Annali d'Italia, vol. 2 - 06
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_Consoli_
DAZIANO e NERAZIO CEREALE.
Nel grado di prefetto di Roma continuò _Memmio Vitrasio Orfito_ anche
per quest'anno. Seguitò ancora l'imperador Costanzo a trattenersi nella
Pannonia, ciò apparendo da varie sue leggi[283] pubblicate in Sirmio e
Mursa, fallata essendo la data di due, come fatte in Milano.
Trattenevasi egli in quelle parti, perchè durava la guerra coi Quadi e
Sarmati. Costoro nel verno col favore del ghiaccio fecero non poche
scorrerie nella Pannonia e Mesia superiore. Nello stesso tempo i
Giutunghi, popoli della Alamagna, infestarono la Rezia; ma spedito di
poi contra di essi Barbazione[284], gli riuscì per questa volta di dar
loro una rotta, cioè una buona lezione, per portar più rispetto da lì
innanzi alle terre de' Romani. Ora l'Augusto Costanzo sul principio di
aprile[285], ansioso di vendicarsi delle insolenze de' medesimi Barbari,
dopo aver gittato un ponte sul Danubio, passò colla sua armata ai lor
danni; ed essendosi eglino arrischiati ad affrontarsi con lui, conobbero
a loro spese quanto ben fossero affilate le spade romane. Questa lor
perdita e il guasto del loro paese li consigliò a spedire ambasciatori
per aver pace, con esibire ancora di sottomettersi. Costanzo si contentò
di obbligarli solamente a rendere i prigioni e a dar degli ostaggi,
poscia se ne tornò di nuovo nella Pannonia. E perciocchè abbiam detto
altrove, cioè all'anno 334, che i Sarmati erano stati cacciati dal
proprio paese dai loro schiavi appellati Limiganti, Costanzo, pregato di
volerli rimettere in casa, ne prese l'assunto, e con essi portò la
guerra addosso a quella canaglia. Vennero in gran copia i Limiganti a
trovar l'imperadore, con far vista di volersi sottomettere, ma con
disegno di fare un brutto scherzo ai Romani se li trovavano poco
guardinghi. Per loro disgrazia i Romani vegliavano, e al primo cenno che
fecero coloro di dar di piglio alle armi, li prevennero con tagliarli
tutti a pezzi, giacchè niun d'essi volle dimandar la vita. Ora dappoichè
ebbero sofferto un fier sacco delle loro campagne, nè potevano più
resistere a quel flagello, si ridussero i Limiganti a cedere il paese
agli antichi loro padroni, e a ritirarsi in un più lontano[286]. Il che
fatto, Costanzo ebbe la gloria di dare per re ai Sarmati un principe
della lor nazione, per nome _Zizais_, e di rimetterli in possesso dei
lor antichi beni, dopo ventiquattro anni di esilio. Per questa felice
impresa a Costanzo fu dato il titolo di _Sarmatico_ dopo il suo ritorno
a Sirmio, nella qual città egli soggiornò poi nel verno seguente. Ma non
si dee omettere un altro fatto spettante al medesimo Augusto[287]. Avea
nell'anno precedente _Musoniano_, prefetto del pretorio di Oriente,
mossa parola di pace con _Tansapore_ general de' Persiani, il quale
veramente ne scrisse al re _Sapore_ suo padrone, ma con termini che
mostravano l'imperador romano, se non bisognoso e supplicante, almeno
assai voglioso di pacificarsi con lui[288]. Perchè Sapore si trovava
alla estremità del suo regno in guerra con alcuni suoi nemici, le
lettere tardarono a giugnergli, o pure egli tardò a rispondere, finchè
ebbe terminati quegli affari. Allora egli spedì per suo ambasciatore a
Costanzo Augusto uno de' suoi ministri, per nome Narsete, con diversi
regali, e con una lettera riferita da Ammiano, carica di que' bei titoli
che tuttavia usano i vani e superbi Turchi, ed altri monarchi dell'Asia,
cioè _re dei regi, parente delle stelle, fratello del sole e della
luna_. Era essa lettera involta in bianca tela di seta: rito anche
oggidì praticato nelle corti orientali; e con essa il re persiano
parlava alto, richiedendo la restituzion d'immensi paesi stati una volta
della nazion persiana, riducendosi nondimeno a contentarsi dell'Armenia
e Mesopotamia. Scrive Idazio[289] che questa ambasceria passò per
Costantinopoli nel dì 23 di febbraio dell'anno presente, e si portò a
Sirmio a trovar lo imperadore. Anche Temistio[290] la vide prima passar
per Antiochia. Costanzo, senza voler entrare in negoziato alcuno,
rimandò l'ambasciatore con solamente rispondere che sua intenzione era
più che mai di conservare interamente lo imperio, e che darebbe mano
alla pace, purchè ne fossero onorevoli e non vergognose le condizioni.
Poscia anch'egli inviò per suoi ambasciatori a Sapore con lettere e
regali tre scelte persone[291], cioè _Prospero_ conte, _Spettato_, uno
dei suoi segretari, parente di Libanio, che ne parla in varie sue
lettere, ed _Eustazio_ filosofo, discepolo di Jamblico, di cui parla
Eunapio[292] con molta lode, o, per dir meglio, con troppa adulazione.
Nulla di pace fu conchiuso, avvegnachè Costanzo dopo qualche tempo
spedisse altri ambasciadori al Persiano: cioè _Lucilliano_ conte e
_Valente_, che vedremo a suo tempo ribello all'imperio; il perchè
continuò la rottura, nè andrà molto che la vedremo passare in guerra
viva. L'anno fu questo, in cui _papa Liberio_ ottenne da Costanzo
Augusto d'essere richiamato dall'esilio, ma con pregiudizio del suo
onore, perchè si lasciò indurre alla condannazione di sant'Atanasio, per
non condiscendere alla quale s'era esposto in addietro con eroico
coraggio a tanti patimenti. Venne egli in quest'anno alla corte di
Costanzo, esistente in Sirmio; e il padre Pagi[293] pretende che
solamente nell'anno seguente egli ritornasse a Roma, dove ripigliò il
pontificato coll'esclusione di _Felice_ già posto sulla sedia papale in
luogo suo, e cacciato fuor di Roma all'arrivo di Liberio: intorno a che
è da vedere la storia ecclesiastica. Terribile avvenimento ancora
dell'anno presente fu il tremuoto che nel mese d'agosto si fece sentire
spaventosamente in Oriente, ed è mentovato e compianto da più
scrittori[294] di que' secoli. Nicomedia, città della Bitinia, una delle
più popolate dell'imperio romano, che Diocleziano cotanto amò ed
abbellì, bramando di farne un'altra Roma, in un momento fu rovesciata a
terra, con perir ivi, se Libanio[295] non esagera di troppo quella gran
calamità, quasi tutti gli abitanti. Ammiano ci lasciò un lagrimevol
ritratto delle sue rovine. Si stese quell'orrenda scossa della terra per
le contrade dell'Asia, del Ponte e della Macedonia, con iscrivere
Idazio, che ben centocinquanta città ne provarono gran danno.
Per conto di Giuliano Cesare, egli durante il verno, dimorando in
Parigi, attese a regolar le imposte solite delle Gallie con tale
esattezza, che senza metterne delle nuove, ricavò il danaro occorrente
per continuar la guerra in quest'anno[296]. Le mire sue, giacchè durava
la tregua con gli Alamanni, tendevano contra dei popoli Franchi, divisi
in varie popolazioni l'una indipendente dall'altra, e governata da' suoi
principi o re, de' quali non sappiamo il nome. Venuto dunque il tempo
proprio, uscì in campagna, e rivolse l'armi sue verso i Franchi Salii,
abitanti fra la Schelda e la Mosa, dove ora è Breda ed Anversa. Arrivato
a Tongres, trovò ivi i deputati di quella gente che erano inviati a
Parigi, per parlare con lui, ed ascoltò le lor preghiere di lasciarli,
come amici, nelle terre dove abitavano. Con belle parole li licenziò, ed
entrato dipoi nel loro paese, obbligò quella gente a rendersi. Passò di
là contra de' Franchi Camavi, i quali arrischiatisi a far fronte,
rimasero in una zuffa sconfitti, e buona parte prigionieri. Di questi
popoli soggiogati non pochi ne arrolò, ed accrebbe il suo esercito.
Quindi avendo trovati sulla ripa della Mosa tre forti smantellati dai
Barbari, immediatamente ordinò che si rimettessero in piedi con buone
fortificazioni, e li fornì di viveri. A questo fine, ed anche per
sussidio dell'armata, fece venir gran copia di grani dalla Bretagna.
Zosimo[297], storico pagano, che scrive delle maraviglie di queste
spedizioni del suo Giuliano, racconta ch'egli a tal effetto fece
fabbricare ottocento piccioli legni; i quali poi, salendo pel Reno (cosa
non praticata in addietro per l'opposizione o padronanza de' Barbari)
portarono la provvisione opportuna all'esercito e alle fortezze di quel
tratto. Ma forse questo fatto appartiene all'anno seguente. Dovette
intanto spirar la tregua con gli Alamanni, e perchè Giuliano non volle
aspettare[298] ch'essi tentassero cosa alcuna contro il paese romano, e
conosceva il vantaggio di far la guerra in casa de' nemici: gittato un
ponte sul Reno, passò nelle terre alamanniche coll'esercito suo. Si
disponeva a far gran cose, se il suo generale Severo (non si sa bene il
perchè), dianzi sì ardito, non fosse divenuto pauroso ed alieno da ogni
rischio di battaglia. Ciò non ostante, _Suomario_, uno dei re alamanni,
intimorito per questa visita, venne in persona a dimandar pace a
Giuliano. L'ottenne con patto di rendere tutti gli schiavi romani, e di
somministrar vettovaglie alle occorrenze. Colle condizioni medesime
accordò Giuliano la pace ad _Ortario_, altro re o principe
dell'Alamagna. Fatto dipoi con diligenza mirabile raccogliere il nome di
tutti i Romani già menati in ischiavitù da que' Barbari, volle
rigorosamente la restituzione di chiunque non era mancato di vita, e ne
vide ritornare ben venti mila alle lor case. Con tali imprese terminò
Giuliano la campagna dell'anno presente, e poi condusse l'armata a'
quartieri d'inverno.
NOTE:
[283] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.
[284] Ammian., lib. 17, cap. 6.
[285] Idem, ibid., cap. 12.
[286] Aurel. Victor, de Caesarib.
[287] Ammian., lib. 16, cap. 9.
[288] Idem, lib. 17, cap. 5.
[289] Idacius, in Fastis.
[290] Temisthius, Orat. IV.
[291] Ammianus, lib. 17, cap. 5.
[292] Eunap., Vit. Sophist., cap. 3.
[293] Pagius, Crit. Baron.
[294] Idacius. Ammianus. Hieronym., in Chronico. Socrates, Sozomenus et
alii.
[295] Liban., Orat. VIII.
[296] Ammianus, lib. 16, cap. 8.
[297] Zosimus, lib. 3, cap. 5.
[298] Ammianus, lib. 17, cap. 10.
Anno di CRISTO CCCLIX. Indizione II.
LIBERIO papa 8.
COSTANZO imperadore 23.
_Consoli_
FLAVIO EUSEBIO e FLAVIO HYPAZIO.
Erano questi consoli amendue fratelli di Eusebia Augusta, moglie di
Costanzo imperadore, la quale non lasciò indietro diligenza alcuna per
esaltare i suoi parenti. Sono amendue lodati da Ammiano[299]; ma sotto
Valente imperadore, benchè innocenti, patirono delle gravi disgrazie.
_Memmio Vitrasio Orfito_ si trova nel dì 25 di marzo di quest'anno
tuttavia prefetto di Roma[300]. _Giunio Basso_ gli succedette; ma il
rapì la morte nel dì 23 d'agosto[301], dopo aver ricevuto il sacro
battesimo. In quella dignità, esercitata per qualche tempo con titolo di
viceprefetto da _Artemio_, entrò dipoi _Tertullo_. Giacchè Ammiano
Marcellino[302] dà principio a quest'anno con raccontar le imprese di
Giuliano Cesare, seguitandolo anch'io, dico ch'egli, dopo avere nel
tempo del verno avuta gran cura di rimettere in piedi, e fornire di
vettovaglie varie città sul Reno, già rovinate dai Barbari, uscì al
consueto tempo da' quartieri coll'esercito, disegnando di passar di là
dal Reno, e di far guerra a quegli Alamanni che tuttavia restavano
nemici. Non volle gittar ponte su quel fiume a Magonza, per non
disgustar Suomario re o principe amico, e negli altri siti trovò le
opposte ripe ben guardate dalle milizie nemiche. Fatti nondimeno una
notte passar in barche tacitamente trecento de' più valorosi suoi
soldati, questi presero posto di là dal fiume, misero in fuga quelle
guardie, e diedero campo all'armata romana di formare il ponte, e di
passare il Reno: il che fatto, si stesero i saccheggi per tutte quelle
parti. _Macriano_ ed _Ariobaudo_, re o principi d'esso paese, altro
scampo non ebbero che di umiliarsi, ed ottenuta licenza si presentarono
supplichevoli a Giuliano. Venne ancora a trovarlo _Vadomario_, padrone
del paese, dove oggidì è Spira, il quale già vedemmo divenuto amico dei
Romani, ma per aver insolentemente voluto da Giuliano il figlio suo[303]
lasciato per ostaggio, senza neppure restituire i prigioni promessi, era
caduto in disgrazia di lui. Fu con cortesia accolto, e si può credere
che soddisfacesse agli obblighi suoi. Ma non impetrò già perdono per
altri principi di quelle contrade, come per Urio, Ursicino e Vestralpo,
esigendo Giuliano che essi o venissero, o mandassero ambasciatori con
plenipotenze. In fatti costoro, dopo d'aver tollerato il guasto del loro
paese, spedirono deputati, a' quali fu conceduta la pace, con obbligo di
rendere i prigioni. Non altro di più si sa di questa terza campagna di
Giuliano, il quale poi si ridusse alle stanze del verno.
Soggiornava tuttavia ne' primi mesi di quest'anno in Sirmio di Pannonia
l'Augusto Costanzo, quando gli fu portata una lettera[304] pazzamente
scritta a _Barbazione_, generale della fanteria, da sua moglie, la quale
perchè uno sciame d'api si era fermato ed annidato in sua casa, secondo
la folle credenza degli auguri d'allora, figurò che il marito, dopo la
morte di Costanzo, diverrebbe imperadore, raccomandandosi perciò che non
abbandonasse lei per isposare _Eusebia Augusta_. Bastò questo perchè
Costanzo facesse levar la vita ad amendue, e fossero tormentate varie
persone innocenti, come complici del fatto. Ed ecco i perniciosi effetti
dei superstiziosi cacciatori dell'avvenire. In quei medesimi tempi[305]
giunse avviso alla corte augusta che i Limiganti, cacciati nell'anno
precedente dalla Sarmazia, partendosi dal paese, dove già si ritirarono,
si accostavano al Danubio, parendo disposti a passarlo coll'occasione
del ghiaccio. Costanzo sul principio della primavera per tal novità andò
ad accamparsi colle truppe lungo quel fiume, nella Valeria, provincia
della Pannonia, e mandò per sapere che pensiero bolliva in capo a que'
Barbari. La risposta fu, che troppo scomodo trovavano il paese dove
s'erano rifugiati, pregando perciò l'imperadore di voler prenderli per
sudditi, con dar loro qualche sito nell'imperio, e di permettere che
venissero ai di lui piedi. Piacque e Costanzo la lor proposizione e li
ricevette ad Aciminco, creduto oggidì un borgo vicino a Petervaradino.
Era egli salito sopra un luogo eminente per ascoltar le loro preghiere,
le quali poco corrispondevano all'aria dei loro volti e alla positura
rigida delle lor teste; e mentre si preparava per parlare ad essi, ecco
un loro capo gridar _marha, marha_, segno di battaglia fra loro. Ebbe la
fortuna Costanzo di salvarsi, posto a cavallo da alcuno dei suoi
cortigiani. Fecero a tutta prima le guardie colle lor vite argine al
furor di que' perfidi, da quali fu presa la sedia imperiale coll'aureo
cuscino. Intanto l'armata romana, dato di piglio alle armi, furiosamente
volò contra de' Barbari, e a niun d'essi lasciò la vita. S'effettuarono,
poi in quest'anno le minacce di _Sapore_ re della Persia contra de'
Romani[306], avendolo spezialmente confermato a questa guerra un
Antonino, già mercatante ricchissimo della Mesopotamia, ma poscia
fallito, che si ricoverò nella Persia, e ben accolto alla corte di
Sapore, gli diede un minuto ragguaglio delle fortezze e guarnigioni, in
una parola, di tutte le forze e debolezze dell'imperio romano. Fatto
dunque un potente armamento, si mise alla testa d'un esercito, composto
almeno di centomila combattenti, assistito anche dai re d'Albania e de'
Chioniti. A tale avviso la corte dell'imperador Costanzo gran bisbiglio
fece; e gli eunuchi, che vi comandavano le feste, seppero far richiamare
dalla Soria _Ursicino_, uffiziale di gran valore e sperienza nella
guerra, per dare il comando dell'armi d'Oriente a _Sabiniano_, uomo
vecchio e poltrone di prima riga, ma ricco. Fu poi rimandato indietro
Ursicino, con titolo bensì di generale della fanteria, ma con restare la
principal autorità del comando nel suddetto Sabiniano. Passato il Tigri,
entrò il re persiano nella Mesopotamia, e per consiglio del traditore
Antonino pensava di tirar diritto all'Eufrate, e passando in Soria, di
dare il sacco a quel ricco paese, con isperanza ancora d'impadronirsene.
Ursicino ai primi movimenti del re nemico mandò ordine per la
Mesopotamia, che i popoli si ritirassero ne' luoghi forti coi lor
viveri, e che si desse il fuoco alle biade già mature, per levare ogni
sussistenza all'armata persiana. Fece parimente fortificar le ripe
dell'Eufrate, e guernirle d'armati: provvisioni che fecero mutar disegno
a Sapore, e determinarlo a portarsi all'assedio della città d'Amida.
Ammiano Marcellino, che diffusamente racconta questi fatti, vi si trovò
in persona, e suo malgrado si vide chiuso in quella città. Grande fu la
difesa di Amida fatta da quella guarnigione; pure dopo due mesi e mezzo
d'ostinato assedio, in essa entrarono per forza i Persiani. Furono
impiccati i principali degli uffiziali romani, e gli abitanti condotti
tutti in ischiavitù, a riserva di chi potè salvarsi con la fuga, come
fortunatamente riuscì ancora al suddetto Ammiano. Costò nondimeno ben
caro al re persiano un tale acquisto, perchè vi restarono morti circa
trentamila de' suoi; la qual perdita unita alla stagione avanzata
indusse Sapore a ritirarsi a' quartieri del verno nel regno suo. Nulla
fece Sabiniano, il generale primario, per soccorrere Amida, ed Ursicino
non avendo mai potuto ottenere alcun braccio da lui, fu costretto a
veder cadere quella città senza maniera di soccorrerla. Se n'andò egli
poscia alla corte dell'Augusto Costanzo, dove se gli formò addosso un
gran processo per quella perdita. Finì poi la faccenda, che Ursicino
ebbe per grazia il potersi ritirare a casa sua, con essere poi dato il
posto di generale della fanteria ad un _Agilone_ di nazion
germanica[307]. A cagione di tali disgrazie, Costanzo dalla Mesia passò
a Costantinopoli, per accudir più da vicino alle piaghe dell'Oriente, e
per reclutare le sue milizie, ben persuaso che il Persiano continuerebbe
con più vigore la guerra nell'anno vegnente. Per attestato del suddetto
Ammiano, inviò egli nel presente, Paolo, suo segretario e principal
ministro della sua crudeltà, a Scitopoli nella Palestina, a fare una
rigorosa inquisizione di chi, tanto nella Soria che nell'Egitto, avesse
consultati gli oracoli de' pagani, o commesse altre superstizioni ed
augurii per indagar l'avvenire. Moltissimi, ed anche de' primarii,
processati per questo, a diritto o torto vi perderono la vita o ne'
tormenti o per mano del boja; ed altri con pene pecuniare o coll'esilio
schivarono la morte. Per colpa anche[308] del medesimo Costanzo il
numeroso consilio di vescovi, tenuto in questo anno a Rimini, dopo aver
condannati gli errori d'Ario, e confermata la dottrina de' Padri Niceni,
andò a terminare in un lagrimevol conciliabolo, con trionfar ivi la
fazione e prepotenza degli Ariani: conciliabolo che fu poi detestato da
tutta la Chiesa di Dio.
NOTE:
[299] Ammianus, lib. 29.
[300] Gothof., Chron. Cod. Theod.
[301] Baronius, ad an. 358.
[302] Ammianus, lib. 18, cap. 1.
[303] Eunap., in Excerpt. de Legat. Tom. I Hist. Byz.
[304] Ammianus, lib. 18, cap. 3.
[305] Ammianus, lib. 18, cap. 11.
[306] Idem, ibid., cap. 5.
[307] Ammianus, lib. 19, cap. 11.
[308] Labbe, Concil. General. Baronius, Annal. Eccl.
Anno di CRISTO CCCLX. Indizione III.
LIBERIO papa 9.
COSTANZO imperadore 24.
_Consoli_
COSTANZO AUGUSTO per la decima volta, e FLAVIO CLAUDIO GIULIANO CESARE
per la terza.
Prefetto di Roma in parte di questo anno continuò ad essere _Tertullo_,
di professione pagano, che nell'anno precedente corse pericolo della
vita in una sedizion del popolo affamato, perchè i venti contrarii non
lasciavano venir le navi solite a portare i grani. L'anno presente fu
quello in cui si sconciò fieramente la competente armonia, durata fin
qui tra l'imperadore Costanzo e Giuliano Cesare, tuttochè anche in
addietro, per testimonianza d'Ammiano[309], nella corte d'esso Costanzo
abbondassero coloro che screditavano a tutto potere Giuliano, e
mettevano in ridicolo ogni azione di lui, non mai nominandolo se non con
parole di disprezzo. Avea esso Giuliano passato il verno in Parigi[310],
quando gli giunse l'avviso che gli Scotti e Pitti, popoli barbari della
Bretagna, facevano delle scorrerie nelle provincie romane di quella
grand'isola. Spedì egli colà con un corpo di soldatesche _Lupicino_
generale, uomo valoroso, ma crudele ed avaro, e così borioso, che
Giuliano ebbe ben cara questa occasione di allontanarselo dai fianchi.
Partì costui sul fine del verno da Bologna di Picardia, ed arrivò
felicemente a Londra. Altro di più non sappiamo della sua spedizione. Ma
eccoti arrivar nelle Gallie _Decenzio_, uno de' segretarii di Costanzo,
con lettere ed ordini indirizzati a _Lupicino_ (era questi andato già in
Bretagna) e a _Gintonio_ primo scudiere[311] di condurre in Levante gli
Eruli, i Batavi, i Petulanti ed i Celti, con trecento altri scelti dalle
truppe di Giuliano. Era fatta istanza di tal gente pel bisogno pressante
della guerra persiana; ma credesi che vi entrasse ancora un'invidia
segretamente portata da esso Augusto al plauso e buon concetto che
s'andava Giuliano acquistando coll'armi nelle Gallie. Intanto ad esso
Giuliano unicamente fu scritto di eseguir certi ordini dati a Lupicino.
Noi qui non abbiamo se non istorici pagani[312] che parlano di questo
fatto, e può dubitarsi della lor fede. A udir costoro, procedette
onoratamente Giuliano in tal congiuntura, col mostrarsi prontissimo
all'ubbidienza, ancorchè sommamente se ne affliggesse, perchè così
veniva a restare spogliato del miglior nerbo della sua armata, per modo
che non solamente niuna impresa poteva egli più tentare, ma restavano
anche le Gallie esposte alla violenza de' Barbari transrenani.
Rappresentò ben egli a Decenzio il pericolo del paese, e la difficoltà
di menar in Oriente que' soldati che s'erano arrolati, o pure come
ausilarii militavano con patto di non passar le Alpi; ma Decenzio non
aveva autorità di mutar gli ordini imperiali; e però scelti i migliori
soldati, senza risparmiare nè pur le guardie del medesimo Giuliano,
intimò a tutti la marcia. Giuliano[313] anch'egli volle che
abbandonassero i quartieri, e fossero lesti al viaggio. Ma si
cominciarono ad udir pianti, grida e querele di quella gente; si
sparsero biglietti pieni di lamenti contra di Costanzo e in favor di
Giuliano, quasichè si volesse condurli alla morte, facendoli pattare a
sì rimoti paesi. Giuliano, per facilitar la loro andata, ordinò che
potessero condur seco le loro famiglie, nè volea che transitassero per
Parigi, dove egli dimorava, affinchè non succedesse sconcerto alcuno. Ma
Decenzio fu di altro parere. Vennero a Parigi, e quanto quel popolo gli
scongiurava di non andare, affinchè il paese non rimanesse esposto alla
crudeltà dei Barbari, altrettanto i soldati mostravano desiderio di
restarvi. Tenne Giuliano alla sua tavola i più cospicui uffiziali,
usando con loro ogni cortesia, e facendo ad essi ogni più larga
esibizione, in guisa tale che tra queste dolci parole e l'abborrimento a
lasciar quel paese, se ne ritornarono tutti molto pensosi ed afflitti al
loro quartiere.
Ma non terminò la giornata, che i soldati già commossi dai biglietti, si
ammutinarono, e, prese l'armi, andarono ad assediar il palazzo dove era
Giuliano, e con alte grida cominciarono a proclamarlo _imperadore
Augusto_, e che voleano vederlo[314]. Fece Giuliano serrar le porte, e i
soldati costanti stettero ivi sino alla mattina seguente, in cui rotte
le porte, l'obbligarono ad uscirne, ed allora rinforzarono le
acclamazioni, dichiarandolo Augusto. Mostrò Giuliano colle parole e coi
fatti quanta resistenza potè; ma perchè i soldati minacciarono di torgli
la vita se non si rendeva, forzato fu in fine di acconsentire. Allora
posto sopra uno scudo, fu alzato da terra, e fatto vedere ad ognuno.
Occorreva un diadema per coronarlo, ed egli protestò di non averne. Si
pensò a prendere una fascia giojellata della toletta della moglie; ma
non parve buon augurio il ricorrere ad un ornamento donnesco. Fu
proposto di pigliare una redine ricamata di cavallo, acciocchè servisse
almeno all'apparenza; ma stimò la cosa vergognosa; finchè un uffizial
moro, cavatasi di dosso una collana d'oro giojellata, l'esibì, e con
questa applicatagli al capo comparve in certa maniera coronato. Il che
fatto, egli promise ai soldati cinque nummi d'oro e una libbra d'argento
per testa. Nella lettera scritta agli Ateniesi, Giuliano protesta e
giura per tutti gli dii (a molti pagani dovea costar poco un tal
giuramento) ch'egli nulla sapeva della risoluzion presa dai soldati, e
nulla operò per indurli a tale atto, e ch'egli fece quanto fu in sua
mano per sottrarsi alla lor volontà; ma che dopo aver acconsentito,
benchè per forza, non era più sicura la sua vita, se avesse voluto
retrocedere. Ne creda il lettore quel che vuole. Ammiano scrive[315] che
nella notte precedente, mentre Giuliano ondeggiava, invocando i suoi
dii, per sapere se dovea cedere al voler dei soldati, gli comparve
un'ombra, qual si dipingeva il genio del popolo romano, che gli disse
d'essere più volte venuto alla sua porta per entrare, e far lui salire
in alto; ma che se fosse rigettato anche questa volta, se ne partirebbe
ben mal contento; avvisandolo nondimeno che non istarebbe gran tempo con
esso lui. Comunque sia di questa o inventata o pazzamente creduta
fantastica visione, ci assicura Eunapio[316] che Giuliano in quella
stessa notte, avendo seco un pontefice gentile, ch'egli segretamente
avea fatto venir dalla Grecia, fece con lui certe cose, delle quali
eglino soli ebbero conoscenza, potendosi non senza fondamento sospettare
che fossero sacrifizii, o incantamenti di magia, per cercar l'avvenire,
de' quali è certo che si dilettò forte l'empio ed ingannato Giuliano.
Ritiratosi poi egli nel palazzo, parve pieno di inquietudine e
malinconia; e perchè corse nel giorno seguente voce ch'egli era stato
ucciso (scrivendo in fatti Libanio[317], essere stato guadagnato un
eunuco, suo aiutante o mastro di camera, per fare il colpo), i soldati
volarono al palazzo, e vollero vederlo, con far susseguentemente istanza
che fossero uccisi gli amici di Costanzo, i quali s'erano opposti alla
di lui promozione. Ma Giuliano protestò che nol sofferirebbe giammai, e
donò anche la vita all'eunuco suddetto. Perchè ad una parte di quelle
milizie che già erano partite arrivò dietro la nuova dell'esaltazione di
Giuliano, se ne ritornarono anch'esse a Parigi, dove esso novello
Augusto, raunata tutta l'armata, fece un'arringa, lodando il lor
coraggio, e protestando che non darebbe mai le cariche alle
raccomandazioni, ma solamente al merito: il che piacque di molto a chi
l'ascoltò.
E tale fu la maniera con cui Giuliano salì alla dignità imperiale,
verisimilmente nel marzo od aprile di questo anno. Certamente gli
storici gentili[318], partigiani spasimati di questo apostata
imperadore, cel rappresentano portato per forza al trono, e senza sua
precedente brama o contezza. Ma gli scrittori cristiani[319] furono
d'opinion diversa, e condannarono la di lui ribellione ed ingratitudine
verso Costanzo, sospettandola o credendola figliuola della di lui
ambizione. Ora, dappoichè Decenzio ebbe veduta questa scena, non tardò a
ritornarsene alla corte di Costanzo. _Fiorenzo_ prefetto del pretorio
delle Gallie, che s'era ritirato apposta a Vienna, perchè prevedeva dei
torbidi, anch'egli s'affrettò ad uscir dalle Gallie. Ebbe Giuliano tanta
moderazione, che gli mandò dietro tutta la sua famiglia, con provvederla
ancora del comodo delle poste. Vi restava il solo _Lupicino_, creduto
capace d'imbrogliar le carte. Ma Giuliano, assai accorto, spedì un
uffiziale a Bologna di Picardia, affinchè non passasse persona in
Bretagna a portargli le nuove; ed intanto con sue premurose lettere il
chiamò di là, e, ritornato che fu, il ritenne prigione. Non tardò poscia
a spedire _Euterio_ suo maggiordomo, e _Pentado_ mastro degli uffizii,
all'Augusto Costanzo con lettera, in cui rappresentava la violenza a lui
fatta, pregandolo di consentirvi, e promettendo d'ubbidire come prima
agli ordini suoi, d'inviargli alcune milizie, di accettar dalle sue mani
un prefetto del pretorio, con riserbarsi l'elezione degli altri
uffiziali. Leggesi questa lettera presso Ammiano[320]. Fece anche
scriverne un'altra dall'armata di tenor poco diverso[321]. Il bello fu
che agli ambasciatori suoi, se non falla Ammiano, diede un'altra segreta
DAZIANO e NERAZIO CEREALE.
Nel grado di prefetto di Roma continuò _Memmio Vitrasio Orfito_ anche
per quest'anno. Seguitò ancora l'imperador Costanzo a trattenersi nella
Pannonia, ciò apparendo da varie sue leggi[283] pubblicate in Sirmio e
Mursa, fallata essendo la data di due, come fatte in Milano.
Trattenevasi egli in quelle parti, perchè durava la guerra coi Quadi e
Sarmati. Costoro nel verno col favore del ghiaccio fecero non poche
scorrerie nella Pannonia e Mesia superiore. Nello stesso tempo i
Giutunghi, popoli della Alamagna, infestarono la Rezia; ma spedito di
poi contra di essi Barbazione[284], gli riuscì per questa volta di dar
loro una rotta, cioè una buona lezione, per portar più rispetto da lì
innanzi alle terre de' Romani. Ora l'Augusto Costanzo sul principio di
aprile[285], ansioso di vendicarsi delle insolenze de' medesimi Barbari,
dopo aver gittato un ponte sul Danubio, passò colla sua armata ai lor
danni; ed essendosi eglino arrischiati ad affrontarsi con lui, conobbero
a loro spese quanto ben fossero affilate le spade romane. Questa lor
perdita e il guasto del loro paese li consigliò a spedire ambasciatori
per aver pace, con esibire ancora di sottomettersi. Costanzo si contentò
di obbligarli solamente a rendere i prigioni e a dar degli ostaggi,
poscia se ne tornò di nuovo nella Pannonia. E perciocchè abbiam detto
altrove, cioè all'anno 334, che i Sarmati erano stati cacciati dal
proprio paese dai loro schiavi appellati Limiganti, Costanzo, pregato di
volerli rimettere in casa, ne prese l'assunto, e con essi portò la
guerra addosso a quella canaglia. Vennero in gran copia i Limiganti a
trovar l'imperadore, con far vista di volersi sottomettere, ma con
disegno di fare un brutto scherzo ai Romani se li trovavano poco
guardinghi. Per loro disgrazia i Romani vegliavano, e al primo cenno che
fecero coloro di dar di piglio alle armi, li prevennero con tagliarli
tutti a pezzi, giacchè niun d'essi volle dimandar la vita. Ora dappoichè
ebbero sofferto un fier sacco delle loro campagne, nè potevano più
resistere a quel flagello, si ridussero i Limiganti a cedere il paese
agli antichi loro padroni, e a ritirarsi in un più lontano[286]. Il che
fatto, Costanzo ebbe la gloria di dare per re ai Sarmati un principe
della lor nazione, per nome _Zizais_, e di rimetterli in possesso dei
lor antichi beni, dopo ventiquattro anni di esilio. Per questa felice
impresa a Costanzo fu dato il titolo di _Sarmatico_ dopo il suo ritorno
a Sirmio, nella qual città egli soggiornò poi nel verno seguente. Ma non
si dee omettere un altro fatto spettante al medesimo Augusto[287]. Avea
nell'anno precedente _Musoniano_, prefetto del pretorio di Oriente,
mossa parola di pace con _Tansapore_ general de' Persiani, il quale
veramente ne scrisse al re _Sapore_ suo padrone, ma con termini che
mostravano l'imperador romano, se non bisognoso e supplicante, almeno
assai voglioso di pacificarsi con lui[288]. Perchè Sapore si trovava
alla estremità del suo regno in guerra con alcuni suoi nemici, le
lettere tardarono a giugnergli, o pure egli tardò a rispondere, finchè
ebbe terminati quegli affari. Allora egli spedì per suo ambasciatore a
Costanzo Augusto uno de' suoi ministri, per nome Narsete, con diversi
regali, e con una lettera riferita da Ammiano, carica di que' bei titoli
che tuttavia usano i vani e superbi Turchi, ed altri monarchi dell'Asia,
cioè _re dei regi, parente delle stelle, fratello del sole e della
luna_. Era essa lettera involta in bianca tela di seta: rito anche
oggidì praticato nelle corti orientali; e con essa il re persiano
parlava alto, richiedendo la restituzion d'immensi paesi stati una volta
della nazion persiana, riducendosi nondimeno a contentarsi dell'Armenia
e Mesopotamia. Scrive Idazio[289] che questa ambasceria passò per
Costantinopoli nel dì 23 di febbraio dell'anno presente, e si portò a
Sirmio a trovar lo imperadore. Anche Temistio[290] la vide prima passar
per Antiochia. Costanzo, senza voler entrare in negoziato alcuno,
rimandò l'ambasciatore con solamente rispondere che sua intenzione era
più che mai di conservare interamente lo imperio, e che darebbe mano
alla pace, purchè ne fossero onorevoli e non vergognose le condizioni.
Poscia anch'egli inviò per suoi ambasciatori a Sapore con lettere e
regali tre scelte persone[291], cioè _Prospero_ conte, _Spettato_, uno
dei suoi segretari, parente di Libanio, che ne parla in varie sue
lettere, ed _Eustazio_ filosofo, discepolo di Jamblico, di cui parla
Eunapio[292] con molta lode, o, per dir meglio, con troppa adulazione.
Nulla di pace fu conchiuso, avvegnachè Costanzo dopo qualche tempo
spedisse altri ambasciadori al Persiano: cioè _Lucilliano_ conte e
_Valente_, che vedremo a suo tempo ribello all'imperio; il perchè
continuò la rottura, nè andrà molto che la vedremo passare in guerra
viva. L'anno fu questo, in cui _papa Liberio_ ottenne da Costanzo
Augusto d'essere richiamato dall'esilio, ma con pregiudizio del suo
onore, perchè si lasciò indurre alla condannazione di sant'Atanasio, per
non condiscendere alla quale s'era esposto in addietro con eroico
coraggio a tanti patimenti. Venne egli in quest'anno alla corte di
Costanzo, esistente in Sirmio; e il padre Pagi[293] pretende che
solamente nell'anno seguente egli ritornasse a Roma, dove ripigliò il
pontificato coll'esclusione di _Felice_ già posto sulla sedia papale in
luogo suo, e cacciato fuor di Roma all'arrivo di Liberio: intorno a che
è da vedere la storia ecclesiastica. Terribile avvenimento ancora
dell'anno presente fu il tremuoto che nel mese d'agosto si fece sentire
spaventosamente in Oriente, ed è mentovato e compianto da più
scrittori[294] di que' secoli. Nicomedia, città della Bitinia, una delle
più popolate dell'imperio romano, che Diocleziano cotanto amò ed
abbellì, bramando di farne un'altra Roma, in un momento fu rovesciata a
terra, con perir ivi, se Libanio[295] non esagera di troppo quella gran
calamità, quasi tutti gli abitanti. Ammiano ci lasciò un lagrimevol
ritratto delle sue rovine. Si stese quell'orrenda scossa della terra per
le contrade dell'Asia, del Ponte e della Macedonia, con iscrivere
Idazio, che ben centocinquanta città ne provarono gran danno.
Per conto di Giuliano Cesare, egli durante il verno, dimorando in
Parigi, attese a regolar le imposte solite delle Gallie con tale
esattezza, che senza metterne delle nuove, ricavò il danaro occorrente
per continuar la guerra in quest'anno[296]. Le mire sue, giacchè durava
la tregua con gli Alamanni, tendevano contra dei popoli Franchi, divisi
in varie popolazioni l'una indipendente dall'altra, e governata da' suoi
principi o re, de' quali non sappiamo il nome. Venuto dunque il tempo
proprio, uscì in campagna, e rivolse l'armi sue verso i Franchi Salii,
abitanti fra la Schelda e la Mosa, dove ora è Breda ed Anversa. Arrivato
a Tongres, trovò ivi i deputati di quella gente che erano inviati a
Parigi, per parlare con lui, ed ascoltò le lor preghiere di lasciarli,
come amici, nelle terre dove abitavano. Con belle parole li licenziò, ed
entrato dipoi nel loro paese, obbligò quella gente a rendersi. Passò di
là contra de' Franchi Camavi, i quali arrischiatisi a far fronte,
rimasero in una zuffa sconfitti, e buona parte prigionieri. Di questi
popoli soggiogati non pochi ne arrolò, ed accrebbe il suo esercito.
Quindi avendo trovati sulla ripa della Mosa tre forti smantellati dai
Barbari, immediatamente ordinò che si rimettessero in piedi con buone
fortificazioni, e li fornì di viveri. A questo fine, ed anche per
sussidio dell'armata, fece venir gran copia di grani dalla Bretagna.
Zosimo[297], storico pagano, che scrive delle maraviglie di queste
spedizioni del suo Giuliano, racconta ch'egli a tal effetto fece
fabbricare ottocento piccioli legni; i quali poi, salendo pel Reno (cosa
non praticata in addietro per l'opposizione o padronanza de' Barbari)
portarono la provvisione opportuna all'esercito e alle fortezze di quel
tratto. Ma forse questo fatto appartiene all'anno seguente. Dovette
intanto spirar la tregua con gli Alamanni, e perchè Giuliano non volle
aspettare[298] ch'essi tentassero cosa alcuna contro il paese romano, e
conosceva il vantaggio di far la guerra in casa de' nemici: gittato un
ponte sul Reno, passò nelle terre alamanniche coll'esercito suo. Si
disponeva a far gran cose, se il suo generale Severo (non si sa bene il
perchè), dianzi sì ardito, non fosse divenuto pauroso ed alieno da ogni
rischio di battaglia. Ciò non ostante, _Suomario_, uno dei re alamanni,
intimorito per questa visita, venne in persona a dimandar pace a
Giuliano. L'ottenne con patto di rendere tutti gli schiavi romani, e di
somministrar vettovaglie alle occorrenze. Colle condizioni medesime
accordò Giuliano la pace ad _Ortario_, altro re o principe
dell'Alamagna. Fatto dipoi con diligenza mirabile raccogliere il nome di
tutti i Romani già menati in ischiavitù da que' Barbari, volle
rigorosamente la restituzione di chiunque non era mancato di vita, e ne
vide ritornare ben venti mila alle lor case. Con tali imprese terminò
Giuliano la campagna dell'anno presente, e poi condusse l'armata a'
quartieri d'inverno.
NOTE:
[283] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.
[284] Ammian., lib. 17, cap. 6.
[285] Idem, ibid., cap. 12.
[286] Aurel. Victor, de Caesarib.
[287] Ammian., lib. 16, cap. 9.
[288] Idem, lib. 17, cap. 5.
[289] Idacius, in Fastis.
[290] Temisthius, Orat. IV.
[291] Ammianus, lib. 17, cap. 5.
[292] Eunap., Vit. Sophist., cap. 3.
[293] Pagius, Crit. Baron.
[294] Idacius. Ammianus. Hieronym., in Chronico. Socrates, Sozomenus et
alii.
[295] Liban., Orat. VIII.
[296] Ammianus, lib. 16, cap. 8.
[297] Zosimus, lib. 3, cap. 5.
[298] Ammianus, lib. 17, cap. 10.
Anno di CRISTO CCCLIX. Indizione II.
LIBERIO papa 8.
COSTANZO imperadore 23.
_Consoli_
FLAVIO EUSEBIO e FLAVIO HYPAZIO.
Erano questi consoli amendue fratelli di Eusebia Augusta, moglie di
Costanzo imperadore, la quale non lasciò indietro diligenza alcuna per
esaltare i suoi parenti. Sono amendue lodati da Ammiano[299]; ma sotto
Valente imperadore, benchè innocenti, patirono delle gravi disgrazie.
_Memmio Vitrasio Orfito_ si trova nel dì 25 di marzo di quest'anno
tuttavia prefetto di Roma[300]. _Giunio Basso_ gli succedette; ma il
rapì la morte nel dì 23 d'agosto[301], dopo aver ricevuto il sacro
battesimo. In quella dignità, esercitata per qualche tempo con titolo di
viceprefetto da _Artemio_, entrò dipoi _Tertullo_. Giacchè Ammiano
Marcellino[302] dà principio a quest'anno con raccontar le imprese di
Giuliano Cesare, seguitandolo anch'io, dico ch'egli, dopo avere nel
tempo del verno avuta gran cura di rimettere in piedi, e fornire di
vettovaglie varie città sul Reno, già rovinate dai Barbari, uscì al
consueto tempo da' quartieri coll'esercito, disegnando di passar di là
dal Reno, e di far guerra a quegli Alamanni che tuttavia restavano
nemici. Non volle gittar ponte su quel fiume a Magonza, per non
disgustar Suomario re o principe amico, e negli altri siti trovò le
opposte ripe ben guardate dalle milizie nemiche. Fatti nondimeno una
notte passar in barche tacitamente trecento de' più valorosi suoi
soldati, questi presero posto di là dal fiume, misero in fuga quelle
guardie, e diedero campo all'armata romana di formare il ponte, e di
passare il Reno: il che fatto, si stesero i saccheggi per tutte quelle
parti. _Macriano_ ed _Ariobaudo_, re o principi d'esso paese, altro
scampo non ebbero che di umiliarsi, ed ottenuta licenza si presentarono
supplichevoli a Giuliano. Venne ancora a trovarlo _Vadomario_, padrone
del paese, dove oggidì è Spira, il quale già vedemmo divenuto amico dei
Romani, ma per aver insolentemente voluto da Giuliano il figlio suo[303]
lasciato per ostaggio, senza neppure restituire i prigioni promessi, era
caduto in disgrazia di lui. Fu con cortesia accolto, e si può credere
che soddisfacesse agli obblighi suoi. Ma non impetrò già perdono per
altri principi di quelle contrade, come per Urio, Ursicino e Vestralpo,
esigendo Giuliano che essi o venissero, o mandassero ambasciatori con
plenipotenze. In fatti costoro, dopo d'aver tollerato il guasto del loro
paese, spedirono deputati, a' quali fu conceduta la pace, con obbligo di
rendere i prigioni. Non altro di più si sa di questa terza campagna di
Giuliano, il quale poi si ridusse alle stanze del verno.
Soggiornava tuttavia ne' primi mesi di quest'anno in Sirmio di Pannonia
l'Augusto Costanzo, quando gli fu portata una lettera[304] pazzamente
scritta a _Barbazione_, generale della fanteria, da sua moglie, la quale
perchè uno sciame d'api si era fermato ed annidato in sua casa, secondo
la folle credenza degli auguri d'allora, figurò che il marito, dopo la
morte di Costanzo, diverrebbe imperadore, raccomandandosi perciò che non
abbandonasse lei per isposare _Eusebia Augusta_. Bastò questo perchè
Costanzo facesse levar la vita ad amendue, e fossero tormentate varie
persone innocenti, come complici del fatto. Ed ecco i perniciosi effetti
dei superstiziosi cacciatori dell'avvenire. In quei medesimi tempi[305]
giunse avviso alla corte augusta che i Limiganti, cacciati nell'anno
precedente dalla Sarmazia, partendosi dal paese, dove già si ritirarono,
si accostavano al Danubio, parendo disposti a passarlo coll'occasione
del ghiaccio. Costanzo sul principio della primavera per tal novità andò
ad accamparsi colle truppe lungo quel fiume, nella Valeria, provincia
della Pannonia, e mandò per sapere che pensiero bolliva in capo a que'
Barbari. La risposta fu, che troppo scomodo trovavano il paese dove
s'erano rifugiati, pregando perciò l'imperadore di voler prenderli per
sudditi, con dar loro qualche sito nell'imperio, e di permettere che
venissero ai di lui piedi. Piacque e Costanzo la lor proposizione e li
ricevette ad Aciminco, creduto oggidì un borgo vicino a Petervaradino.
Era egli salito sopra un luogo eminente per ascoltar le loro preghiere,
le quali poco corrispondevano all'aria dei loro volti e alla positura
rigida delle lor teste; e mentre si preparava per parlare ad essi, ecco
un loro capo gridar _marha, marha_, segno di battaglia fra loro. Ebbe la
fortuna Costanzo di salvarsi, posto a cavallo da alcuno dei suoi
cortigiani. Fecero a tutta prima le guardie colle lor vite argine al
furor di que' perfidi, da quali fu presa la sedia imperiale coll'aureo
cuscino. Intanto l'armata romana, dato di piglio alle armi, furiosamente
volò contra de' Barbari, e a niun d'essi lasciò la vita. S'effettuarono,
poi in quest'anno le minacce di _Sapore_ re della Persia contra de'
Romani[306], avendolo spezialmente confermato a questa guerra un
Antonino, già mercatante ricchissimo della Mesopotamia, ma poscia
fallito, che si ricoverò nella Persia, e ben accolto alla corte di
Sapore, gli diede un minuto ragguaglio delle fortezze e guarnigioni, in
una parola, di tutte le forze e debolezze dell'imperio romano. Fatto
dunque un potente armamento, si mise alla testa d'un esercito, composto
almeno di centomila combattenti, assistito anche dai re d'Albania e de'
Chioniti. A tale avviso la corte dell'imperador Costanzo gran bisbiglio
fece; e gli eunuchi, che vi comandavano le feste, seppero far richiamare
dalla Soria _Ursicino_, uffiziale di gran valore e sperienza nella
guerra, per dare il comando dell'armi d'Oriente a _Sabiniano_, uomo
vecchio e poltrone di prima riga, ma ricco. Fu poi rimandato indietro
Ursicino, con titolo bensì di generale della fanteria, ma con restare la
principal autorità del comando nel suddetto Sabiniano. Passato il Tigri,
entrò il re persiano nella Mesopotamia, e per consiglio del traditore
Antonino pensava di tirar diritto all'Eufrate, e passando in Soria, di
dare il sacco a quel ricco paese, con isperanza ancora d'impadronirsene.
Ursicino ai primi movimenti del re nemico mandò ordine per la
Mesopotamia, che i popoli si ritirassero ne' luoghi forti coi lor
viveri, e che si desse il fuoco alle biade già mature, per levare ogni
sussistenza all'armata persiana. Fece parimente fortificar le ripe
dell'Eufrate, e guernirle d'armati: provvisioni che fecero mutar disegno
a Sapore, e determinarlo a portarsi all'assedio della città d'Amida.
Ammiano Marcellino, che diffusamente racconta questi fatti, vi si trovò
in persona, e suo malgrado si vide chiuso in quella città. Grande fu la
difesa di Amida fatta da quella guarnigione; pure dopo due mesi e mezzo
d'ostinato assedio, in essa entrarono per forza i Persiani. Furono
impiccati i principali degli uffiziali romani, e gli abitanti condotti
tutti in ischiavitù, a riserva di chi potè salvarsi con la fuga, come
fortunatamente riuscì ancora al suddetto Ammiano. Costò nondimeno ben
caro al re persiano un tale acquisto, perchè vi restarono morti circa
trentamila de' suoi; la qual perdita unita alla stagione avanzata
indusse Sapore a ritirarsi a' quartieri del verno nel regno suo. Nulla
fece Sabiniano, il generale primario, per soccorrere Amida, ed Ursicino
non avendo mai potuto ottenere alcun braccio da lui, fu costretto a
veder cadere quella città senza maniera di soccorrerla. Se n'andò egli
poscia alla corte dell'Augusto Costanzo, dove se gli formò addosso un
gran processo per quella perdita. Finì poi la faccenda, che Ursicino
ebbe per grazia il potersi ritirare a casa sua, con essere poi dato il
posto di generale della fanteria ad un _Agilone_ di nazion
germanica[307]. A cagione di tali disgrazie, Costanzo dalla Mesia passò
a Costantinopoli, per accudir più da vicino alle piaghe dell'Oriente, e
per reclutare le sue milizie, ben persuaso che il Persiano continuerebbe
con più vigore la guerra nell'anno vegnente. Per attestato del suddetto
Ammiano, inviò egli nel presente, Paolo, suo segretario e principal
ministro della sua crudeltà, a Scitopoli nella Palestina, a fare una
rigorosa inquisizione di chi, tanto nella Soria che nell'Egitto, avesse
consultati gli oracoli de' pagani, o commesse altre superstizioni ed
augurii per indagar l'avvenire. Moltissimi, ed anche de' primarii,
processati per questo, a diritto o torto vi perderono la vita o ne'
tormenti o per mano del boja; ed altri con pene pecuniare o coll'esilio
schivarono la morte. Per colpa anche[308] del medesimo Costanzo il
numeroso consilio di vescovi, tenuto in questo anno a Rimini, dopo aver
condannati gli errori d'Ario, e confermata la dottrina de' Padri Niceni,
andò a terminare in un lagrimevol conciliabolo, con trionfar ivi la
fazione e prepotenza degli Ariani: conciliabolo che fu poi detestato da
tutta la Chiesa di Dio.
NOTE:
[299] Ammianus, lib. 29.
[300] Gothof., Chron. Cod. Theod.
[301] Baronius, ad an. 358.
[302] Ammianus, lib. 18, cap. 1.
[303] Eunap., in Excerpt. de Legat. Tom. I Hist. Byz.
[304] Ammianus, lib. 18, cap. 3.
[305] Ammianus, lib. 18, cap. 11.
[306] Idem, ibid., cap. 5.
[307] Ammianus, lib. 19, cap. 11.
[308] Labbe, Concil. General. Baronius, Annal. Eccl.
Anno di CRISTO CCCLX. Indizione III.
LIBERIO papa 9.
COSTANZO imperadore 24.
_Consoli_
COSTANZO AUGUSTO per la decima volta, e FLAVIO CLAUDIO GIULIANO CESARE
per la terza.
Prefetto di Roma in parte di questo anno continuò ad essere _Tertullo_,
di professione pagano, che nell'anno precedente corse pericolo della
vita in una sedizion del popolo affamato, perchè i venti contrarii non
lasciavano venir le navi solite a portare i grani. L'anno presente fu
quello in cui si sconciò fieramente la competente armonia, durata fin
qui tra l'imperadore Costanzo e Giuliano Cesare, tuttochè anche in
addietro, per testimonianza d'Ammiano[309], nella corte d'esso Costanzo
abbondassero coloro che screditavano a tutto potere Giuliano, e
mettevano in ridicolo ogni azione di lui, non mai nominandolo se non con
parole di disprezzo. Avea esso Giuliano passato il verno in Parigi[310],
quando gli giunse l'avviso che gli Scotti e Pitti, popoli barbari della
Bretagna, facevano delle scorrerie nelle provincie romane di quella
grand'isola. Spedì egli colà con un corpo di soldatesche _Lupicino_
generale, uomo valoroso, ma crudele ed avaro, e così borioso, che
Giuliano ebbe ben cara questa occasione di allontanarselo dai fianchi.
Partì costui sul fine del verno da Bologna di Picardia, ed arrivò
felicemente a Londra. Altro di più non sappiamo della sua spedizione. Ma
eccoti arrivar nelle Gallie _Decenzio_, uno de' segretarii di Costanzo,
con lettere ed ordini indirizzati a _Lupicino_ (era questi andato già in
Bretagna) e a _Gintonio_ primo scudiere[311] di condurre in Levante gli
Eruli, i Batavi, i Petulanti ed i Celti, con trecento altri scelti dalle
truppe di Giuliano. Era fatta istanza di tal gente pel bisogno pressante
della guerra persiana; ma credesi che vi entrasse ancora un'invidia
segretamente portata da esso Augusto al plauso e buon concetto che
s'andava Giuliano acquistando coll'armi nelle Gallie. Intanto ad esso
Giuliano unicamente fu scritto di eseguir certi ordini dati a Lupicino.
Noi qui non abbiamo se non istorici pagani[312] che parlano di questo
fatto, e può dubitarsi della lor fede. A udir costoro, procedette
onoratamente Giuliano in tal congiuntura, col mostrarsi prontissimo
all'ubbidienza, ancorchè sommamente se ne affliggesse, perchè così
veniva a restare spogliato del miglior nerbo della sua armata, per modo
che non solamente niuna impresa poteva egli più tentare, ma restavano
anche le Gallie esposte alla violenza de' Barbari transrenani.
Rappresentò ben egli a Decenzio il pericolo del paese, e la difficoltà
di menar in Oriente que' soldati che s'erano arrolati, o pure come
ausilarii militavano con patto di non passar le Alpi; ma Decenzio non
aveva autorità di mutar gli ordini imperiali; e però scelti i migliori
soldati, senza risparmiare nè pur le guardie del medesimo Giuliano,
intimò a tutti la marcia. Giuliano[313] anch'egli volle che
abbandonassero i quartieri, e fossero lesti al viaggio. Ma si
cominciarono ad udir pianti, grida e querele di quella gente; si
sparsero biglietti pieni di lamenti contra di Costanzo e in favor di
Giuliano, quasichè si volesse condurli alla morte, facendoli pattare a
sì rimoti paesi. Giuliano, per facilitar la loro andata, ordinò che
potessero condur seco le loro famiglie, nè volea che transitassero per
Parigi, dove egli dimorava, affinchè non succedesse sconcerto alcuno. Ma
Decenzio fu di altro parere. Vennero a Parigi, e quanto quel popolo gli
scongiurava di non andare, affinchè il paese non rimanesse esposto alla
crudeltà dei Barbari, altrettanto i soldati mostravano desiderio di
restarvi. Tenne Giuliano alla sua tavola i più cospicui uffiziali,
usando con loro ogni cortesia, e facendo ad essi ogni più larga
esibizione, in guisa tale che tra queste dolci parole e l'abborrimento a
lasciar quel paese, se ne ritornarono tutti molto pensosi ed afflitti al
loro quartiere.
Ma non terminò la giornata, che i soldati già commossi dai biglietti, si
ammutinarono, e, prese l'armi, andarono ad assediar il palazzo dove era
Giuliano, e con alte grida cominciarono a proclamarlo _imperadore
Augusto_, e che voleano vederlo[314]. Fece Giuliano serrar le porte, e i
soldati costanti stettero ivi sino alla mattina seguente, in cui rotte
le porte, l'obbligarono ad uscirne, ed allora rinforzarono le
acclamazioni, dichiarandolo Augusto. Mostrò Giuliano colle parole e coi
fatti quanta resistenza potè; ma perchè i soldati minacciarono di torgli
la vita se non si rendeva, forzato fu in fine di acconsentire. Allora
posto sopra uno scudo, fu alzato da terra, e fatto vedere ad ognuno.
Occorreva un diadema per coronarlo, ed egli protestò di non averne. Si
pensò a prendere una fascia giojellata della toletta della moglie; ma
non parve buon augurio il ricorrere ad un ornamento donnesco. Fu
proposto di pigliare una redine ricamata di cavallo, acciocchè servisse
almeno all'apparenza; ma stimò la cosa vergognosa; finchè un uffizial
moro, cavatasi di dosso una collana d'oro giojellata, l'esibì, e con
questa applicatagli al capo comparve in certa maniera coronato. Il che
fatto, egli promise ai soldati cinque nummi d'oro e una libbra d'argento
per testa. Nella lettera scritta agli Ateniesi, Giuliano protesta e
giura per tutti gli dii (a molti pagani dovea costar poco un tal
giuramento) ch'egli nulla sapeva della risoluzion presa dai soldati, e
nulla operò per indurli a tale atto, e ch'egli fece quanto fu in sua
mano per sottrarsi alla lor volontà; ma che dopo aver acconsentito,
benchè per forza, non era più sicura la sua vita, se avesse voluto
retrocedere. Ne creda il lettore quel che vuole. Ammiano scrive[315] che
nella notte precedente, mentre Giuliano ondeggiava, invocando i suoi
dii, per sapere se dovea cedere al voler dei soldati, gli comparve
un'ombra, qual si dipingeva il genio del popolo romano, che gli disse
d'essere più volte venuto alla sua porta per entrare, e far lui salire
in alto; ma che se fosse rigettato anche questa volta, se ne partirebbe
ben mal contento; avvisandolo nondimeno che non istarebbe gran tempo con
esso lui. Comunque sia di questa o inventata o pazzamente creduta
fantastica visione, ci assicura Eunapio[316] che Giuliano in quella
stessa notte, avendo seco un pontefice gentile, ch'egli segretamente
avea fatto venir dalla Grecia, fece con lui certe cose, delle quali
eglino soli ebbero conoscenza, potendosi non senza fondamento sospettare
che fossero sacrifizii, o incantamenti di magia, per cercar l'avvenire,
de' quali è certo che si dilettò forte l'empio ed ingannato Giuliano.
Ritiratosi poi egli nel palazzo, parve pieno di inquietudine e
malinconia; e perchè corse nel giorno seguente voce ch'egli era stato
ucciso (scrivendo in fatti Libanio[317], essere stato guadagnato un
eunuco, suo aiutante o mastro di camera, per fare il colpo), i soldati
volarono al palazzo, e vollero vederlo, con far susseguentemente istanza
che fossero uccisi gli amici di Costanzo, i quali s'erano opposti alla
di lui promozione. Ma Giuliano protestò che nol sofferirebbe giammai, e
donò anche la vita all'eunuco suddetto. Perchè ad una parte di quelle
milizie che già erano partite arrivò dietro la nuova dell'esaltazione di
Giuliano, se ne ritornarono anch'esse a Parigi, dove esso novello
Augusto, raunata tutta l'armata, fece un'arringa, lodando il lor
coraggio, e protestando che non darebbe mai le cariche alle
raccomandazioni, ma solamente al merito: il che piacque di molto a chi
l'ascoltò.
E tale fu la maniera con cui Giuliano salì alla dignità imperiale,
verisimilmente nel marzo od aprile di questo anno. Certamente gli
storici gentili[318], partigiani spasimati di questo apostata
imperadore, cel rappresentano portato per forza al trono, e senza sua
precedente brama o contezza. Ma gli scrittori cristiani[319] furono
d'opinion diversa, e condannarono la di lui ribellione ed ingratitudine
verso Costanzo, sospettandola o credendola figliuola della di lui
ambizione. Ora, dappoichè Decenzio ebbe veduta questa scena, non tardò a
ritornarsene alla corte di Costanzo. _Fiorenzo_ prefetto del pretorio
delle Gallie, che s'era ritirato apposta a Vienna, perchè prevedeva dei
torbidi, anch'egli s'affrettò ad uscir dalle Gallie. Ebbe Giuliano tanta
moderazione, che gli mandò dietro tutta la sua famiglia, con provvederla
ancora del comodo delle poste. Vi restava il solo _Lupicino_, creduto
capace d'imbrogliar le carte. Ma Giuliano, assai accorto, spedì un
uffiziale a Bologna di Picardia, affinchè non passasse persona in
Bretagna a portargli le nuove; ed intanto con sue premurose lettere il
chiamò di là, e, ritornato che fu, il ritenne prigione. Non tardò poscia
a spedire _Euterio_ suo maggiordomo, e _Pentado_ mastro degli uffizii,
all'Augusto Costanzo con lettera, in cui rappresentava la violenza a lui
fatta, pregandolo di consentirvi, e promettendo d'ubbidire come prima
agli ordini suoi, d'inviargli alcune milizie, di accettar dalle sue mani
un prefetto del pretorio, con riserbarsi l'elezione degli altri
uffiziali. Leggesi questa lettera presso Ammiano[320]. Fece anche
scriverne un'altra dall'armata di tenor poco diverso[321]. Il bello fu
che agli ambasciatori suoi, se non falla Ammiano, diede un'altra segreta
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