusioni, di oracoli, e della
potenza dei falsi dii, con terminar poi i suoi studii in un'aperta
empietà e somma prosunzione. Libanio stesso[366] non ebbe difficoltà di
confessare ch'egli era visitato dagli dii, da loro sapeva quanto si
faceva sopra la terra: il che chiaramente ci fa comprendere le illusioni
della magia. Per maestri di così sacrileghe arti e dottrine ebbe
spezialmente Giuliano[367] Massimo Efesio, mago di professione, Eusebio
discepolo di Edesio, un Jamblico diverso dal pitagorico, ed altri simili
ciurmatori, più tosto che filosofi, i quali colle empie loro istruzioni
il trassero in fine ad abbandonare il Cristianesimo, e ad abbracciare il
culto degl'idoli. Ma come mai potè passare uomo intendente della santità
della religion cristiana e della sua celeste morale all'aperta
sciocchezza dell'idolatria, e a credere e a dare alle creature e a sorde
statue di numi ossia di demonii il culto ed incenso dovuto al solo vero
Dio? In poche parole ne dirò il perchè. Da che la religion cristiana
luminosa comparve sul candelliere con tanta raccomandazione di verità, i
filosofi, pagani, non sapendo come difendere tanta deformità
dell'idolatria, ricorsero al ripiego di sostenere che sotto le più
ridicole favole ed azioni vergognose dei lor creduti dii si nascondeva
qualche mistero o verità o teologica, o istorica, o morale; e
riconoscendo non esservi che un Dio, dicevano poi che nelle differenti
deità si adorava quel medesimo Dio, cioè qualche suo attributo,
rappresentato dai poeti sotto il velo di molte favole. In somma
inorpellavano tanto la detestabil empietà e superstizione del
paganesimo, ne predicavano l'antichità, ne esaltavano l'ampiezza, che la
testa leggiera di Giuliano (per tale la riguardò anche Ammiano[368]) vi
precipitò dentro[369]. E forse la spinta maggiore venne dal promettergli
que' ciarlatani di pervenire per tal via al romano imperio. Dopo questo
salto si studiava ben Giuliano di coprir la sua apostasia e idolatria
nel suo cuore; finchè visse Costanzo Augusto, professava nell'esteriore
il Cristianesimo, e poi la notte faceva dei sacrifizii a Mercurio, senza
mettersi pensiero s'egli tradiva Dio e la propria coscienza. Ma chi
sapeva ben esaminar le di lui azioni, i ragionamenti e quel suo spirito
volubile, inquieto, buffone, sprezzante, giungeva a scorgere ch'egli non
era cristiano, o pur era un mal cristiano, e che si allevava in lui un
fiero mostro all'imperio romano. San Gregorio Nazianzeno[370], che il
conobbe e praticò in Atene, ce ne lasciò un vivo ritratto, per cui
predisse quello che in fatti poi fu. Aggiungasi ora che Giuliano, dopo
essersi applicato alla filosofia di que' tempi, affettò da lì innanzi di
comparir filosofo non solamente in molte azioni, ma con prender anche
l'abito proprio de' filosofi, cioè il mantello, e nudrire le barba:
tutto per acquistarsi credito con tale apparenza presso chi solo misura
gli uomini dal portamento esterno. La sua sobrietà era grande[371]; poco
sonno prendeva, e questo sopra un tappeto e una pelle. De' piaceri e
divertimenti del teatro, del circo, de' combattimenti nulla si
dilettava; in una parola, da che fu creato Cesare, con questa severità
di costumi molta riputazione s'acquistò nelle Gallie, col ministrar
buona giustizia, con frenar le insolenze e l'avidità delle arpie, cioè
dei pubblici uffiziali, che con taglie ed avanie cercavano di accrescere
le calamità de' popoli, e di empiere la propria borsa.
Ritornando ora al corso della storia, convien ripetere che nel dicembre
del precedente anno, mentre esso Giuliano soggiornava in Naisso città
della Dacia (Socrate[372] scrive nella Tracia), gli giunse l'avviso
della morte di Costanzo, avviso il più grato che mai gli potesse
avvenire. Secondo Ammiano[373], fecero a lui credere gli ambasciatori
che Costanzo, prima di spirar l'anima, l'avea dichiarato suo successore:
il che non par vero, quando sussista che l'apostasia di Giuliano fosse a
lui già nota. San Gregorio Nazianzeno[374] aggiugne essere stata fama
che Costanzo sul fin della vita si pentisse di tre cose: cioè di avere
sparso il sangue de' suoi parenti, di aver conferita a Giuliano la
dignità di Cesare e di aver cagionato tante turbolenze nella Chiesa di
Dio. Quando pur si accettasse per vero che Costanzo, giacchè non potea
togliere a Giuliano la successione, gliel'avesse lasciata, ciò sarebbe
stato per procacciare il di lui favore a Faustina Augusta sua moglie, la
quale restava gravida, e partorì dipoi una femmina. Tutto lieto, siccome
già dicemmo, passò Giuliano a Costantinopoli, dove qualche poco ancora
fece la figura di cristiano, e poscia, per attestato di Socrate[375] e
di Ammiano[376], cavatasi la maschera, apertamente professò l'idolatria.
Anzi non aveva aspettato fino a questo tempo, perchè Libanio[377] e il
Nazianzeno[378] attestano che, appena giunto nell'Illirico, avea
ordinato che si aprissero i templi de' pagani, e che si sacrificasse
agl'idoli[379]; nè tardarono punto gli Ateniesi a valersi di questo
sacrilego indulto. Che allegrezza per questa metamorfosi provassero i
gentili, che orrore e dispiacere i cristiani, non occorre ch'io lo dica.
Corsero a gara i deputati delle città e provincie a riconoscere il nuovo
sovrano[380], portandogli delle corone d'oro; e gli Armeni ed altri re
dell'Oriente, fuorchè il persiano, e fin gl'Indiani tributarongli dei
regali. Anche dagli stessi Goti gli furono spediti ambasciatori per
rinnovare i precedenti trattati; ma Giuliano fu vicino a romperla con
loro, perchè non volea legge da que' Barbari, nè lasciarsi far paura,
com'era avvenuto sotto il precedente Augusto. Quindi si diede a riformar
la corte imperiale per risparmiare le spese, cassando una prodigiosa
quantità di cuochi, barbieri ed altri simili, ed anche più riguardevoli
uffiziali, che mangiavano a tradimento il pane del principe.
Specialmente mandò a spasso tutti coloro che aveano servito a Costanzo,
non distinguendo i buoni dai cattivi[381], e sostituendo degli altri a
suo talento. Ancorchè Ammiano[382] pretenda che la maggior parte di
costoro fosse piena di vizii, e s'ingrassasse a forza d'iniquità e di
rubamenti, con dire fra le altre cose che avendo Giuliano dimandato un
barbiere per farsi tosare, se gliene presentò uno sì magnificamente
vestito, che Giuliano gridò[383]: _L'ordine mio è stato che si chiamasse
un barbiere, e non già un senatore_: contuttociò lo stesso Ammiano
condanna sì rigorosa riforma da lui fatta, con ridurre tanta gente in
una misera povertà. Libanio[384] all'incontro il loda forte per questo,
aggiugnendo ch'egli ristrinse al numero di mille e settecento coloro che
si chiamavano _agentes in rebus_, ufficiali del fisco, poco diversi, o
pure gli stessi che i curiosi e frumentarii, cioè ispettori ed esattori
che si mandavano per le provincie. Dianzi si contavano dieci mila di
costoro.
Qui nondimeno non si fermò Giuliano. Eresse un tribunal di giustizia,
affinchè quivi si ascoltassero le molte querele de' particolari contro
gli uffiziali del defunto Costanzo. Capo ne fu _Sallustio Secondo_,
dichiarato prefetto del pretorio d'Oriente, a cui furono aggiunti
_Mamertino_ e _Nevitta_, consoli di quest'anno, _Arbezione_ ed
_Agilone_[385]. Costoro, iti a Calcedonia, cominciarono a processar
chiunque non godea la grazia di Giuliano, principalmente chi gli era in
disgrazia. _Palladio_, già mastro degli uffizii (splendida dignità della
corte), fu relegato in Bretagna; _Tauro_, già prefetto del pretorio, a
Vercelli, benchè non sel meritasse; _Fiorenzo_, anch'esso mastro degli
uffizii, in un'isola della Dalmazia. L'altro _Fiorenzo_ già prefetto del
pretorio delle Gallie, che aveva irritato forte Giuliano, se ne fuggì
colla moglie, e nascoso stette finchè visse Giuliano, perchè contra di
lui fulminata fu la sentenza di morte. D'altri cospicui uffiziali
processati e condannati chi all'esilio, chi a perdere il capo, parla
Ammiano; e perchè non solo a' colpevoli, ma anche a molti innocenti si
stesero le condannagioni, Giuliano si tirò dietro le maledizioni, non
che le mormorazioni de' suoi parziali, e molto più di chi era nemico,
per sì fatte crudeltà. Con tal occasione si può dire che cominciò la
persecuzione di Giuliano contra de' cristiani, perchè tutti i cortigiani
professanti la legge santa di Cristo furono da lui cacciati fuori del
palazzo. Dalle lettere del medesimo Giuliano[386] risulta, aver esso
invitato alla sua corte Massimo filosofo, quello stesso che poco fa
dicemmo essergli stato maestro di magia[387], e dell'arte empia ed
ingannatoria di cercar l'avvenire. Allorchè seguì l'arrivo di costui
alla corte[388], Giuliano era nel senato, e, dimenticata la propria
dignità, corse ad incontrar l'impostore, come se fosse stato qualche re,
o divinità, abbracciandolo e baciandolo: azione lodata da Libanio, ma
ritrovata assai impropria da Ammiano. Questa sua eccessiva degnazione
verso le barbe de' filosofi cagion fu che altri di tal professione[389]
a folla accorsero da varie parti alla corte; alcuni anche vi furono
chiamati. Di carezze e belle parole certamente si mostrò liberale con
esso loro il filosofo imperadore: di tanto in tanto teneva ancora alcun
di essi alla sua tavola, e beveva alla lor salute: pavoneggiavasi
inoltre, nell'uscir di palazzo, di esser corteggiato da essi; ma in fine
i più di loro lasciava colle mani piene di mosche, e laddove erano
coloro venuti lusingandosi di far gran fortuna, si trovavano poi
costretti, per non morir di fame, a ritornarsene delusi ai lor paesi,
maledicendo non so dire se più la furberia ed avarizia di Giuliano, o
pure la stolta loro credulità. Ci lasciò san Giovanni Grisostomo[390]
una descrizion della corte d'esso Giuliano, tale che fa orrore.
Imperocchè, appena si seppe ristabilita da lui l'idolatria, e come egli
era perduto dietro allo studio dell'avvenire, che da ogni banda
fioccarono colà maghi, incantatori, auguri, indovini, e simil razza di
gente, alcuni dei quali di pezzenti divenivano appresso non solo
sacerdoti, ma pontefici del gentilesimo. Con costoro si tratteneva
Giuliano, poco curando i generali e magistrati; e qualora usciva in
pubblico, il seguitava un infame corteggio di tali ciurmatori; nè vi
mancava quello di molte femmine che professavano le medesime empie arti
ed illusioni, uscite da' bordelli e d'altri luoghi, dove vendevano le
inique loro mercatanzie. In testimonio di questa verità il Grisostomo
chiama moltissimi tuttavia allora viventi, e ben pratici della corte
dell'apostata Augusto. E il Nazianzeno[391], che fioriva nell'istesso
tempo, ci assicura che si vedeva Giuliano mangiare pubblicamente e
divertirsi con quelle infami donne, coprendo quest'obbrobrio col
pretesto ch'esse servivano alle cerimonie dei suoi sagrifizii e misteri.
E tale era la vita di questo imperatore, il quale nientedimeno non
ometteva di applicarsi ai pubblici affari, come consta da molte sue
leggi[392]; ed era frequente al senato, dove spezialmente campeggiava la
di lui vanità nel recitar delle arringhe ed orazioni, e nel decidere le
liti. Volendo poi esercitare la gratitudine verso di Costantinopoli
patria sua, per attestato di Zosimo[393], vi costituì un senato simile a
quel di Roma. Ma sapendosi che anche prima d'ora un senato v'era in
quella gran città, vorrà egli dire che gli concedè i privilegii medesimi
e lo stesso decoro che godeva il senato di Roma. Vi fabbricò eziandio un
porto che difendesse dal vento australe le navi, ed anche un portico che
guidava ad esso porto, della figura del sigma greco, che si solea allora
scrivere come il C de' Latini. Formò ancora[394] sopra il portico regale
una biblioteca, dove ripose quanti libri egli possedeva. Studiossi
ancora di condurre da Alessandria colà un obelisco: cosa già meditata
dall'imperador Costanzo, ma nè pure da lui eseguita dipoi per la sua
morte. Di questo parla egli in una epistola da me data alla luce[395].
Bella azione dovette poi parere quella di Giuliano[396], allorchè liberò
dell'esilio tutti i vescovi già banditi da Costanzo ariano, uno de'
quali fu santo Atanasio, benchè poi nel seguente anno per ordine del
medesimo Giuliano di nuovo ne fosse cacciato. Ma infin lo stesso
Ammiano, e poi Sozomeno[397] ed altri chiaramente riconobbero aver ciò
fatto il malizioso Augusto, non già per alcun buon cuore verso i pastori
del popolo cristiano, ma affinchè, trovandosi eglino liberi, si
continuassero come prima le civili discordie tra loro, cioè tra'
cattolici, ariani, donatisti, macedoniani ed eunomiani; e la plebe
interessata in quelle contese non pensasse a far tumulti e sedizioni
contra del regnante: il che fu ancora avvertito da sant'Agostino in
riguardo ad essi donatisti. Dieci mesi pretende Zosimo[398] che Giuliano
si fermasse in Costantinopoli. Dovea dire quasi otto; imperciocchè le
leggi del Codice Teodosiano[399] cel rappresentano in quella città forse
per tutto maggio. Di là poi mosse per passare in Antiochia con disegno
di far pentire i Persiani di tanti danni recati al romano imperio. Per
qualche tempo si fermò nella Bitinia; e massimamente in Nicomedia, città
sì grandiosa ne' tempi addietro, e diroccata dal terribil tremuoto
dell'anno 358: il che cavò le lagrime dagli occhi di Giuliano, e dalla
sua borsa molto danaro per riparar quelle rovine. Una sua legge abbiamo
quivi data nel luglio del presente anno. Per viaggio visitò quanti
templi famosi la gentilità avea riaperti in quelle parti, sagrificando
dappertutto con gioia immensa de' pagani e dolor de' cristiani. Non finì
il luglio che giunse ad Antiochia, ricevuto con acclamazioni indicibili
da quel popolo, e molte leggi si veggono date da lui nei susseguenti
mesi in quella città[400]. Quivi si applicò ad ascoltar le querele dei
particolari, e a decidere le loro liti con giuste bilancio, e senza
guardar in faccia a chi che sia, nè qual fosse la di lui religione.
Confessa nondimeno Ammiano ch'egli camminava in ciò con troppa fretta, e
che, conoscendo poi la leggerezza del suo ingegno e l'impetuosità della
sua collera, raccomandava ai suoi assessori di frenarlo, per non
fallare. Un dì si presentò a' suoi piedi Teodoto, uno de' primi
cittadini di Jerapoli, ma tremando, perchè sapeva d'essere in disgrazia
di lui. Giuliano il ricevette con volto cortese, e gli disse[401] che se
ne ritornasse a casa senza paura, affidato dalla clemenza di un principe
che solamente bramava di sminuire il numero de' suoi nemici con farseli
amici. Belle parole, quand'anche in Antiochia fece continuar i processi
e le condanne contra di molti, da' quali si pretendeva offeso. Ed in
essa città ancora si diede più che mai a perseguitare i cristiani, per
l'odio che portava alla lor religione, e per rabbia, sapendo di essere
detestato da essi, essendovi stati alcuni che a visiera calata lo aveano
rimproverato per la sua apostasia ed empietà. Fin sotto il precedente
anno già dicemmo aver gli dato principio a sfogar questo suo mal animo
contra d'essi cristiani, cacciando dalla sua corte chiunque abborriva di
adorare i suoi falsi dii, uno de' quali specialmente fu celebre[402],
cioè san _Cesario_, fratello di san Gregorio Nazianzeno, e medico suo,
che generosamente abbandonò il posto per non abbandonar la fede di Gesù
Cristo. Escluse dipoi dalla milizia tutti i cristiani; ordinò che niuna
carica si desse, se non agli amatori degl'idoli; proibì ai Cristiani
l'insegnare ed imparar le scienze e le belle lettere. E quantunque non
osasse pubblicamente di levar la vita a chi seguitava la legge di
Cristo, perchè infinito era il lor numero, ed egli paventava delle
sollevazioni: pure in segreto gran copia ne fece uccidere, e sotto di
lui la Chiesa contò moltissimi gloriosi martiri[403], senza poter nè
pure raccogliere il numero di tutti. Mise anche in opera tutte le arti,
lusinghe e premii per sovvertire i medesimi cristiani; e pur troppo non
pochi ne trovò che si lasciarono vincere da così dolci batterie. Ma
intorno a ciò rimetto io il lettore agli Annali Ecclesiastici del
Baronio[404], e sopra tutto al Tillemont[405], che egregiamente ha
trattato questo argomento, siccome ancora al Fleury nella sua Storia
Ecclesiastica[406].
NOTE:
[360] Ammian., lib. 21, c. 11 et 12.
[361] Julian., Epist. LI.
[362] Idem, in Misopog.
[363] Socrates, Hist., lib. 3, c. 1.
[364] Julian., Epist. LI.
[365] Socrates, Histor., lib. 3, cap. 1. Libanius, Orat. V et XII.
[366] Liban., Orat. X.
[367] Eunap., Vit. Sophist., cap. 5. Socrat., Hist., lib. 3, cap. 1.
Liban., Orat. V.
[368] Ammianus, lib. 16.
[369] Theodoret., Hist., lib. 3, c. 1. Gregorius Nazianz., Orat. III.
[370] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[371] Ammianus, lib. 16. Julian., in Misopog. Libanius, Orat. X et XII.
[372] Socrat., lib. 3, cap. 1.
[373] Ammian., lib. 22, cap. 2.
[374] Gregor. Nazianz., Orat. XXI.
[375] Socrat., lib. 3, cap. 1.
[376] Ammianus, lib. 22, cap. 5.
[377] Liban., Orat. XII.
[378] Gregor. Nazianz., Orat. III.
[379] Julian., Epist. ad Atheniens.
[380] Julian., in Misopog. Eunap., Vit. Sophist.
[381] Liban., Orat. X.
[382] Ammianus, lib. 22, cap. 4.
[383] Zonaras, in Annal.
[384] Liban., Orat. X.
[385] Ammianus, lib. 22, cap. 3.
[386] Julian., Epist. XXXVIII.
[387] Liban., Orat. XII.
[388] Ammianus, lib. 22, cap. 7.
[389] Gregor. Nazianz., Orat. IV. Eunapius, Vit. Sophist., cap. 5.
Socrates, lib. 3, cap. 1.
[390] Chrysostomus, in Gent.
[391] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[392] Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.
[393] Zosimus, lib. 3, cap. 11.
[394] Julian., Epist. LVIII. Themistius, Orat. IV.
[395] Anecdota Graeca, pag. 325.
[396] Ammian., lib. 22, cap. 5.
[397] Sozomen., lib. 5 Hist., cap. 5. Chron. Alexandr. Chrysost., Orat.
II in Babyl.
[398] Zosimus, lib. 3, cap. 11.
[399] Gothofred., Chronol. Cod. Theod.
[400] Ammian., lib. 22, cap. 10.
[401] Ammian., lib. 22, cap. 14.
[402] Gregor. Nazianz., Orat. IV.
[403] Idem, Orat. III. Theodor., lib. 3. Hist., cap. 11 et seq.
[404] Baron., in Annalib. Eccl.
[405] Tillemont, Mémoires pour l'Histoire Ecclesiastiq.
[406] Fleury, Hist. Eccl.
Anno di CRISTO CCCLXIII. Indizione VI.
LIBERIO papa 12.
GIOVIANO imperadore 1.
_Consoli_
FLAVIO CLAUDIO GIULIANO AUGUSTO per la quarta volta e SECONDO SALLUSTIO.
Era questo _Sallustio_ console anche prefetto del pretorio delle Gallie,
e diverso da un altro _Sallustio_ prefetto del pretorio d'Oriente,
siccome può vedersi presso il padre Pagi[407]. _Lucio Turcio Secondo
Aproniano Asterio_, uno de' senatori che da Roma furono inviati a
Giuliano, fu creato prefetto di Roma in questo anno, ed è sommamente
lodato da Ammiano[408] pel buon governo che fece col mantenervi
l'abbondanza de' viveri e la pace, e col perseguitar severamente gli
incantatori e malefici che il paganesimo produceva in gran copia. Volle
Giuliano onorato il suo consolato da un panegirico di _Libanio sofista_,
e questo l'abbiam tuttavia. Varii segni diede in questi tempi Iddio
dello sdegno suo con molte calamità inviate all'imperio romano, le quali
avrebbono potuto avvertir Giuliano della sua empietà, s'egli fosse stato
capace di correzione[409]. Frequenti furono i tremuoti che afflissero
molte città. Nicomedia stessa che, per ordine di Giuliano, cominciava a
risorgere, tornò di nuovo alle primiere rovine. Nicea in gran parte andò
per terra; e Costantinopoli corse rischio di un eguale esterminio.
Libanio[410] è testimonio che ne patirono forte le città della Palestina
e della Libia, e traballarono le più grandi della Sicilia e tutte quelle
della Grecia. Si bruciò in Roma il tempio d'Apollo, e nell'ottobre
antecedente era del pari rimasto divorato dalle fiamme l'altro insigne
tempio d'Apollo esistente in Dafne, luogo posto in vicinanza
d'Antiochia[411]. Trovavasi allora in essa città Giuliano; e perchè
sospettò che il fuoco fosse stato attaccato dai cristiani per l'odio che
professavano contra di lui, fece far molti processi, tormentar molte
persone, e chiudere la chiesa maggiore. Anche Alessandria in Egitto
restò fieramente inondata e danneggiata dal mare a dismisura gonfiato. A
questi mali si aggiunse una orribil carestia che afflisse tutto il
romano imperio, e fu seguitata dalla peste: malori che fecero perire una
gran quantità di persone. Entrò la fame con Giuliano in Antiochia, o pur
crebbe a cagion della numerosa sua corte[412]. Il popolo smaniava, e
portò i suoi lamenti ad esso imperadore, con accusare i ricchi, come
cagione del caro de' viveri, tenendo chiusi i loro granai. A questo
disordine si credette di rimediare col suo gran senno Giuliano, tassando
il prezzo di essi viveri assai bassamente. Ne seguì appunto un effetto
tutto contrario a' suoi disegni, perchè laddove prima si scarseggiava
solamente di grano, venne anche a mancare l'olio, il vino ed altre
specie di commestibili, non potendo i mercatanti vendere a quel basso
prezzo la vettovaglia senza rovinarsi. Questa imprudenza di Giuliano
vien condannata fin da Ammiano[413] e da Libanio[414] suoi panegiristi.
Ma il popolo d'Antiochia, che, oltre all'essere naturalmente inclinato
alla satira e alle pasquinate, si trovava per la fame assai malcontento
di Giuliano[415], e maggiormente ancora perchè, troppo avvezzo agli
spettacoli pubblici, osservò che Giuliano gli abborriva, e di alcun
d'essi non li regalò: quel popolo, dissi, ne fece quella vendetta che
potè, dileggiandolo pubblicamente con dei motti pungenti, e deridendolo
con dei versi satirici[416]. Specialmente mettevano in burla la di lui
piccola statura, benchè marciasse con passi da gigante, e la sua lunga
barba, per cui somigliava un caprone, e con cui si poteano far delle
funi. Gli davano il titolo di macellaio per tante bestie ch'egli svenava
ne' suoi empii sagrifizii. Similmente il beffavano per la vanità di
portar egli colle proprie mani i vasi ed altre cose sacre, facendo
piuttosto la funzion di sagrificatore che di principe. Si può ben
credere che molti cristiani, dei quali era senza paragone più che di
pagani piena Antiochia, ebbero parte con imprudenza a questi scherni
dell'apostata Augusto. Al vedersi Giuliano sì sconciamente messo in
commedia[417], smaniava ben per la collera, e minacciava pene e scempii
a quell'indiscreto popolo; ma perchè la positura de' suoi affari non gli
permetteva di venir per ora a verun pubblico gastigo, la vendetta che ne
fece, fu di comporre coll'aiuto di Libanio una invettiva[418] satirica
contro il popolo d'Antiochia, intitolata _Misopogon_, cioè _Nemico della
barba_, carica di velenose ironie, spacciando que' cittadini per gente
interessata, data al lusso, alla crapola, vana, e perduta unicamente
dietro a' teatri e alle bagattelle. Pubblicò egli solamente nel gennaio
di quest'anno essa satira, applaudita non poco dai parziali pagani, ma
derisa prima e dopo la morte di lui dai cristiani. Il peggio fu ch'essa
ad altro non servì[419] che ad aguzzar maggiormente le lingue di quel
popolo contro di lui. In questi tempi evidente fu, celeste e degno di
grande attenzione, un miracolo operato dalla mano di Dio. Avea conceduto
Giuliano, per far dispetto ai cristiani, che i Giudei potessero
rimettere in piedi il loro tempio di Gerusalemme. Corsero da tutte le
parti costoro con immense oblazioni d'oro per eseguire la disegnata
fabbrica. Demolirono le reliquie dell'antico tempio per farne un nuovo,
venendo essi a verificar sempre più la predicazione di Gesù Cristo[420].
Ma dacchè ebbero ben cavato per cominciare i fondamenti, ecco un
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