Annali d'Italia, vol. 2 - 40

versione latina, laddove il testo greco ha chiaramente Εὐδωκία
_Eudocia_, siccome ancora alla facciata 74. Falla eziandio l'autore
della Miscella[1849], secondo l'edizion mia, allorchè scrive che Eudocia
fu maritata con _Trasamondo figliuolo di Genserico_. Ma è ben degna
d'osservazione una particolarità ch'egli aggiunge, taciuta da tanti
altri autori. Cioè che, dopo avere abbandonata Roma, i Vandali e Mori si
sparsero per la Campania, saccheggiando, incendiando quanto
incontrarono. Presero Capoa, e la distrussero sino ai fondamenti;
altrettanto fecero a Nola città ricchissima. Non poterono aver Napoli nè
altri luoghi forti, ma diedero il sacco a tutto il territorio, e
condussero seco in ischiavitù chi era avanzato alle loro spade. Appresso
racconta che Paolino, piissimo vescovo di Nola, dopo aver impiegato
quanto avea pel riscatto de' poveri cristiani, altro non restandogli in
fine, per compassione ad una misera vedova, andò egli stesso in Africa a
liberare un di lei figliuolo, con rimaner egli schiavo; ma, conosciuta
dipoi la sua santità, fu lasciato andar da que' Barbari con quanti
Nolani si trovavano schiavi. Sembra, è vero, a tutta prima che questo
autore abbia confuso le crudeltà commesse dai Goti sotto Alarico
nell'anno 409, dopo la presa di Roma, con quest'altra disavventura della
medesima città. Ma può stare benissimo che i Vandali portassero la loro
fierezza anche nella Campania. San Gregorio il Grande, che fiorì sul
fine del secolo susseguente, narra anch'egli il fatto suddetto di san
Paolino[1850]: _quum saevientiun Vandalorum tempore fuisset Italia in
Campaniae partibus depopulata_. E di qui si può prender maniera per
isciorre un nodo avvertito dagli eruditi, i quali trattano come favola
la schiavitù in Africa di san Paolino; perchè altro san Paolino vescovo
di Nola non riconoscono se non quello che fiorì a' tempi dei santi
Girolamo ed Agostino. Ma il padre Gianningo della compagnia di Gesù
giudiciosamente osservò[1851], aver Nola avuto più d'un Paolino per suo
vescovo, e che non sotto il primo, ma sotto uno de' suoi successori potè
succedere il fatto di quella vedova, il quale incautamente nel Breviario
e Martirologio romano vien attribuito al primo san Paolino. Ora ecco
dall'autore della Miscella autenticate le conghietture del padre
Gianningo, e doversi riferire a questi tempi la distruzione di Capoa e
di Nola, e un altro san Paolino vescovo dell'ultima città. E così
possiam credere, finchè dia l'animo ad alcuno di mostrarci che in ciò si
sieno ingannati san Gregorio Magno e l'autore della Miscella.
Sappiamo bensì che si dilungò dal vero sant'Isidoro in iscrivendo[1852]
che Genserico solamente dopo la morte di Maioriano Augusto prese e
saccheggiò Roma: il che sarebbe accaduto nell'anno di Cristo 462. È
troppo patente un anacronismo tale. Lasciò parimente Evagrio[1853], che
Roma in tal congiuntura fu data alle fiamme; ma anch'egli s'ingannò.
Pretende il cardinal Baronio[1854], coll'autorità di Anastasio
bibliotecario[1855], che i Vandali portassero rispetto alle tre primarie
basiliche di Roma, e non ne asportassero i sacri vasi: intorno a che è
di dire che non è ben chiaro quel passo. Certo è bensì che una gran
quantità di sacre suppellettili con gemme e vasi di oro e d'argento,
tolta alle chiese, trasportata fu in Africa da que' masnadieri. E
Teofane[1856] aggiugne che furono del pari menati via i vasi del tempio
di Gerusalemme, che Tito imperadore, dopo la presa di quella città, avea
condotto a Roma. Questi poi, allorchè Belisario riacquistò l'Africa al
romano imperio, per attestato di Procopio[1857], furono trasferiti a
Costantinopoli. Si raccoglie poi da san Leone papa[1858], che fu
istituita una festa in Roma in ringraziamento a Dio, perchè i Barbari
avessero, con andarsene, lasciata in libertà quella città. Del pari
merita ben d'essere qui rammentata l'incomparabil carità di
_Deogratias_, vescovo di Cartagine, di cui abbiam parlato di sopra,
giacchè questa viene a noi descritta da Vittore Vitense[1859]. Giunsero
in Africa tante migliaia di schiavi cristiani, e ne fecero la division
fra loro i Vandali e i Mori, con restar separati, secondo l'uso dei
Barbari, le mogli dai mariti, i figliuoli dai genitori. Immediatamente
quell'uomo di Dio vendè tutti i vasi d'oro e d'argento delle chiese per
liberar quei che potè dalla schiavitù, ed impetrare per gli altri che i
mariti stessero colle loro consorti, e i figliuoli coi lor padri. E
perchè niun luogo bastava a capire tanta moltitudine di miseri
cristiani, deputò per essi le due più ampie basiliche di Fausto e delle
Nuove, con letti o stramazzi da poter quivi riposare, e diede anche il
cibo giornaliero a proporzione delle persone. Non pochi parimente di
quegl'infelici erano caduti infermi a cagion de' disagi patiti per la
navigazione, o per la crudeltà di que' Barbari. Il santo vescovo, benchè
vecchio, quasi ad ogni momento li visitava insieme coi medici, e coi
cibi, perchè, secondo l'ordine di essi medici, a cadauno in sua presenza
venisse somministrato il bisognevole. E non restava neppur la notte di
far questo esercizio il pio prelato a guisa d'una amorevolissima balia,
correndo a letto per letto, e interrogando come si portava ciascuno di
quei poveri malati. Miravano con occhio livido i Vandali ariani la
mirabile carità di questo vescovo cattolico, e varie volte mancò poco
che sotto varii pretesti non l'uccidessero. Ma Iddio volle per sè da lì
a qualche tempo quest'insigne operaio della sua vigna, con tal dolore
de' cattolici di Cartagine, che allora maggiormente si credettero dati
in mano ai Barbari, quando egli passò al cielo. Tre anni soli durò il
suo vescovato, ma ne durerà presso i fedeli la memoria nel Martirologio
romano a dì 22 di marzo.
Fioriva in questi tempi con gran riputazione nelle Gallie _Avito_,
nominato più volte di sopra, di nobilissima casa della provincia
d'Auvergne, come scrisse Gregorio Turonense[1860]. Dianzi era con lode
intervenuto a varie battaglie; aveva esercitata la carica di prefetto
del pretorio delle Gallie, ed ultimamente, mentre egli si godeva la sua
quiete in villa, Massimo Augusto, conoscente non meno del di lui merito
che della probità e valore, l'avea dichiarato generale dell'esercito
romano in quelle parti. E ben ve n'era bisogno, perchè i Visigoti, i
Franchi ed altri popoli, udita la morte di Valentiniano, cominciavano a
far movimenti di guerra. Nè solamente gli conferì Massimo questa
dignità, ma gli ordinò soprattutto di stabilir la pace con Teoderico II
re de' Visigoti. A tale effetto avendo Avito mandato avanti _Messiano_
patrizio a parlare col re, anche egli appresso passò a Tolosa, e quivi
intavolò la pace desiderata. Quando ecco giugnere nello stesso tempo la
nuova che Massimo imperadore era stato tagliato in brani dal popolo e
da' soldati, e che Genserico, entrato in Roma, avea quivi lasciata la
briglia alla sua crudeltà. Allora gli uffiziali romani, e il medesimo re
Teoderico, consigliarono a gara Avito di prendere le redini
dell'imperio, giacchè il trono imperiale era voto, nè si facea torto ad
alcuno; e in Roma allora altro non v'era che pianto e miseria. Gli
promise Teoderico, oltre alla pace, anche l'assistenza sua per liberare
l'afflitta città, e far vendetta di Genserico. Se crediamo ad Apollinare
Sidonio[1861], marito d'una figliuola d'Avito stesso, egli ripugnò non
poco ad accettar questa splendidissima offerta, e fecesi molto pregare;
ma Gregorio Turonese[1862] pretende che egli stesso si procurasse un sì
maestoso impiego. In Tolosa dunque fu conchiusa la di lui assunzione al
trono cesareo; ed essendo egli poi venuto ad Arles, luogo di sua
residenza, in essa città col consentimento dell'esercito e de' popoli fu
compiuta la funzione, con esser egli proclamato imperadore Augusto, e
col prendere la porpora e il diadema. Credesi che ciò seguisse nel dì 10
di luglio. Da una iscrizione riferita dal padre Sirmondo[1863] possiamo
raccogliere che questo imperadore portasse il nome di _Eparchio Avito_.
In una sola medaglia riferita dal Goltzio[1864] e dal Mezzabarba[1865],
esso viene intitolato D. N. FLAVIVS MAECILIVS AVITVS P. F. AVG; ma non
tutte le medaglie pubblicate dal Goltzio portarono l'autentica con loro,
e senz'altro pruove, la sua non è qui decisiva. Marciano Augusto in
quest'anno si mostrò favorevole al clero, ordinando[1866] che fosse
lecito alle vedove, diaconesse e monache di lasciare nell'ultima volontà
ciò che loro piacesse, alle chiese, ai cherici e monaci: il che prima
era vietato per una legge di Valentiniano, Valente e Graziano, a cagion
d'alcuni che frequentavano troppo e con troppa avidità le case d'esse
femmine sotto pretesto di religione. Può anche appartenere al presente
anno ciò che vien raccontato da Prisco storico[1867] di questi tempi.
Cioè, ch'esso imperador Marciano, da che ebbe inteso il sacco di Roma, e
che Genserico aveva condotta seco in Africa l'Augusta _Eudossia_ colle
principesse figliuole, non potendo rimediare al male già fatto, almeno
spedì ambasciatori al re barbaro, comandandogli di guardarsi dal più
molestare l'Italia, e che rimettesse in libertà la vedova imperadrice
colle figliuole. Genserico se ne rise, e rimandò i legati con buone
parole, senza voler liberare quelle principesse. Dimorava tuttavia in
questi tempi nella città di Gerusalemme _Eudocia_, ossia _Atenaide_,
vedova di Teodosio II imperadore, e madre della suddetta Eudossia
Augusta. Racconta Cirillo monaco, nella Vita di santo Eutimio
abbate[1868], che questa principessa seguitava l'eresia degli
eutichiani, e per quante lettere le andassero scrivendo _Valerio_ suo
fratello (_Valeriano_ è questi chiamato nella Cronica d'Alessandria) ed
_Olibrio_ genero di sua figliuola, perchè abbandonasse quella setta, mai
non s'indusse a cangiar sentimenti. Si sa ancora che san Leone
papa[1869] scrisse alla medesima lettere esortatorie per questo, ed
altrettanto avea fatto Valentiniano III Augusto suo genero, ma sempre
indarno. Giunse finalmente a lei la funesta nuova ch'esso Valentiniano
era stato ucciso, e che la figliuola colle nipoti era stata condotta
prigioniera in Africa: allora Eudocia, battuta da tanti flagelli, fatto
ricorso ai santi Simeone Stilita ed Eutimio, ritornò alla fede
cattolica, con adoperarsi dipoi acciocchè molti altri abiurassero gli
errori d'Eutichete. Le parole di Cirillo suddetto ci fan conoscere vero
quanto si truova scritto da Procopio[1870] e da Teofane[1871]: cioè che
_Placidia_, figliuola minore di Valentiniano III imperadore, condotta
colla madre Eudossia e colla sorella Eudocia in Africa da Genserico, era
già maritata con _Olibrio_ nobilissimo senatore romano. Evagrio[1872]
all'incontro chiaramente scrive che Placidia, dappoichè fu messa in
libertà _per ordin di Marciano Augusto_, prese per marito esso
_Olibrio_, fuggito a Costantinopoli dopo la entrata de' Vandali in Roma.
Ma qui l'autorità di Evagrio, benchè seguitata dal Du-Cange[1873], ha
poco peso; perciocchè Placidia solamente dopo la morte di Marciano
imperadore fu posta in libertà. Sembra eziandio che Prisco, istorico di
que' tempi, asserisca[1874] seguito quel matrimonio solamente dappoichè
fu restituita alla primiera libertà questa principessa, con dire ἥν ἐγεγαμἠκει Ὀλίβιρος, cioè, secondo la versione latina del
Cantoclaro, _quam duxit Olibrius_; ma si dovea più giustamente
traslatare _quam duxerat Olibrius_.
NOTE:
[1823] Procop., lib 1, cap. 4 de Bell. Vandal.
[1824] Theoph., in Chronograph.
[1825] Prosper Tiro, in Chron.
[1826] Chronol. a Cuspiniano edita.
[1827] Cassiodorius, in Chron.
[1828] Victor Turonensis, apud Canisium.
[1829] Prosper Tiro, in Chron., edition. Canis.
[1830] Marcell. Comes, in Chron.
[1831] Histor. Miscell., lib. 15.
[1832] Reines., Inscript. Class. I, num. 39.
[1833] Goltzius, Numism.
[1834] Mediobarb., Numism. Imperator.
[1835] Theoph., in Chronogr.
[1836] Theoph., in Chronogr.
[1837] Marcell. Comes, in Chron.
[1838] Procop., lib. 1, cap. 4 de Bell. Vand.
[1839] Evagr., Hist. Eccl., lib. 2.
[1840] Idacius, in Chron.
[1841] Prosper, in Chron.
[1842] Marian. Scotus, in Chron.
[1843] Pagius, Crit. Baron.
[1844] Histor. Miscell., lib. 15.
[1845] Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 5.
[1846] Idacius, in Chronico.
[1847] Chron. Alexandr.
[1848] Priscus, tom. 1 Hist. Byz.
[1849] Hist. Miscella, tom. 1 Rer. Italicar., pag. 98.
[1850] Gregor. Magnus, lib. 3, cap. 2 Dialogor.
[1851] Acta Sanctorum, in Append. ad Vit. sancti Paulini ad diem 22 jun.
[1852] Isidorus, in Chron. Vandal.
[1853] Evagr., lib 2, cap. 7 Hist. Eccl.
[1854] Baron., Annal. Eccl.
[1855] Anastas., in Vita Leonis Magni.
[1856] Theoph., in Chronogr.
[1857] Procop., de Bell. Vandal., lib. 2 cap. 9.
[1858] Sermo LXXXI s. Leonis, in Octava Apostol.
[1859] Victor Vitensis, lib. 1 de Persecut. Vandal.
[1860] Gregor. Turonensis, lib. 2, cap 11.
[1861] Sidon., in Panegyr. Aviti.
[1862] Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 11.
[1863] Sirmondus, in Notis ad Panegyr. Aviti.
[1864] Goltzius, Numism.
[1865] Mediob., Numismat. Imp.
[1866] L. Generali I Lege, Cod. Justinian. de episc. et cleric.
[1867] Priscus, tom. 1 Histor. Byzant., pag. 73.
[1868] Cotelerius, tom. 4 Monument. Eccl., p. 64.
[1869] Leo Magnus, ep. LXXXVIII ad Julian.
[1870] Procop., de Bell. Vandal. lib. 1, cap. 5.
[1871] Theoph., in Chronogr.
[1872] Evagr., lib. 2, cap. 7 Hist. Eccl.
[1873] Du-Cange, Famil. Byzant.
[1874] Priscus, Hist. Byz., tom. 1, pag. 74.


Anno di CRISTO CDLVI. Indizione IX.
LEONE papa 17.
MARCIANO imperadore 7.
AVITO imperadore 2.
_Consoli in Oriente_ VARANE e GIOVANNI.
_Console in Occidente_ EPARCHIO AVITO AUGUSTO.

Non per anche dovea Marciano Augusto avere riconosciuto _Avito_ per
imperadore, e però egli solo creò i consoli in Oriente. Ma
infallibilmente sappiamo che Avito, già dichiarato Augusto, ed accettato
per tale dal senato romano, anzi invitato da esso a Roma, prese il
consolato di quest'anno in Occidente. Abbiamo qualche iscrizione in
testimonianza di ciò, che si legge anche nella mia Raccolta[1875]. E
soprattutto resta il panegirico recitato in Roma per tale occasione in
onore d'Avito da Apollinare Sidonio, celebre scrittore di questi
tempi[1876]. Il Relando[1877], che differisce all'anno susseguente il
consolato d'Avito, non ha ben fatto mente che in questo medesimo anno
Avito precipitò dal trono. Venuto egli dunque a Roma, spedì, per
attestato d'Idacio[1878], i suoi ambasciatori (fors'anche gli avea
spediti prima) a Marciano imperadore d'Oriente; e, secondochè scrive il
medesimo storico, fu approvata la sua elezione. Ma perciocchè gli Svevi,
che signoreggiavano nelle provincie occidentali della Spagna, mostravano
gran voglia di far dei movimenti, anzi infestavano la provincia di
Cartagena, Avito ad essi ancora inviò per ambasciatore _Frontone_ conte,
e pregò _Teoderico II_ re de' Visigoti che anch'egli, siccome suo
collegato, mandasse un'ambasceria a que' Barbari per indurli a conservar
la pace giurata colle provincie che restavano in Ispagna all'imperio
romano. Andarono gli ambasciatori, ma non riportarono se non delle
negative da quegli alteri. E _Rechiario_ re d'essi Svevi, che _Riciario_
è appellato da Giordano storico, per far ben conoscere qual rispetto
egli professava ai Romani e Goti, corse a far dei gran danni nella
provincia tarraconense. Questo fu il frutto delle premure
dell'imperadore Avito e di Teoderico re de' Visigoti. Oltre a ciò,
racconta Prisco istorico[1879] che Avito imperadore mandò in Africa
altri ambasciatori ad intimare a Genserico re dei Vandali l'osservanza
dei patti stabiliti un pezzo fa coll'imperio romano; perchè altrimenti
gli muoverebbe guerra colle milizie romane e de' suoi collegati.
Marciano Augusto probabilmente in questo medesimo anno, giacchè nulla
avea fruttato la spedizione precedente, inviò di nuovo ad esso re
_Bleda_, vescovo ariano, cioè della setta degli stessi Vandali, per
dimandare la libertà delle principesse auguste e la conservazione della
pace. Bleda parlò alto, minacciò, ma nulla potè ottenere. Anzi
Genserico, più orgoglioso che mai, seguitò in Africa a perseguitare i
cattolici, come a lungo racconta Vittore Vitense. Inoltre, per relazione
del suddetto storico Prisco, con una numerosa flotta d'armati andò a
sbarcare di nuovo nella Sicilia e ne' vicini luoghi d'Italia, con
lasciar la desolazione dovunque arrivò. Procopio anch'egli attesta che
Genserico, dopo la morte di Valentiniano, non lasciò passar anno che non
infestasse la Sicilia e l'Italia con prede incredibili, rovine delle
città e prigionia de' popoli. Aggiugne Vittore Vitense[1880] che questo
re divenuto corsaro coi Mori antichi corsari, afflisse in varii tempi
_la Spagna, l'Italia, la Dalmazia, la Campania, la Calabria, la Puglia,
la Sicilia, la Sardegna, i Bruzii, la Venezia, la Lucania, il vecchio
Epiro e la Grecia_, con perseguitare dappertutto i cattolici, e farvi
de' martiri. La menzione che questo scrittore fa della _Campania_ dà
credito al racconto dell'autore della Miscella, riferito da me all'anno
precedente intorno all'eccidio di Capoa e Nola, e al passaggio in Africa
di san Paolino juniore vescovo di Nola. Vengono ancora confermate le
scorrerie di questo re crudele dal poco fa mentovato Idacio, scrivendo
egli che essendo capitate cinquantanove navi cariche di Vandali da
Cartagine nella Gallia, o pur nell'Italia, spedito per ordine di Avito
imperadore contra coloro _Recimere_ conte suo generale, gli riuscì di
tagliarli a pezzi. Soggiugne che un'altra gran moltitudine di que'
Barbari nella Corsica era stata messa a filo di spada.
Vedendo intanto Teoderico II re dei Visigoti che gli Svevi
signoreggianti nella Gallicia niun conto aveano fatto degli ambasciatori
loro spediti, secondochè si ha da Idacio[1881] e da Giordano
storico[1882], tornò ad inviarne loro degli altri, nè questi ebbero
miglior fortuna. Anzi poco dopo Rechiario re d'essi Svevi con grosso
esercito ritornò addosso alla provincia tarraconense, e ne condusse via
un immenso bottino con gran numero di prigioni. Giordano aggiugne aver
risposto l'altero Rechiario a Teoderico, che se non la dismetteva di
mormorare di lui, sarebbe venuto fino a Tolosa, e si sarebbe veduto se i
Goti avessero forze da resistergli. Allora Teoderico perdè la pazienza,
e, per ordine dello stesso Avito Augusto, allestito un poderoso esercito
di Goti, dall'Aquitania passò in Ispagna, per fare un'ambasciata di
maggior vigore a que' Barbari. Seco andarono _Giudiaco_, ossia
Chilperico re de' Borgognoni, colle lor soldatesche. Dodici miglia lungi
da Astorga, oggidì città del regno di Leone, si trovò a fronte d'essi il
re degli Svevi _Rechiario_ col nervo maggiore delle sue genti presso il
fiume Urbico nel quinto giorno di ottobre. Fecesi un sanguinoso fatto di
arme; furono totalmente sconfitti gli Svevi, il re loro ferito potè per
allora mettersi colla fuga in salvo. Giunto poscia il vittorioso
Teoderico alla città di Braga, nel dì 28 d'ottobre, la prese, la diede a
sacco, fece prigione gran quantità di Romani, non fu perdonato nè alle
chiese nè al clero; insomma tutto fu orrore e crudeltà. Trovandosi poi
esso re nel luogo Portucale, onde è venuto il nome di Portogallo, gli fu
condotto prigione il re suddetto Rechiario, il quale si era messo in una
nave fuggendo, ma da una tempesta di mare fu menato in braccio ai
Visigoti. Ancorchè fosse cognato di Teoderico, da lì a qualche tempo
restò privato di vita. Allora Teoderico diede per capo agli Svevi, che
s'erano sottomessi a lui, _Aiulfo_ suo cliente, e dipoi passò dalla
Gallicia nella Lusitania. Ma questo Aiulfo non istette molto che,
sedotto dagli Svevi, alzò la testa contra del suo benefattore; e male
per lui, perchè venuto alle mani con Teoderico, e rimasto in quella
battaglia preso, lasciò la testa sopra d'un patibolo. Ottennero dipoi
gli sconfitti Svevi, per mezzo de' sacerdoti, il perdono da Teoderico,
ed ebbero licenza di eleggersi un capo, che fu _Remismondo_. In tal
maniera furono gastigati gli Svevi, ma colla desolazion del paese, e
senza profitto alcuno del romano imperio; perciocchè quelle provincie
vennero sotto il dominio dei Visigoti. Tutto questo racconto l'abbiamo
da Giordano e da Idacio; e l'ultimo d'essi riferisce questi fatti in due
diversi anni, ma probabilmente non senza errore, perchè appresso narra
la caduta di Avito imperadore, la qual nondimeno accadde in questo
medesimo anno. Il suddetto re Teoderico II vien lodato assaissimo da
Apollinare Sidonio[1883] per le sue belle doti.
Come poi cadesse _Avito_ dal trono, se ne ha un solo barlume dall'antica
storia, cioè solamente è a noi noto che Avito standosene in Roma, ed
accortosi che quivi non era sicurezza per lui, mercè della persecuzione
mossa contra di lui da _Ricimere_, si ritirò come fuggitivo a Piacenza.
Dopo la morte d'Aezio, era stato conferito a questo Ricimere il grado di
generale delle armate cesaree. In una iscrizione rapportata
dall'Aringhi[1884] egli è chiamato _Flavio Ricimere_. Ennodio[1885] ci
rappresenta costui di nazione _Goto_. Ma è più da credere ad Apollinare
Sidonio, autore contemporaneo ed amico d'esso Ricimere, allorchè attesta
che egli era nato di _padre svevo_ e di _madre gota_, e nipote di Vallia
re d'essi Goti o, vogliam dire, Visigoti. Questi Barbari, sollevati ai
gradi più insigni dell'imperio romano, contribuirono non poco alla
rovina d'esso imperio. Se s'ha da prestar fede a Gregorio
Turonense[1886], Avito, perchè lussuriosamente vivea, fu abbattuto dai
senatori. _Quum romanum ambisset imperium luxuriose agere volens, a
senatoribus projectus_. Però da Fredegario, nel Compendio[1887] del
Turonese, Avito vien chiamato _imperator luxuriosus_. Inoltre egli
racconta, che avendo Avito, già divenuto imperadore, finto di essere
malato, e dato ordine che le senatrici il visitassero, usò violenza alla
moglie di un certo Lucio senatore, il quale, in vendetta di questo
affronto, fu cagione che i Franchi prendessero e consegnassero alle
fiamme la città di Treveri. Ma si può ben sospettare che queste sieno
fole e ciarle inventate da chi gli volea male. In quei pochi mesi che
Avito tenne l'imperio, dimorò in Arles, da cui è ben lungi Treveri, e di
là poscia passò a Roma. Il gran peso ch'egli prese sulle spalle, gli
dovea ben allora lasciar pensare ad altro che a sforzar donne; e
massimamente non essendo allora egli uno sfrenato giovane, ma con molti
anni addosso, giacchè sappiamo da Sidonio che fin l'anno 421 egli fu
dalla sua patria spedito ambasciatore ad Onorio e Costanzo Augusti.
Oltre di che, sembra ben poco credibile l'ordine che si suppone dato da
lui d'essere visitato dalle senatoresse nella finta infermità. E quando
sia vero che Avito, dopo aver deposto l'imperio, fosse creato vescovo di
Piacenza, tanto più si intenderebbe che egli non dovea essere quale vien
dipinto dal Turonense e dal suo abbreviatore, perchè lo zelantissimo
papa san Leone non avrebbe permesso che fosse assunto a tal grado chi
fosse pubblicamente macchiato d'adulterii e di scandali. Perciò parmi
più meritevol di fede Vittore Turonense[1888], che ci rappresenta Avito
per un buon uomo, con iscrivere: _Avitus, vir totius simplicitatis, in
Galliis imperium sumit_. In somma Avito, benchè venuto a Roma e
accettato da' Romani, non tardò molto ad esserne odiato, se pur tutta la
sua disgrazia non fu il trovarsi egli poco in grazia di Ricimere general
delle armate, la cui prepotenza cominciò allora a farsi sentire, e
crebbe poi maggiormente da lì innanzi, siccome vedremo. Avito adunque,
scorgendo vacillante il suo trono, perchè, siccome notò Idacio[1889],
s'era egli fidato dell'aiuto a lui promesso dai Goti impegnati nelle
conquiste in Ispagna, nol potevano punto assistere: Avito, dissi, si
ritirò da Roma, e giunto a Piacenza, quivi depose la porpora e rinunziò
all'imperio.
Perciocchè si trovò allora vacante il vescovato di quella città, per
maggiormente accertare il mondo che la sua rinunzia era immutabile,
prese gli ordini sacri, e fu creato vescovo di essa città di Piacenza.
Di questo suo passaggio abbiamo per testimoni Mario Aventicense[1890] e
l'autore della Miscella[1891]. Vittor Turonense[1892] scrive anch'egli
che _Ricimere patrizio superò Avito, e perdonando alla di lui innocenza,
il fece vescovo di Piacenza_. Parole che ci fanno abbastanza intendere
che Avito per forza fu indotto a deporre il comando, e ch'egli non
doveva essere quel tristo che fu pubblicato da Gregorio Turonense, e
molto più da Fredegario. Il Cronologo pubblicato da Cuspiniano[1893]
scrive che nel dì 17 di maggio (del presente anno) _Avito fu preso in
Piacenza dal generale Ricimere, e che restò ucciso Messiano suo
patrizio_. Aggiugne che Remisco, patrizio anch'esso, trucidato fu nel
palazzo di Classe, cioè fuor di Ravenna, nel dì 17 di settembre. Bisogna
dunque che in Piacenza colto Avito da Ricimere si accomodasse alla di
lui violenza, e si contentasse di mutar la corona cesarea in una mitra.
Ma poca durata ebbe il di lui vescovato; perciocchè, secondo Gregorio
Turonense[1894], avendo egli scoperto che il senato romano tuttavia
sdegnato contra di lui, meditava di levargli la vita, prese la fuga, e,
passato nelle Gallie, voleva ritirarsi nell'Auvergne sua patria; ma
nell'andare alla basilica di san Giuliano presso Brivate (oggidì
Brioude) con assaissimi doni, cadde malato per istrada, e terminò i suoi
giorni. Fu egli poscia seppellito nella basilica suddetta. Anche Idacio
scrive che mentre Teoderico re dei Visigoti dimorava nella Gallicia, gli
fu portata la nuova che Avito dall'Italia era giunto ad Arles. Poca fede
prestiamo ad Evagrio[1895], allorchè dice rapito Avito dalla peste, e
meno a Niceforo[1896], che il fa morto di fame. Conviene bensì ascoltar
Teofane[1897], che sotto quest'anno ci fa sapere, che la città di
Ravenna fu consumata dal fuoco, e da lì a pochi giorni _Ramito patrizio_
(appellato Ramisco, siccome abbiam veduto, dal Cronografo del
Cuspiniano) fu ucciso appresso Classe, e che deciotto giorni dopo restò
superato Avito da _Remico_ (vuol dire _Ricimere_), e che creato vescovo
della città di Piacenza, essendo passato nelle Gallie, quivi diede fine
ai suoi giorni. Dieci mesi e mezzo restò poi vacante l'imperio, nel qual
tempo, per attestato di Cedreno[1898], senza titolo d'imperadore
Ricimere la fece da imperadore, governando egli a bacchetta la
repubblica. Abbiamo da Mario Aventicense[1899], sotto quest'anno, che i
Borgognoni, parte de' quali era passata in Ispagna, unita a Teodorico II
re de' Visigoti, giacchè i Goti erano impegnati contro gli Svevi nella
Gallicia, e scarso era l'esercito romano nelle Gallie, occuparono alcune
provincie d'esse Gallie, cioè le vicine alla Savoia, e divisero le terre
coi senatori di quei paesi. Mancò di vita in quest'anno _Meroveo_ re de'
Franchi; ed ebbe per successore _Childerico_[1900] suo figliuolo, il
quale, perchè cominciò a far violenza alle fanciulle, incorso nello
sdegno del popolo, fu stretto a mutar aria, e a rifugiarsi appresso
_Bisino_ re della Toringia. Era stato creato generale dell'armata romana
nelle Gallie un certo _Egidio_. Seppe questi col tempo farsi cotanto
amare e stimare dai Franchi, che l'elessero per loro re. Stima il
cardinal Baronio[1901], ed han creduto lo stesso altri moderni, che nel
presente anno essi Franchi mettessero il piè stabilmente nelle Gallie,
ma ciò non sussiste. Seguitarono essi a dimorare di là dal Reno, finchè,
siccome diremo, riuscì loro di cominciar le conquiste nel paese delle
Gallie.
NOTE:
[1875] Thes. novus Inscript.
[1876] Sidon., in Panegyr. Aviti.
[1877] Reland., Fast. Cons.
[1878] Idacius, in Chron.
[1879] Priscus, tom. 1 Histor. Byz., pag. 73.
[1880] Victor Vitensis, lib. 1, cap. 17 de persecut.
[1881] Idacius, in Chron.
[1882] Jordan., de Reb. Get., cap. 44.
[1883] Sidon., lib. 1, epist. 2.
[1884] Aringhius, Rom. Subterran., lib. 4, cap. 7.
[1885] Ennodius, in Vita s. Epiphanii.
[1886] Gregor. Turon., lib. 2, cap. 11 Hist. Franc.
[1887] Fredegar., Hist. Franc. Epitom., cap. 7 et 10.