In faccia al destino - 20

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— In conclusione, qualche tempo fa la signora Redegonda ispedì a Guido
una certa somma, quella lì sulla tavola, che ottenne dal marito perchè
il figlio pagasse alcuni debiti. Oh non una gran somma! Ma per di più
la buona donna annunciava che Learchi assegnava al figlio un tanto al
mese, sempre per estinguere quei famosi debiti e non farne altri.
— Guido però ne ha abbastanza, per la famiglia, di quel che guadagna e
dell'assegno materno....
— Guadagna davvero, Guido — asserì Marcella.
—.... e Guido desidera assumersi lui il credito che avete voi con
Claudio.
Me l'aspettavo!
— Capite? — interloquiva Marcella per aiutar la madre. — Non abbiamo
più alcun timore per l'eredità.... La belva è ammansata. Senza
sacrificio possiamo mettere in disparte qualche cosuccia ogni anno....
— Eccovi intanto cinquemila lire in contanti — conchiuse Eugenia
porgendomi il pacco, e quindicimila in cambiali in bianco, con la firma
di Guido e della signora Redegonda.
Che dire?
— Non vi offenderete.... — pregavano a una voce Eugenia e Marcella.
— Lo sa Claudio? — domandai.
— Sì; e trova giusta la cosa.
Allora dissi:
— Sia dunque fatta la vostra volontà! Ma vi dichiaro che non credo sia
della signora Redegonda la parte principale di questa storia: è vostra,
cara Marcella.
Ella rise, pur protestando:
— Ho detto la verità; credetemi.
Eugenia mi porse la mano.
— La restituzione della somma non ci sdebiterà con voi. La nostra
gratitudine è anzi più grande perchè non ve ne avete a male.
Eh! Altro che avermene a male! Accettando, affrettavo la mia felicità.
Infatti Marcella preparava il secondo tiro; e si valeva questa volta
del fratello per lanciare una bomba a dirittura.
Mino in quel giorno di festa passeggiava e correva per ogni parte con
un libro (chiuso) in mano; tanta aveva voglia di studiare! Con Marcella
abbondava in carezze: a un certo punto si vide che le confidava le
sue pene. Ne seguì un lungo colloquio; ma mentre fratello e sorella
andavano a braccetto su e giù per la loggia, m'insospettirono le
occhiate che il ragazzo mi volgeva di traverso. Poi, a un tratto, egli
cercò Ortensia e le balzò al collo a baciarla senza dir nulla. La udivo
gridare per liberarsene:
— Diventi matto?
Che diavolo mai gli aveva suggerito Marcella?


XII.

Prolungando la nostra aspettazione e acuendo la nostra curiosità il
cavalier Fulgosi accresceva l'importanza della notizia che ci aveva
promessa.
— Cavaliere, la notizia? — La notizia, cavaliere?
Resistè fino a mezzo il desinare; poi solennemente, dall'alto della sua
prosopopea cominciò:
— Signore e signori! Ho, non dico l'onore, non dico il piacere, ma
la _bonne chance_ di parteciparvi per primo che l'esimia artista di
canto signorina Anna Melvi da qualche giorno ha giurato fede di sposa
all'egregio giovane signor....
— Ingegner Arturo Roveni! — conchiuse precipitosamente Marcella.
A un oh! di stupore seguiron particolari commenti.
— Disgraziata! — fece Moser.
— Bene accompagnati! — mormorò Ortensia.
E Eugenia guardandomi:
— Così va il mondo!
Io tacevo. Provavo un senso di nausea e nello stesso tempo
un'apprensione di malefizio.
— Che interesse ha avuto Roveni a legarsi a quella donna? — chiesi al
cavaliere.
— Anna guadagna molto — Marcella disse ingenuamente. — Canta benissimo.
— Benissimo! — ripetè il cavaliere, che era rimasto deluso dalla
consapevolezza di Marcella. — Ma se ella, signora mia, ha appreso
dai giornali ciò che io ho appreso per partecipazione diretta, ella,
mi consenta dirlo, non può sapere il perchè o i perchè di questo
matrimonio. Io sono in grado di rispondere alle dimande del dottor
Sivori.
Si fece assoluto silenzio; ma allora l'eloquenza del cavaliere arrembò
dinanzi a una difficoltà non preveduta nel primo slancio. Bisognava
parlare in modo da non offendere orecchie caste, e proprio allora non
gli vennero in mente frasi inglesi che fossero del caso.
— Sono due le versioni che corrono di così inopinato avvenimento.
Secondo l'una.... ehm!... si tratterebbe di.... riparazione. Mi spiego?
L'ingegnere.... ehm! si sarebbe lasciato cogliere dalla signora Melvi
madre....
— Basta! — esclamò Claudio. — Se continua, cavaliere, chi sa dove va a
finire!
— Secondo l'altra versione, che ho da miglior fonte....
— Sentiamo! — interruppi io —; perchè la prima è inverosimile. Roveni
non è uomo da riparare!
— Secondo, dicevo, una miglior fonte, un _gentleman_ inglese del
Transvaal, capitato a Milano quando Anna cantava al _Lirico_, se ne
sarebbe innamorato e....
— Avanti! — comandò Moser.
L'oratore proseguì di corsa:
—.... l'inglese avrebbe offerto un impiego nelle miniere all'ingegner
Roveni, altro ammiratore della diva, e l'ingegnere avrebbe sposata la
diva per compenso, e tutti e tre en bon ménage sarebbero partiti da
Milano alla volta del Transvaal. Mi sono spiegato?
Moser rispose: — Anche troppo!
— Questo è certo che gli sposi sono già in viaggio.
Dopo una pausa Fulgosi mi domandò se la seconda versione mi pareva
più verosimile ed io risposi che la credevo nel vero. Era uno scandalo
degno dei personaggi!
—.... Per _savoir vivre_ — il cavaliere concluse senza più timore di
pericolare — bisogna _savoir faire_. La fortuna il più delle volte è
soltanto _ruse_.
Ora bisogna sapere che quando il cavaliere parlava, Mino l'ascoltava
con ammirazione manifesta. Che brav'uomo!, pareva dire il ragazzo ad
ogni vocabolo francese o inglese ch'egli non capisse.
Ma di ciò che non capiva Mino non aveva mai chiesto schiarimento; forse
per una riverenza quasi religiosa che gli imponeva di non sciupare
l'efficacia del misterioso eloquio, o forse perchè pensava: verrà il
giorno che ti comprenderò anch'io! Se non che a quella parola _ruse_,
o fosse per la sua propria singolarità di suono o fosse per il modo
perfettamente parigino con cui il cavaliere la pronunciò, il ragazzo
rimase sbigottito. Che conseguenza ebbe questo sbigottimento! Produsse
lo scoppio della bomba che Marcella aveva predisposta e affidata al
fratello, dopo colazione.
— _Ruse_ — Mino si provò a ripetere. — Cosa vuol dire?
Io, che avevo visto negli occhi di Eugenia e di Ortensia quant'esse
disdegnavano la teoria del cavaliere e che sentivo il bisogno di
sfogarmi, risposi:
— _Ruse_, nel significato che vi attribuisce il cavalier Fulgosi,
vuol dir accortezza per far quattrini a prezzo dell'infamia; vuol dire
sguazzare nel fango senza affogarvi; vuol dir l'abilità di contaminare
la virtù, l'onore, la dignità umana senza incorrere in alcuna pena.
Il cavaliere s'inchinò esclamando: — Bravo!
Ma tant'è la significazione che può assumere una parola, che Moser
rivolto a Mino aggiunse per conto suo:
— Quella parolaccia vuol dire anche che non sempre chi ha ingegno, è
bravo, ha voglia di lavorare, è un galantuomo. Chi poi non ha nemmeno
voglia di studiare....
Ne prevedesse, del tutto o in parte, la conclusione morale Mino
interruppe il padre con un'affermazione che gli pareva incontestabile:
— Io sono un galantuomo!
— No — ritorse l'altro, inquieto. — Chi non ha voglia di studiare non
è un galantuomo!
Ma Mino non tacque. Consultò, guardandola, Marcella, e nel modo di chi
medita tra sè e sè, disse:
— Adesso dovrò studiare più di due ore al giorno perchè non ci posso
più andare, in collegio.
— Eh?!
A quell'eh?! paterno ma feroce io e Ortensia ci scambiammo un'occhiata
che diceva «ci siamo», e invano Ortensia cercò di trattenere il
fratello chiamandolo a nome; anzi fu peggio.
— In collegio non ci vado più! — il ragazzo rispose, risoluto, a suo
padre.
Questi con uno sguardo più feroce che mai gli imponeva di chiarire il
perchè di così nuova oltracotanza; e la spiegazione precipitò mentre
Marcella abbassava gli occhi sul piatto.
— Chi ci resta con te e la mamma se Ortensia sposa Sivori?
Che cosa accadde alla rivelazione? Non è difficile immaginarlo. Io feci
una risata sciocca; Ortensia, rossa rossa, gridò: — Ma Mino! —; Mino
gridò: — È stata Marcella! —; Marcella gridò: — Non è vero! — in modo
da confermare l'accusa; Eugenia sorrideva guardandomi e il cavaliere
era già in piedi col bicchiere in mano e un _toast_ sulla punta della
lingua, aspettando che Claudio deponesse la forchetta. Perchè Claudio
faceva paura, in parola d'onore: i suoi occhi partendo da Mino avevano
scrutato foscamente ogni volto intorno alla tavola e a scorgere gli
indizi di una complicità universale egli era rimasto con la bocca
aperta, non per ricevere il boccone che la forchetta tratteneva a
mezz'aria, ma per lasciar passare un'esclamazione tremenda che non
voleva uscire. Per fortuna dovè pensare che era impossibile infilzarci
tutti quanti se prima non liberava la forchetta d'ogni impedimento,
e ingoiò il boccone; e il boccone respinse in gola l'esclamazione
tremenda; sicchè, dopo, Claudio non seppe più che dire.
Disse:
— M'avete preso, tutti quanti, per un imbecille?
Nessuno rispose; o meglio, per timore del proverbio «chi tace conferma»
credemmo meglio ridere tutti in una volta.
— Dunque è vero? — urlò egli con l'arma rivolta verso il principale
colpevole, che ero io e tacevo.
Chi tace conferma: sì, è vero non che tu sei un imbecille, ma che io
sono felice!
E Ortensia mi salvò. Si alzò; venne a susurrare non so quali portentose
parole all'orecchio del padre. Vittoria! Claudio mosse all'indietro la
testa per attingere dagli occhi della figliola una conferma e, persuaso
alla fine che essa diceva sul serio, si diè per vinto benchè gridasse:
— Son brutti scherzi!... Una congiura!... Un tradimento! — E con voce
già malsicura: — Ma se è vero.... Cavaliere, faccia pure il brindisi!
— Bene auspicando.... — Etcetera: il brindisi si prolungò in
un'orazione che ebbe per termine il motto _sursum corda_! S'alzarono
invece i bicchieri, ma al tocco di essi parve proprio che si toccassero
i cuori.
Quando ci levammo da tavola io non pensai affatto a disingannare
Claudio; il quale, sempre per uscir dal dubbio d'essere quel che aveva
detto, borbottava: — Un tradimento! Tutti d'accordo.... anche Mino! È
stato un tradimento!
Io ero ansioso di giustificarmi con Eugenia.
Ella parlò prima di me.
— Lo sapevo da un pezzo che vi volevate bene.... Ma se l'avessi saputo
anche prima, quando — vi ricordate? — vi dissi, lassù, delle intenzioni
di colui....
— Il mio silenzio d'allora — esclamai —; la mia dissimulazione fu la
mia colpa. Voi saprete perchè tacqui?
— L'ho immaginato: Ortensia era tanto giovane! Eppoi, non volevate
ammogliarvi....
Non bastava a mia scusa; e la buona donna cercò togliermi ogni traccia
di rimorso:
— La colpa, del resto, fu più mia che vostra. Io, io avrei dovuto
accorgermene.... Ma è un destino che in certe cose io sia come Claudio:
non abbiamo occhi per vederle al momento opportuno. E forse....; io lo
credo, Carlo: credo che voi e lei siate stati provati così duramente
per essere più felici adesso.
Era una felicità troppo grande?
Eugenia sembrò leggermi negli occhi la dimanda e non potè non dire di
Roveni e della Melvi:
— Ora quei due.... se ne vanno lontani; non abbiamo più nulla da temere.
Marcella udì queste parole. E poichè io mi accompagnavo a lei, nel
prato, per ringraziarla del suo tiro birbone, anche lei prevenne quel
che volevo dirle, e scampando in altro discorso, disse sommessamente:
— È strano! Un'impressione, di ieri....; e me ne son ricordata solo
poco fa. Quando a Bologna, fummo scesi dal treno, e cercavamo l'uscita,
mi parve di veder uno che rassomigliasse a Roveni in una carrozza di
coda.... Un'impressione, vi ripeto. Non poteva esser lui. Ma è strano
che non ci abbia più pensato affatto.
Io.... Ah io l'avevo ancora la spina nel cuore!
— Che hai? — mi chiedeva Ortensia.
— Finalmente! — risposi soltanto all'anima mia.
Finalmente potevam dirci che tutti sapevan del nostro amore. Però
nessuno al mondo immaginava quanto ci amavamo!
Ma appena l'aria si fu rinfrescata io presi a braccio il cavalier
Fulgosi (che era ancora insolitamente rosso e faceva complimenti a
Marcella fin in Milanese) e lo sottoposi a un'inquisizione.
— Da chi aveva appreso che i Roveni eran già in viaggio?
Aveva la prova in tasca; e mi esibì un biglietto di Anna datato da
Milano e scritto press'a poco in questi termini: «Sul punto di partire
per Genova e per altri lidi sento il dovere di ringraziarla di quanto
fece per me, anche a nome di mio marito». Il marito aveva aggiunto di
proprio pugno: «Saluti dal suo dev. Roveni».
— In relazione?... Ecco: si era imbattuto in Anna un giorno, sotto la
Galleria.... Essa gli aveva annunziato il suo imminente matrimonio.
Come evitare di mandarle un _bouquet_ il dì delle nozze? Era stato lui,
il cavaliere, a introdurla al _Lirico_....
— E dal giorno dell'incontro non s'eran più riveduti?
— No: in fede di gentiluomo!
— E quel giorno avevan parlato d'altro? dei Moser?
— Anna aveva chiesto: I Moser sono a Bologna, è vero?
(Il cavaliere ebbe una reticenza).
— Dovevo non dire di sì?
— Soltanto? Non aveva detto qualche cosa di più?
— Anna aveva domandato, sempre con aria di semplice curiosità: «Lei
andrà a trovarli?» Ed egli s'era schermito con un «forse». Null'altro,
in fede di gentiluomo!
Ma ahi! Anche i gentiluomini possono dimenticare qualche parola di
poca importanza. — Il cavaliere, per esempio, potè dimenticarsi d'aver
risposto, invece, che andrebbe a trovare i Moser «forse.... tra qualche
giorno».
Io però, allora, mi tenni pago, anzi contento dell'inchiesta. — Non
c'era dubbio! Marcella senza dubbio si era ingannata! I coniugi Roveni
navigavano per altri lidi.


XIII.

E alla Rita....
Lasciatemi indugiare in questi grati ricordi. Sono di un uomo che
per troppo tempo aveva sol visto, in tutti e in tutto, infelicità e
tristezza.
Fino il sorriso che i miei poveri ammalati trovavano al mio saluto, mi
era, in questi giorni, d'augurio; e tornando dalle loro case ristavo al
rezzo dei pioppi.
Nei fossati scorrevano limpide le acque; nei maceri, già ripuliti
della canepa, si specchiavano nitidamente case e alberi; nei campi le
glebe riflettevano il sole dal netto taglio dell'aratro e le grida
che incitavano i buoi passavan lente ma non sgradevoli, quali voci
di tranquilla pazienza; dalla terra dissodata, dalle vigne cariche
d'uva e dalle acaciaie sorgevano festose schiere di passeri e storni,
e invisibili nel più cristallino cielo di settembre, le allodole
s'inebriavano di voli, di trilli e di sole. Osservavo e ascoltavo....
Né io potevo più sentir punture della spina che mi restava nel cuore,
se Dio con tanto impeto di vita mi penetrava nel cuore. — Dio, Dio
mi voleva felice! Dio doveva aver attutito la vendetta nel cuore del
perfido, che ora navigava dimentico....
E alla Rita dissi che, che secondo l'usanza del paese, mi preparasse
presto gli zuccherini nuziali. Non mi credeva, credeva scherzassi.
Ma poichè insistetti, mi domandò se la sposa sarebbe quella che
s'intendeva lei, la figliola del signor Claudio?
— Certo! Chi vuoi che sia?
Non scherzavo; e la vecchia cominciò a urlare:
— Biondo, correte! Correte!
Il Biondo sapeva che la moglie da cinque mesi giuocava, ogni settimana,
più numeri che con cabala sapiente aveva ricavati dalla gran disgrazia
dello zingaro, e perciò egli trottò verso di noi domandando:
— Son venuti? Ambo o terno?
I quattrini fan sempre piacere! Ma la moglie rispondeva:
— L'ha avuto lui, il signor Carlo, il terno secco! Meglio di un terno
secco ha avuto! Non vedete che faccia? Non ve lo dicevo: date tempo al
tempo?
E così via; finchè il Biondo ebbe appreso che la mia sposa era proprio
quella che s'intendeva lui:
— La figliola del signor Claudio!
Si trasse la berretta e alzando la testa e le braccia al soffitto
cantò, col più sincero fervor religioso: _Te Deum laudamus!_
Ma dopo, per tutto quel giorno, il Biondo tenne le palpebre abbassate.
Chi gliele avesse alzate avrebbe forse aperta la strada a due
lagrimoni. E non segò nè piallò, quel giorno; nè andò nel campo a
guardar all'uva; non andò in paese a comprar tabacco. Solo fece fretta
alla moglie che mi preparasse la cena e, n'avessi voglia o no, fui
condotto a cenare mezz'ora prima del solito. Mentre io cenavo il
vecchio veniva sempre a farmi compagnia. Quella sera però egli taceva,
e invano cercava un pizzico nella tabacchiera. A un tratto mi diresse
uno sguardo di sottecchi e contemporaneamente una domanda, che mi fece
ridere!
— Me lo sa dire lei perchè il Signore non m'ha dato un figlio?
In verità io non potevo sapere quel che ignoravano lui e la Rita!
Ma egli non attese alla celia, e adagio adagio, come soleva, mi disse
che se il Signore non gli aveva dato un figlio poteva ben dargli un
figlioccio; e che un figlioccio sperava d'averlo se il primo figlio che
mi nascerebbe glielo lascerei tenere al battesimo. Fui per rispondere:
è un onore!; perchè mio figlio o mia figlia (egli si contentava
anche di una figlioccia) non avrebbe potuto desiderare per santolo un
galantuomo più galantuomo del Biondo. Parve invece che troppo onore
fosse concesso a lui e che egli avesse studiato il modo di meritarlo.
Riprese a dire che non poteva dimenticarsi dei miei vecchi, da cui
aveva ricevuto del bene; e che io e lui eravamo senza parenti degni,
e che la sua donna aveva quel tal nipote sciupone e vizioso; e la
sua donna poteva chiamare erede anche il nipote se così le piaceva;
e che lui, a sua volta, nominerebbe erede chi più gli piacerebbe.
In sostanza, il podere che era stato dei miei vecchi potrebbe tornar
proprietà della mia famiglia e dei miei discendenti.
— Dipende da lei — concluse il Biondo, tabaccando senza tabacco fra le
dita.
Io gli espressi la mia gratitudine scherzando ancora.
— Ah! dipende da me? Dunque se tu non ne hai avuti dei figlioli....
Comprese dove sarei andato a parare; scrollò il capo e il fiocco
della berretta; mi minacciò con la mano e rise, e trottò via leggero a
comperar il tabacco. Rimasi a considerare quel che un tempo io aveva
pensato del Biondo; liberale, lo credevo, soltanto nel regalar le
casserelle per i piccoli morti; galantuomo sì, ma non alieno dallo
sfruttarmi per avarizia.
Dalle quali considerazioni non favorevoli anch'esse alla mia
psicologia, ne sorgeva un'altra contraria del tutto al mio antico
pessimismo.
Alla generosità con cui mi ero prestato per Moser facevan riscontro la
generosità della signora Redegonda per un verso, e la generosità del
Biondo per l'altro.
Sarebbe vero che chi semina bene raccoglie bene?


XIV.

Ma quale fu il mio stupore allorchè, giungendo due giorni dopo alla Ca'
Rossa, Ortensia mi venne incontro e mi disse tranquilla, sebbene un po'
pallida:
— Anna mi ha scritto!
— Non è partita! — esclamai; e pensai: «Marcella non s'ingannò! Roveni
era a Bologna».
— È partita — Ortensia continuò. — Ti confesso che ho voluto leggere
alcune righe della sua lettera infame e stupida prima di stracciarla.
Diceva in principio: «Quando riceverai questa mia, sarò molto lontana.»
Era la lettera che io aveva temuta da tanto tempo!; la lettera della
calunnia e della vendetta: solo che Roveni, invece di mandarla anonima,
aveva voluto che sua moglie, con ardimento degno d'entrambi, affermasse
o confermasse lei ad Ortensia la colpa della madre e mia.
— E tua madre, sa?...
— No. Per fortuna la mamma era entrata in casa allora, quando il
portalettere mi fece segno, mi chiamò dal cancello. Non gridò, come al
solito, «posta!»
«Ecco perchè — pensai — Roveni venne a Bologna». E chiesi:
— Che data aveva la lettera? Hai visto? — insistetti io.
— Sul timbro di Genova c'era un quindici: son certa.
— Già; alla metà d'ogni mese partono molti vapori da Genova....
Rapidamente facevo tra di me questo calcolo: il nove od il dieci
settembre Anna aveva inviato al cavaliere il biglietto datato da
Milano; l'undici Fulgosi e Marcella erano alla Ca' Rossa.
Mentre Anna partiva per Genova, Roveni aveva potuto seguir Marcella
e il cavaliere a Bologna; prendervi disposizioni perchè la lettera
andasse a posto, proprio in mano d'Ortensia, essere il quattordici a
Genova; dettare e spedir la lettera, e imbarcarsi colla moglie. Tutto
ciò era possibile; verosimile, vero. Era vero dunque che i nostri
nemici navigavano per altri lidi! Finalmente m'era tolta del tutto la
spina del cuore!
Infatti Ortensia diceva:
— Un'infamia stupida! Ho visto che Anna mi dava la notizia del suo
matrimonio, eppoi:
«E tu, Ortensia, quando ti sposi? Bando agli scrupoli!...»
Nel riferire queste parole Ortensia ebbe il volto improntato del
velenoso sorriso che Anna aveva dovuto avere scrivendole. Ma si
ricompose; tornò lei, fiera e cosciente della sua fierezza: — Non ho
letto altro! Ho stracciato...; non ho voluto un nuovo rimorso. Il solo
rimorso che mi resta sai quale è? Quello d'aver ascoltato il giuramento
che tu mi facesti a Molinella. Per me doveva essere inutile!
— Io, io, — esclamai — non avrei dovuto giurare quel che non è dubbio:
che il sole passa sul fango e non s'imbratta! La virtù di tua madre è
limpida come il sole! Ma io cercavo il momento di prevenire l'ultimo
colpo, che mi aspettavo, che è venuto; io cercavo, piuttosto che
difendermi, difenderti da una nuova offesa....
— Povero Carlo, avesti ragione: ma adesso siamo tranquilli per sempre.
Nessuna ombra turberà più la nostra felicità!
Oh nel dirmi questo che luce Ortensia aveva negli occhi!... Eppure
libero da ogni dubbio, io aveva tuttavia bisogno di schiarirmi l'azione
di Roveni.
Aveva potuto credere che in tanti mesi non avessi preso alcuna
precauzione contro la sua vendetta? Rispondevo ch'egli era convinto
che io fossi stato l'amante di Eugenia. E la sola precauzione di sicura
efficacia che io avrei potuto prendere sarebbe stata appunto quella di
predisporre Ortensia a respingere l'odiosa accusa assicurandola con un
giuramento. E Roveni non mi credeva uomo da giurare il falso. Dunque
sperava certo l'effetto da lui sperato nella lettera di Anna.
Ma Roveni non avrebbe dovuto prevedere che Ortensia straccerebbe la
lettera accusatrice? No — mi rispondevo — Roveni sa che Ortensia
è fiera e forte. Chi è fiero e forte straccia prima di leggerla
un'anonima; non la lettera di un nemico. — E infatti Ortensia aveva
letto quanto a parer di lui sarebbe bastato al suo fine.
Così mi dicevo. — Eppure nella vendetta del nostro nemico sentivo
ancora qualche cosa di inferiore, di meschino; mi pareva inferiore alla
sagacia di lui quella sua gita di lui a Bologna per poi fare impostare
la lettera a Genova e studiare qua il modo più sicuro perchè la lettera
andasse a posto.
Ma la smania della vendetta rende gretti l'animo e l'intelligenza. E
che torbidi commovimenti doveva dare la passione a un uomo come Roveni!
Pensavo: quando egli possedeva Ortensia nella sua immaginazione,
attendendo di possederla in realtà, che cosa lo tratteneva dal cedere
alle seduzioni di Anna Melvi? Il confronto fra Anna e Ortensia. Le
delizie che gli promettevano la bellezza di Ortensia superavano di
tanto le tentazioni della Melvi che lui uomo sensuale, resistette; non
si compromise. Ora fra le braccia di Anna quel confronto sarà tornato
alla sua mente, e quale tempesta avrà suscitato nella sua mente e nel
suo animo! Quale disgusto avrà egli di quella donna, e quale amarezza
gli darà il pensiero del bene perduto! Anna, che non ha mai amato, Anna
da cui ha un aiuto ignobile, l'accompagnerà da per tutto per rimprovero
continuo della sua bassezza; Anna già lo vincola per pena della sua
sconfitta, lo stringe per incitamento ai rimorsi....
Che castigo sarebbe questo se Roveni non trovasse lenimento nella
vendetta! E perciò si capisce quello studio, quella cura a far
pervenire ad Ortensia, con assoluta certezza, la infame lettera. Ma
Roveni ha commesso un errore più grande del mio! Io non conobbi lui; ma
lui non ha conosciuto Ortensia. — Così mi dicevo.
Ma no: anche con tutto questo, troppo, troppo in basso mi pareva che
Roveni fosse precipitato! La immagine di lui s'affoscava ancor più
nella penombra in cui egli stesso aveva sempre cercato d'involgersi.
Qualcuno o qualche cosa al di fuori della volontà sua mi pareva dover
averlo spinto a tale abiezione.
Il destino? Forse il destino si era valso di Roveni quasi di uno
strumento cieco? Sì: forse era stato necessario che quell'uomo
attraversasse il nostro cammino e si comportasse in tali modi perchè
io, dopo uno stato d'infelicità morbosa e con l'amore, l'errore, il
rimorso, riuscissi a concepire altrimenti la vita; perchè Ortensia,
dopo tanti patimenti ed affanni e con l'energia del suo animo, fosse
risollevata a quella fede nella vita ch'ella sola aveva saputo ridarmi.
Ma se così era, oh io potevo finalmente guardare al destino senza più
trepidare! Chiaramente ora vi leggevo il perchè della umana necessità
del soffrire: per l'elevazione dello spirito umano. La nobiltà, la
redenzione del dolore, ecco quel che cominciavo a leggere in faccia al
Destino!


XV.

E perchè la vecchia Rita faceva bagnar dalla guazza e imbiancar
dal sole la tela più fina ch'essa tessè al tempo delle sue materne
speranze? Un corredo di tovaglie e tovaglioli era forse il dono che
destinava alle mie nozze. — E perchè il Biondo si era dato a rilevar di
scalpello sul legno, lavorando zitto e cheto e accarezzando l'opera con
sguardo d'artista, di dietro gli occhiali e di sotto le cateratte? Non
componeva una delle solite casserelle: forse una culla?...
Solo affliggeva il povero Biondo il prossimo obbligo d'indossare, per
la prima volta in vita sua, un vestito pienamente nero. — Il sarto, che
glielo faceva, andava propalando per tutto il paese che sarebbe appunto
il Biondo uno dei testimoni al matrimonio del dottor Sivori. Sempre
fortunato quel vecchio!
È già nella tabella delle pubblicazioni matrimoniali, appesa nell'atrio
del Municipio, si leggevano insieme il mio nome e quello di Ortensia.
Se non che a non pochi quel cognome di Moser urtava i nervi; le ragazze
di Molinella si chiamano più alla buona; nè perciò ve n'era alcuna
disposta a ritenersi inferiore per bellezza a una straniera, francese
o inglese o tedesca che fosse, e per bella che fosse! Intanto Ortensia
ripeteva: — Sono contenta! —, con la stessa vivacità d'una volta. Era
contenta perchè avevo acconsentito che si celebrassero le nozze non a
Milano o a Bologna, ma al mio paese; era contenta perchè un giardiniere
disegnava aiuole nel prato della mia vecchia casa, e perchè nelle
vecchie camere si rinnovavano le tinte e le stampe senza mutarle....
— Ma tu, mamma, non sei contenta?
— Che vuoi? — Eugenia le rispose una sera. — Stento a credere che devi
lasciarmi anche tu.
Per abituarsi a questo pensiero Eugenia si pose al collo il vezzo di
perle che portava lei quand'era fidanzata....

Ed io benedicevo il giorno che nacqui, se fin da quel giorno m'era
destinata la felicità che m'attendeva imminente; benedicevo le
tristezze della mia fanciullezza pensosa e della mia adolescenza
solinga; benedicevo le audacie e gl'inani sforzi della giovinezza
ambiziosa e le rodenti invidie e le frenesie dell'orgoglio, indomito
prima e poscia abbattuto, se per tutti questi mali avevo meritato il
bene che mi attendeva; benedicevo la mortificazione delle energie
fisiche in cui m'ero annichilito e l'intorbidamento della mente
e l'abbassamento dello spirito, se m'erano stati mali necessari
affinchè tanta gioia mi venisse con la guarigione, la purificazione e
l'elevazione di tutte le mie facoltà; benedicevo la scienza che pur
dopo le ruinose delusioni m'aveva serbato tanto di sè da lasciarmi
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