Annali d'Italia, vol. 2 - 73

[2984] Gregor. Turonensis, lib. 9, cap. 25.
[2985] Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 28.
[2986] Theophilact., lib. 3, cap. 4.
[2987] Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 27.


Anno di CRISTO DLXXXIX. Indizione VII.
PELAGIO II papa 12.
MAURIZIO imperadore 8.
AUTARI re 6.
L'anno VI dopo il consolato di MAURIZIO AUGUSTO.

Giacchè non era riuscito al re Autari di ottenere in moglie la
principessa del sangue reale di Francia, rivolse egli le sue mire ad
avere _Teodelinda_, figliuola di _Garibaldo_ duca di Baviera, a cui
Paolo Diacono dà il titolo di re, secondo il costume di altri scrittori.
Abbiamo da Fredegario[2988] che tra questa principessa e _Childeberto_
re de' Franchi erano seguiti gli sponsali di futuro matrimonio. Ma la
regina _Brunichilde_, madre d'esso re, una delle grandi faccendiere e
sconvolgitrici delle corti dei re franchi, disturbò quelle nozze. Rotto
questo trattato, Autari inviò colà un'ambasceria a far la dimanda di
Teodelinda[2989], e Garibaldo molto volentieri vi acconsentì. Ricevuta
questa risposta, e desiderando egli di veder co' suoi occhi la novella
sua sposa, prese occasione di mandar dei nuovi ambasciatori colà, e
fingendo d'esser anche egli uno d'essi, travestito s'accompagnò con
loro. Il capo dell'ambasceria era un vecchio, che ammesso con gli altri
all'udienza del duca Garibaldo, espose quanto gli occorreva per parte
del suo signore. Dopo di lui si fece avanti l'incognito Autari, e disse
che a lui in particolare era stata data dal suo re l'incumbenza di
vedere la principessa Teodelinda per potergli riferire le di lei belle
qualità, già intese per fama. Fece Garibaldo venir la figliuola; ed
Autari ben guatatala da capo a piedi, se ne compiacque forte, e disse
che certamente il re de' Longobardi sarebbe ben contento d'avere una
tale sposa, e il popolo una tale regina. Poscia il pregò che fosse loro
permesso di riconoscerla per tale con ricevere da lei il vino, secondo
l'uso della nazion longobarda. Fece Garibaldo portar da bere, e
dappoichè Teodelinda ebbe data la coppa al capo degli ambasciatori, la
porse all'ignoto Autari; ma questi, in renderla alla principessa, senza
che alcun vi facesse mente, le toccò gentilmente la mano, e nel baciare
il bicchiere, fece in maniera ch'essa mano della principessa gli toccò
la fronte, il naso e la faccia. Raccontò poi Teodelinda questo fatto
alla sua balia, e non senza rossore. Rispose la donna accorta: _Signora,
niun altro avrebbe osato toccarvi, se non chi ha da essere vostro
marito. Ma zitto, che il duca vostro padre nol sappia._ Soggiunse dipoi:
_Voi siete ben fortunata di aver per isposo un principe sì degno e
cotanto leggiadro._ Era in fatti allora il re Autari nel fiore della sua
età, di bella statura, con chioma bionda, e di grazioso aspetto. Se
n'andarono gli ambasciatori, ed Autari nell'uscir dei confini della
Baviera, appena fatti i complimenti a que' Bavaresi che lo aveano
accompagnato, s'alzò sulle staffe quanto potè, e scagliò con tutta forza
una picciola scure ch'egli teneva in mano, verso dell'albero più vicino;
ed essendo questa andata a conficcarsi profondamente in esso, allora
disse: _Autari sa fare di queste ferite_; e ciò detto, spronò il
cavallo, e se ne andò con Dio, lasciando i Bavaresi assai persuasi che
questo galante ambasciatore era il principe stesso.
Potrebbe essere che queste ambasciate fossero andate nel precedente
anno. Egli è ben da credere che nel presente si effettuasse il
matrimonio suddetto. Racconta lo storico longobardo, che dopo qualche
tempo arrivarono dei torbidi in Baviera al duca Garibaldo a cagione
dell'arrivo de' Franchi: il che ha dato motivo ai moderni scrittori
franzesi[2990] di credere che il re d'Austrasia _Childeberto_, mirando
di mal occhio l'amistà e congiunzione di sangue e d'interessi, che
s'andava a stabilire fra il duca Garibaldo, suo vassallo, e il re dei
Longobardi, all'improvviso facesse marciare un'armata in Baviera, che vi
recò dei gravi danni, e tentò di sorprendere _Teodelinda_. Paolo Diacono
altro non racconta se non quel poco che ho riferito di sopra, con
aggiugnere appresso che questa principessa se ne fuggì verso l'Italia
con _Gundoaldo_ suo fratello, e fece sapere al re Autari la sua venuta.
È ignoto ciò che accadesse al duca Garibaldo suo padre, e nulla di più
se n'ha da Gregorio Turonense e da Fredegario. Vedremo bensì fra qualche
tempo che a lui succedette _Tassilone_ nel ducato della Baviera. Andò il
re Autari incontro a Teodelinda con un grande apparato, e celebrò dipoi
con universale allegrezza le nozze nella campagna di Sardi di sopra a
Verona nel dì 13 di maggio. In quella occasione scrive Paolo che un
fulmine cadde sopra un legno nel recinto, dove era la corte, e che uno
degli indovini Gentili che _Agilulfo duca di Turino_ avea seco condotto,
gli predisse non dover passare gran tempo che la donna poco fa sposata
dal re Autari diverrebbe moglie di esso Agilulfo. A costui minacciò
Agilulfo di tagliargli la testa, se mai più gli scappava detta parola di
questo; ma l'indovino insistè che si avvererebbe la sua predizione,
siccome in fatti seguì. Ma non è se non bene l'andare adagio in prestar
fede a cotali dicerie, che non rade volte nascono dopo il fatto. Fu
ucciso in Verona nel tempo d'esse nozze _Ansullo_ parente del re Autari,
e Paolo Diacono non potè penetrarne la cagione. A' tempi ancora d'esso
Paolo correa voce[2991] che circa questi tempi il re Autari, passando
pel ducato di Spoleti, arrivasse fino a Benevento, con impadronirsi di
quel paese: e poscia arrivasse fino a Reggio di Calabria, dove, avendo
osservata una colonna posta alquanto nel mare, spinto innanzi il
cavallo, la toccò colla punta della spada con dire: _Fin qua arriverà il
confine dei Longobardi_. Ed era fama che tuttavia quella colonna fosse
chiamata _la colonna d'Autari_. Ma di questi fatti Paolo altro
mallevadore non ebbe se non la tradizione del volgo, fondamento molte
volte fallace per farci conoscere il vero. Però varii letterati hanno
disputato intorno all'origine dell'insigne ducato di Benevento, il quale
non si può credere che avesse principio in quest'anno, quando si ammetta
col medesimo Paolo[2992] che _Zottone_ primo duca governasse quel ducato
per anni venti. Neppur sembra verisimile ciò che Camillo Pellegrino
immaginò, cioè che il ducato suddetto nascesse anche prima della venuta
del re Alboino in Italia. Probabilmente ne' primi sette anni dopo la lor
calata i Longobardi s'impadronirono di buona parte della Campania e
della Puglia, e vi fondarono un ducato di cui fu capo Benevento, e che
s'andò a poco a poco dilatando, fino ad abbracciar il regno, appellato
ora di Napoli, a riserva della città medesima di Napoli e di alquante
altre marittime, che si tennero forti nella divozion dell'imperio.
Reggio di Calabria era di queste; e però quantunque Autari fuori di essa
città potesse veder quella colonna, pure è più probabile ch'egli non
arrivasse fin là. Fu quest'anno funesto all'Italia per un terribil
diluvio d'acque, a cui un simile da più secoli non s'era veduto. Il
Tevere crebbe nel mese di novembre ad una sterminata altezza in Roma, vi
diroccò molte case, empiè i magazzini dei grani con perdita di molte
migliaia di moggia d'essi, e fece altri malanni. Ne abbiamo per
testimoni i due santi Gregorii[2993], allora viventi, cioè il Grande e
il Turonense. Dal primo de' quali, siccome ancora da Paolo
Diacono[2994], sappiamo che per le provincie della Venezia e Liguria,
anzi per tutte l'altre d'Italia, si provò questo flagello. Portò esso
con seco le lavine d'assaissimi poderi, e ville intere nelle montagne,
una gran mortalità d'uomini e di bestie, e ne rimasero disfatte le
strade. Racconta san Gregorio Magno un miracolo succeduto in Verona,
dove il fiume Adige tanto si gonfiò, che l'acque sue giunsero sino alle
finestre superiori della basilica di san Zenone martire, la quale era
allora fuori di quella città. Ma quantunque fossero aperte le porte
d'essa basilica, le acque non entrarono dentro, e servirono come di muro
alla stessa basilica. Si trovava allora in quella città il re Autari, e
questa inondazione si tirò dietro in qualche parte la rovina delle mura
di Verona, la qual città da lì a due mesi restò per la maggior parte
disfatta da un furioso incendio. Alle inondazioni suddette venne poi
dietro la peste, di cui parlerò nell'anno seguente.
NOTE:
[2988] Fredegarius, in Chron., cap. 34.
[2989] Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 29.
[2990] Daniel, Histoire de France tom. 1.
[2991] Paulus Diaconus, de Gestis Langobard., lib. 3, cap. 31.
[2992] Paulus Diaconus, de Gestis Langobard., lib. 3, cap. 32.
[2993] Greg. Magnus, Dialog. lib. 3, cap. 19. Gregor. Turonensis, lib.
10, cap. 1.
[2994] Paulus Diaconus, lib. 3, cap. 23.


Anno di CRISTO DXC. Indizione VIII.
GREGORIO I papa 1.
MAURIZIO imperadore 9.
L'anno VII dopo il consolato di MAURIZIO AUGUSTO.

Crebbero dunque nell'anno presente le calamità dell'Italia per una
fierissima pestilenza che privò di vita una innumerabil moltitudine di
gente. Specialmente infierì essa nella città di Roma[2995], e colto da
questo medesimo malore papa _Pelagio II_, passò a miglior vita nel dì 8
di febbrajo. Si venne all'elezione del successore, e i voti concordi del
clero, senato e popolo concorsero a voler papa _Gregorio_, diacono della
Chiesa romana, che santamente vivea nel monistero di sant'Andrea,
dappoichè fu richiamato da Costantinopoli. Piacque sommamente a tutti
una tale elezione, fuorchè ad un solo, e questi fu lo stesso Gregorio,
il quale per ischivar questo peso ed onore, secondo che attestano il
suddetto Turonense e Giovanni Diacono[2996], spedì segretamente delle
lettere a Maurizio imperadore, supplicandolo, con quante ragioni potè,
di non confermare la sua elezione. Era già passato in uso l'abuso, come
altrove s'è detto, che restasse libera al clero, senato e popolo romano
l'elezione del papa; ma non si potea venire alla di lui consecrazione
senza il consenso e l'approvazione degl'imperadori. Crede il cardinal
Baronio che san Gregorio altamente detestasse, come una eresia,
l'introduzion di questo legame, perchè suppone opera d'esso pontefice
una sposizione de' Salmi Penitenziali, che è alle stampe. Ma gli eruditi
oggidì pretendono che quell'opera uscisse dalla penna di _san Gregorio
VII_ papa, a cui certamente convien quel linguaggio; nè avrebbe _san
Gregorio Magno_ voluto valersi di questo ripiego per sottrarsi al
pontificato, se l'avesse creduto un tirannico sacrilegio, ed avesse
tenuto _Maurizio_ Augusto uguale a Nerone e a Diocleziano, come tenne
l'autore della sposizione suddetta. Ma scoperto il disegno dell'umile
servo di Dio Gregorio, il prefetto di Roma, suo fratello, oppure Germano
di nome, fece prendere per istrada le di lui lettere, e ne scrisse egli
dell'altre all'imperadore, con addurre tutte le ragioni di dover
confermare in tempi sì scabrosi il pontificato nella persona di
Gregorio, nobile, perchè di sangue senatorio, e tale per la pietà, per
lo sapere e per altre sue rare doti, che pari a lui non si trovava in
questi tempi. Mentre si aspettavano le risposte della corte, il santo
pontefice si applicò tutto a placar l'ira di Dio in mezzo al gran
flagello della pestilenza. A tal fine instituì una general litania,
ossia processione di penitenza, con dividere in varie schiere il popolo
che vi dovea intervenire, cioè il clero secolare, gli uomini, i monaci,
le sacre vergini, le maritate, le vedove, i poveri e i fanciulli. Venne
dipoi l'assenso dell'imperadore, e cercò ben Gregorio di fuggire, ma
preso, fu per forza condotto alla chiesa, e quivi consecrato nel dì 5 di
settembre. Così la Chiesa di Dio venne ad aver un pontefice, esemplare
d'ogni virtù, le cui gloriose azioni, la vita santissima, i libri
eccellenti sono tuttavia e saranno sempre oggetto dei nostri encomii.
Intanto non rallentava l'Augusto _Maurizio_ i suoi maneggi presso
_Childeberto_ re d'Austrasia, il più potente dei re franchi, per
esterminare i Longobardi dall'Italia. Era succeduto dianzi un affare che
poteva intorbidar la buona intelligenza fra questi monarchi, se la
prudenza di Maurizio non vi avesse trovato rimedio[2997]. Spediti da
Childeberto tre ambasciatori a Costantinopoli, fecero scala in Africa a
Cartagine. Uno de' lor famigli avendo presa non so qual roba ad una
bottega, e differendo di restituirla, fu colto un dì nella piazza dal
mercatante, e preso; nè questi voleva lasciarlo, se non restituiva il
mal tolto. Il Franco, messa mano alla spada, pagò il povero mercatante
con levargli la vita. Ciò udito, il governatore della città con una
truppa d'armati e col popolo tumultuante andò all'abitazion dei legati.
Usciti fuori due d'essi, furono trucidati dall'infuriata gente.
_Grippone_ capo dell'ambasceria ne fece di gravi doglianze, e
Costantinopoli, maggiormente quivi espose le sue querele. Maurizio
Augusto irritato per l'insolenza de' suoi, ne promise una strepitosa
vendetta; e regalato ben bene Grippone, il rimandò a casa assai
contento, e con forti istanze, perchè Childeberto movesse l'armi contra
de' Longobardi. Premeva a quel regnante di riaver dalle mani
dell'imperadore il suo nipote _Atanagildo_, figliuolo d'_Ingonda_ sua
sorella, morta in Africa, e _santo Ermenegildo_ che era stato condotto a
Costantinopoli; perciò mise insieme una grande armata, composta di venti
duchi, ciascuno de' quali conduceva la gente della sua provincia.
Racconta il vescovo turonense, che _Audoaldo_ duca, venendo alla testa
del popolo di Sciampagna, arrivato a Metz, vi commise tanti saccheggi ed
omicidii, come se fosse stato un nemico della propria terra; e che
altrettanto fecero gli altri duchi, con rovinare il proprio paese, prima
di riportare vittoria alcuna de' loro nemici. Questo era uno dei brutti
costumi de' Franchi d'allora, e se ne lamentò anche il buon re della
Borgogna _Guntranno_, con avere attribuito a tanta iniquità delle sue
genti le rotte ch'egli ebbe dai Goti nella Linguadoca. Ne fo io menzione
anche per ricordare che de' Longobardi lontani dal commettere tali
eccessi coi sudditi propri, pure dicono tanto male gli scrittori loro
nemici, e all'incontro i Franchi, non certo migliori de' Longobardi, si
veggono cotanto esaltati da alcuni scrittori. Calò dunque in Italia
dalla parte della Rezia, ossia de' Grigioni, e da quella di Trento, lo
sterminato esercito dei Franchi, e de' varii popoli della Germania
sudditi del re Childeberto divisi in varie colonne. _Audoaldo_ con sei
altri duchi passò a dirittura verso Milano, e in quelle vicinanze si
accampò. _Olone_ duca arrivato a Bellinzona, terra del distretto di
Milano, dove comincia il lago Verbano, ossia Maggiore, quivi lasciò la
vita, colpito da un dardo nemico. Ed essendosi queste genti sbandate per
andar a cercar di che vivere, dovunque arrivavano, aveano addosso i
Longobardi che gli accoppavano senza remissione. Fecero nondimeno i
Franchi una prodezza nel territorio di Milano. Eransi portati i
Longobardi lungo le sponde di un laghetto, da cui esce un fiumicello a
noi ignoto. Giunti colà i Franchi, videro un Longobardo sulla riva
opposta armato di tutto punto, che disse loro: _È venuto il dì, in cui
si vedrà a chi Dio voglia più bene._ Passarono di qua dal fiume alcuni
pochi Franchi, e messisi addosso a costui, tante gliene diedero, che lo
stesero morto a terra. Allora i Longobardi, raccolte le lor bagaglie, si
ritirarono tutti, di modo che i Franchi non trovarono in quel sito se
non i segni che vi erano stati nemici. Tornarono poscia al loro
accampamento, e colà giunsero i legati dell'imperadore per avvisarli che
era in marcia per venire ad unirsi con loro l'esercito cesareo fra tre
giorni, e se ne accorgerebbono allorchè vedessero data alle fiamme una
villa ch'era sul monte. Aspettarono i Franchi per sei giorni, e mai non
videro comparire alcuno. _Cedino_, ossia _Ghedino_, duca con tredici
altri duchi entrato dalla parte di Trento in Italia, prese cinque
castella, e si fece giurare ubbidienza da que' popoli.
Il re Autari da due parti assalito con tante forze, prese in questa
congiuntura il saggio partito di tener ben guardati i luoghi forti e le
città, dove s'erano rifugiate le genti col loro meglio, lasciando la
campagna alla discrezione, ossia indiscrezion de' nemici. S'era
specialmente ben fortificato egli e provveduto in Pavia. Ma ciò che non
poterono far le spade, lo fece l'aria della state, a cui non erano usati
i Franchi e gli Alamanni: cioè s'introdusse la dissenteria in quelle
armate, e ne fece una grande strage. Vi si aggiunse anche la fame per la
mancanza de' viveri, in guisa che essendo oramai troppo sminuito
l'esercito, determinarono que' capitani, dopo tre mesi di scorrerie
fatte per la Liguria e per i contorni, di tornarsene al loro paese. Ma
nel ritorno la fame li maltrattò cotanto, che furono obbligati a vendere
infin l'armi e il vestito per aver da mangiare e per poter giugnere vivi
a casa. Nel passare ancora per alcuni paesi (forse de' Grigioni o del
Trentino) che erano stati una volta sotto il dominio del re _Sigeberto_,
padre del re _Childeberto_, diedervi il sacco, e fecero schiavi quanti
caddero nelle loro mani. Con tali particolarità racconta Gregorio
Turonense questa guerra de' Franchi, i quali o non vollero per politica
far danno maggiore ai Longobardi, o non poterono per debolezza; perchè
allora non si facea la guerra, come oggidì si pratica, con tanti
attrecci, provvisioni di buoni magazzini e maniere di forzar anche le
città più forti. Son di parere alcuni scrittori pavesi, che in questa
occasione la città di Ticino fosse presa da _Papio_, uno de' duchi
franchi, e cominciasse da lì innanzi a chiamarsi _Papia_, oggidì
_Pavia_. Son questo favole prive d'apparenza, non che di fondamento di
verità. Era anticamente quella città ascritta alla _tribù papia_. Di là
conghietturo io che possa essere venuta la mutazion del suo nome.
Paolo Diacono[2998], secondo il solito, copiò qui fedelmente il racconto
di Gregorio Turonense, con solamente aggiugnere che l'esercito franzese
giunse nel territorio di Piacenza, e di là arrivò fino a Verona, con
ispianar molte castella, non ostante i giuramenti di salvar quei luoghi,
allorchè spontaneamente loro si renderono gli abitanti, credendo i
Franchi gente da mantener parola. Nel territorio di Trento specialmente
diroccarono Tesana, Maleto, Semiana, Appiano, Fagitana, Cimbra, Vizzano,
Brentonico, Volene, Ernemase e due altre castella in Alsuca, ed uno nel
veronese. Tutti gli abitanti d'esse castella furono condotti in
ischiavitù. Quei soli del castello della Verruca, in numero di secento,
per l'interposizione d'_Ingenuino_ vescovo di Sabione (il cui vescovato
fu poi trasferito a Brixen) e di _Agnello_ vescovo di Trento, ebbero la
fortuna di potersi riscattare con pagare un soldo di oro per cadauno. Ma
questa guerra fu di maggior conseguenza di quel che apparisca dal
racconto del Turonense e di Paolo Diacono, il quale si accinse a
scrivere la storia de' Longobardi con poche notizie. Noi abbiam delle
lettere pubblicate dal Freero e dal Du-Chesne[2999], e scritte parte dal
re _Childeberto_ a _Maurizio_ Augusto, a _Giovanni_ patriarca di
Costantinopoli, ad _Onorato_ aprocrisario del papa, a _Domiziano_
vescovo di Melitina e consigliere cesareo, a _Paolo_ padre
dell'imperadore e ad altri ufficiali della corte imperiale, dove si fa
menzione dei legati inviati a Costantinopoli, e della lega che si
manipolava fra questi principi contra de' Longobardi. Ve n'ha dell'altre
della regina _Brunichilde_ a _Costantina_ Augusta moglie dell'imperador
Maurizio, in cui le raccomanda forte _Atanagildo_ suo nipote, e ad
_Anastasia_ Augusta vedova di Tiberio Costantino imperadore, al suddetto
_Atanagildo_ e allo stesso _Maurizio_ Augusto. Ma specialmente son degne
di attenzione due lettere, la prima delle quali è scritta al re
Childeberto da esso imperadore, in cui gli fa sapere che prima ancora
dell'arrivo in Italia dei duchi franzesi, era riuscito all'armata
cesarea di prendere per battaglia le città di _Modena_, d'_Altino_ e di
_Mantova_, venendo in questa maniera ad impedir l'unione delle
soldatesche longobarde. Essersi poi inteso che uno dei duchi franzesi,
per nome _Cheno_, aveva trattato di pace con _Autari_, il quale s'era
chiuso in Pavia, essendosi anche gli altri suoi capitani colle lor
milizie ritirati in diverse castella. Che trovandosi il suddetto Cheno
duca presso Verona con ventimila combattenti, erano andati a trovarlo i
messi cesarei per concertar seco l'assedio di Pavia, la presa della qual
città avrebbe dato l'ultimo tracollo alla nazion longobarda. Ma che i
duchi franchi, dopo aver fatta una tregua di dieci mesi coi Longobardi,
se n'erano iti con Dio, senza farne parola con gli uffiziali di Cesare:
il che era da credere che sarebbe dispiaciuto non poco ad esso
Childeberto, perchè se si fosse ito di accordo, si era sull'orlo di
veder libera l'Italia dai Longobardi. Il perchè vivamente il prega di
spedire per tempo nel prossimo anno le sue armate in Italia, prima che i
Longobardi possano fare la raccolta de' grani, giacchè l'armata cesarea
non solamente s'era impadronita delle città suddette, ma erano anche
tornate alla divozion dell'imperio quelle di _Reggio_, _Parma_ e
_Piacenza_ coi loro duchi e con assaissimi Longobardi. Finalmente egli
raccomanda di ordinare che sieno messi in libertà i poveri Italiani
menati schiavi di là dai monti, perchè questa obbligazione era espressa
nei patti della lega. L'altra lettera è di _Romano_ patrizio ed esarco
di Ravenna, scritta al medesimo re _Childeberto_, con significargli la
presa delle suddette città di _Modena_, _Altino_ e _Mantova_. E che
mentre egli era in procinto di portarsi all'assedio di _Parma_, _Reggio_
e _Piacenza_, i duchi longobardi di quelle città erano venuti in fretta
a trovar esso esarco in Mantova, e s'erano messi all'ubbidienza della
_santa repubblica_ (nome usato molto in que' tempi per significare ciò
che oggi chiamiamo _sacro romano imperio_) con dargli per ostaggi i loro
figliuoli. Tornato esso esarco a Ravenna, s'era dipoi portato in Istria,
per far guerra a _Grasolfo_ nemico. Giunto colà, se gli era presentato
_Gisolfo magnifico duca, figliuolo di Grasolfo_, che nella sua giovanile
età avea ciera di voler essere migliore del padre, con offerirgli di
sottomettere sè stesso con tutto il suo esercito alla _santa
repubblica_. E che era arrivato in Italia _Nordolfo_ patrizio col suo
esercito in servigio dell'imperadore, il quale in compagnia di _Ossone_,
uomo glorioso, avea ricuperate varie città. Il perchè esso Romano,
persuaso che il re stia saldissimo nel pensiero di eseguire i patti
della lega, e massimamente sapendo ch'egli è in collera contra dei suoi
duchi, perchè erano tornati indietro senza aver soddisfatto agli ordini
di sua maestà, vorrà ben rispedire l'armata al primo tempo; ed avanti
che si faccia il raccolto de' grani, con dei capitani meglio
intenzionati; raccomandandosi soprattutto che gli faccia opportunamente
sapere qual via terranno in venendo, e a qual preciso tempo si
moveranno. In fine il supplica di dar buon ordine alle sue genti,
acciocchè non mettano a sacco, nè incendino le case degl'Italiani, in
favore e difesa de' quali sono inviate, e niuno d'essi menino in
ischiavitù, e allo incontro rilascino i già fatti schiavi.
Queste particolarità fanno abbastanza intendere che la guerra mossa in
quest'anno dall'imperadore e dal re Childeberto contra de' Longobardi,
più di quel che ne seppero i due sovrallodati storici, portò dei
vantaggi all'armi cesaree, e di pericolo al regno de' Longobardi. E se i
Franchi avessero operato di concerto e più daddovero, forse si dava
l'ultimo crollo alla signoria d'essi Longobardi in Italia. Anzi mi nasce
qui sospetto di qualche abbaglio in Paolo Diacono[3000], il quale,
siccome accennai, ci rappresentò per primo duca del Friuli _Gisolfo_, e
tale creato nell'anno 568 dal re Alboino. Ora dalla lettera apparisce
che Romano esarco era andato in Istria per far guerra a _Grasolfo_ padre
di _Gisolfo_. Forse questo _Grasolfo_ fu egli il primo duca in quelle
contrade, e, venuto a morte in quei tempi, ebbe per successore nel
ducato Gisolfo suo figliuolo, il quale andò in questi tempi a
sottomettersi all'esarco. Se nell'anno 568 Gisolfo avesse avuto il
ducato del Friuli, bisognerebbe supporlo fin d'allora capace di governar
popoli. Anzi Paolo dice che il re Alboino _Gisulfum, UT FERTUR, suum
nepotem, VIRUM per omnia idoneum, qui eidem_ (regi) _Strator erat, quem
lingua propria Marpahis appellante Forojulianae civitati, et toti
regioni illi praeficere statuit_. Ma ciò non può sussistere, perchè, per
attestato di Romano esarco, che lo aveva veduto co' propri occhi, era
assai giovinetto esso Gisolfo nell'anno 590, _in juvenili aetate_.
Adunque giusto sospetto ci è che Paolo non avesse in questo racconto
altro fondamento che la tradizion popolare, e sinceramente lo confessa
egli stesso con dire _ut fertur_; e che il primo duca del Friuli fosse
_Grasolfo_, e successivamente lo stesso _Gisolfo_ in quest'anno 590.
Dappoichè si furono ritirate dall'Italia le genti del re Childeberto,
sapendo il re Autari[3001] quanta autorità avesse in tutto l'imperio
franzese, specialmente sopra il cuore d'esso _Childeberto_ suo nipote,
_Guntranno_ re della Borgogna, uno dei tre re della Francia, allora
regnanti, principe pacifico e di tutta bontà; gli spedì degli
ambasciatori per pregarlo della sua mediazione ad ottener la pace. Gli
rappresentarono questi la divozione professata in addietro dalla nazion
longobarda ai re franchi, co' quali aveano mantenuta sempre una buona
intelligenza, senza aver meritato di essere perseguitati da loro: però
pregavano che si rimettesse buona amicizia e concordia fra le due
nazioni, esibendosi pronti, in qualunque tempo, alla difesa dei Franchi,
e che desistessero dall'ajutare un comune nemico, il quale, atterrata
l'una nazione, si sarebbe aperto il passo a minacciare e distruggere
ancor l'altra. Furono benignamente ascoltati dal re Guntranno, e poscia
inviati con qualche sua commendatizia al re Childeberto, al quale con
tutta sommessione fecero la medesima rappresentanza. Passò qualche
giorno senza che i legati avessero concludenti risposte, quando eccoti
arrivarne degli altri, spediti dalla regina _Teodelinda_ colla nuova che
il re Autari era morto; i quali pregarono similmente Childeberto di
voler concedere la pace ai Longobardi. Childeberto li congedò tutti con
delle buone parole e speranze. Fu poi da lì a non molto conchiusa questa
pace col successore d'Autari, e da lì innanzi non ebbero molestia alcuna
i Longobardi dalla parte dei Franchi: il che servì a renderli animosi,
con ridersi eglino dipoi della potenza dei greci imperadori.
In fatti diede fine in quest'anno alla sua vita il re _Autari_, mentre
era in Pavia, nel dì 5 di settembre, per attestato di Paolo Diacono, e
corse voce ch'egli morisse di veleno. Ebbe principio in esso mese di
settembre l'_indizione nona_, ed appunto si ha una lettera scritta da s.
Gregorio papa[3002] sotto la medesima Indizione, e indirizzata a tutti i
vescovi d'Italia, con far lor sapere che il _nefandissimo Autarit_
(questo è il titolo, di cui sono frequentemente ornati i re longobardi e
la lor nazione dai Romani, perchè troppe offese ne avevano ricevuto, e
tuttavia ne ricevevano. Anche i Goti erano ariani, ma di loro parlavano
in altra maniera i Romani, perchè erano sudditi di essi): che Autari,
dissi, avea nella prossima passata pasqua vietato il battezzar nella
fede cattolica i figliuoli dei Longobardi (ariani), per la qual colpa
Iddio lo aveva tolto dal mondo. Paolo Diacono scrive che Autari regnò
_sei anni_; ed essere egli morto nel principio di settembre di
quest'anno, adunque dovette egli essere eletto re verso il fine
dell'anno 584, come già dicemmo, e non già nello anno 586, come pretese
il padre Pagi, che volle seguitar Sigeberto, certamente ingannato sì nel
principio che nel fine del governo di Autari. Lo stesso Pagi accordò che
in quest'anno esso Autari lasciasse di vivere, nè poi s'avvide che i
suoi conti non batteano intorno all'epoca di questo re. Ora bisogna ben
che fossero rare le doti e le virtù della regina _Teodelinda_, benchè di
nazion bavarese, perchè non solamente seguitarono i primati longobardi a